Educare alla vita.
Le Esperienze pastorali di don Milani cinquant'anni dopo

di Christian Albini e Lorenzo Gaiani

Don Lorenzo Milani morì a 44 anni il 26 giugno 1967 per un tumore ai polmoni. Breve e travagliata, la sua esperienza umana ha fatto di lui una delle figure più significative della storia della Chiesa
italiana nel XX secolo, mettendo quasi in secondo piano i pur importanti contributi di riflessione formulati nei suoi scritti1.
In un contesto politico e religioso pietrificato nel conformismo e nel «muro contro muro» fra cattolici e comunisti, don Milani seppe uscire dalla logica di parte in nome della coerenza evangelica che lo
portò alla scelta preferenziale per i poveri. Una scelta che concretizzò dedicando tutte le energie all'istruzione dei più giovani, attori di un'auspicata rivoluzione sociale fondata sul cambiamento della
persona. Provocatorio e critico, fu «scomodo» e discusso, soprattutto dentro la Chiesa, che oggi invece lo celebra al punto da definirlo — sulle pagine del quotidiano della CEI — un «prete santo»2.
Dalle riflessioni condotte nello svolgere il suo ministero nella parrocchia di Calenzano (Fi) nacque il libro Esperienze pastorali di cui ci occupiamo in questo scritto. Si tratta dell'unico testo
direttamente attribuibile a don Milani (Lettera a una professoressa è un'opera collettiva dei ragazzi della sua scuola, ovviamente sotto la sua direzione, mentre L'obbedienza non è più una virtù è una
raccolta postuma di testi diversi)3 ed ebbe una storia tormentata. Ricevuto il 29 luglio 1957 il nihil obstat dal censore ecclesiastico (il domenicano p. Reginaldo Santilli), ebbe Ximprimatur del card. Elia
Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, il 21 agosto successivo. Comparso cinquant'anni fa, nella primavera del 1958, con la prefazione di monsignor Giuseppe D'Avack, vescovo di Camerino, il libro suscitò
subito forti polemiche e nel dicembre successivo il Sant'Ufficio ne ordinò il ritiro dalle librerie e il divieto di ristampa e traduzione (ma non lo pose all'Indice).
Vale la pena di ritornare oggi a Esperienze pastorali perché, sebbene meno noto ed elogiato di Lettera a una professoressa, è il testo in cui meglio si colgono le radici delle riflessioni e delle scelte di
don Milani. In un momento in cui la figura del sacerdote toscano viene «riabilitata» ed evocata da più parti — persino dalla politica, che lo indica come uno dei punti di riferimento del centro-sinistra4 —,
è alto il rischio che di lui prevalga un'immagine edulcorata e «addomesticata». E se è vero che il contesto socio-religioso è profondamente mutato negli anni, le istanze portate avanti da questo prete
coraggioso e radicale possono essere raccolte ancora oggi, in quanto in grado di fare da stimolo, se giustamente interpretate, a chi prende sul serio la propria cittadinanza e la propria fede,
trasformandole in impegno attivo.

1. Un libro controverso

Esperienze pastorali condensa alcuni degli aspetti più evidenti, e a prima vista più contraddittori, della figura e del pensiero di don Milani, del suo amore intenso e sofferto per la Chiesa. In primo luogo
la sua fede salda e senza compromessi, espressa con chiarezza in una lettera a don Ezio Palombo: «Tu sai che mi piace far guidare la mia vita da Dio anche nei più minuti particolari, ma questo non significa
ch'io mi abbandoni all'onda del sentimento o dell'ispirazione o del caso. Mi faccio guidare da Dio e non dagli uomini»5. Proprio dalla fede derivava l'assoluta dedizione di don Milani alla Chiesa e alla sua
missione6, la ragione di fondo che lo spinse a scrivere Esperienze pastorali: un libro in cui l'istruzione era presentata come momento di raccordo tra vita e fede e perciò come una priorità per i sacerdoti.
Una novità assoluta per il periodo. La fedeltà alla Chiesa non gli impediva comunque di assumere posizioni «fuori dal coro» se in esse riconosceva una strada migliore di quelle consuete.
Contenuti e linguaggio dell'opera erano tali da rendere inevitabile lo scatenarsi di polemiche, specie in una fase complessa come quella del lungo tramonto del pontificato di Pio XII. Negli anni difficili
della ricostruzione postbellica il pontefice aveva lanciato il progetto di una mobilitazione sociale, cercando di rafforzare il più possibile la presenza cattolica per dare vita a una nuova società
cristiana. In questo disegno l'attenzione alla dimensione politica era decisiva e si concretizzava nella competizione con il PCI e nell'impegno diretto del clero e delle associazioni cattoliche per favorire
la prevalenza elettorale della DC. Un atteggiamento che spingeva le varie componenti del mondo cattolico a pensarsi e a presentarsi come un fronte necessariamente unico e unito su metodi e obiettivi7. Non a
caso, l'opera di don Milani venne giudicata problematica nella sua estrema libertà di linguaggio e soprattutto nell'analisi della situazione pastorale e dei rimedi proposti. Da parte di non poche riviste
cattoliche furono avanzate critiche severe e La Civiltà Cattolica stroncò duramente il volume8.
Per la prima volta un autore, oltretutto sacerdote, sottoponeva, sia pure con metodi molto empirici, una porzione della Chiesa italiana a un serrato esame di tipo sociologico per trarne delle implicazioni
generali di ordine pastorale e politico, mettendo sotto accusa le metodologie formative più accreditate, contestando il ruolo dell'associazionismo cattolico tradizionale (e in particolare quello dell'Azione
Cattolica, all'epoca guidata dalla forte personalità di Luigi Gedda) e rimproverando alla compagine ecclesiale nel suo insieme l'infedeltà ai principi stessi dell'insegnamento sociale della Chiesa. Il libro
di don Milani, perciò, non poteva che incontrare forti resistenze.

2. Don Milani a San Donato di Calenzano

Per comprendere al meglio il contenuto di Esperienze pastorali vale la pena di soffermarsi brevemente sugli anni vissuti dal suo autore a San Donato di Calenzano. Don Milani vi arrivò il 9 ottobre 1947, a
tre mesi dall'ordinazione, dopo un incarico provvisorio come cappellano a Montespertoli. Calenzano, località a metà strada tra Firenze e Prato, allora era un borgo rurale di circa 1.200 abitanti, in
prevalenza operai che lavoravano nelle aziende tessili di Prato. «C'erano poi contadini, muratori, cavatori, artigiani e commercianti. Politicamente era spaccata in due: comunisti e democristiani. I primi,
di gran lunga più numerosi, frequentavano la casa del popolo, i secondi la parrocchia e i circoli dell'ACLI» 9. Il nuovo cappellano inizialmente si ritrovò ad assistere il parroco nell'amministrazione dei
sacramenti e nella pastorale ordinaria e si fece carico dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola. Nell'autunno del 1949 prese l'iniziativa di avviare un corso di alfabetizzazione serale, con
diploma finale riconosciuto dal Provveditorato agli studi. Le lezioni si svolgevano il venerdì sera, al termine dell'orario di lavoro. Era l'inizio dell'impegno educativo di don Milani, che avrebbe portato
poi progressivamente alla nascita della «scuola popolare», in cui non ci si limitava all'alfabetizzazione, ma si praticava un'istruzione a tutto campo, finalizzata a rendere i più poveri, nei limiti del
possibile, autonomi e consapevoli delle proprie scelte e dei propri giudizi. Era l'impegno cui egli poi si sarebbe dedicato anima e corpo una volta giunto a Barbiana.
L'osservazione della realtà e il contatto diretto con le persone erano le vie maestre del suo operare. Ogni mattina, dopo la Messa, scendeva in paese per le proprie commissioni e utilizzava ogni occasione
per attaccare discorso con chi incontrava. Soprattutto con i giovani, gli operai e i contadini, affinché capissero l'importanza dell'istruzione e accettassero di frequentare la scuola popolare. Durante il
giro delle benedizioni delle famiglie si intratteneva a lungo a parlare con la gente, soprattutto con chi era lontano dalla Chiesa.
Don Milani si rese conto che la religione, nella vita dei parrocchiani praticanti, non aveva un'importanza determinante. Il persistere delle forme tradizionali della religiosità nascondeva una sostanziale
mancanza di fede e di consapevolezza del significato degli atti liturgici ai quali i fedeli partecipavano (ma sarebbe meglio dire che si limitavano ad assistervi). L'attenzione di don Milani riguardava
anche le condizioni di vita dei suoi parrocchiani e lo portò a riscontrare in molte case la mancanza di servizi primari (quali luce, acqua, servizi igienici e in taluni casi anche letti), assieme a piaghe
sociali come la disoccupazione e lo sfruttamento del lavoro minorile. Inoltre, egli rimase particolarmente colpito dal basso livello d'istruzione dei più poveri. In breve tempo il giovane cappellano
individuò una stretta connessione tra scristianizzazione, povertà e ignoranza.
Nella mancanza d'istruzione don Milani coglieva un handicap pesante, che inchiodava i poveri alla loro condizione. «La vita moderna richiede al cittadino un crescendo di prestazioni intellettuali (politica,
sindacato, burocrazia, ecc.) che non erano richieste al bracciante del secolo scorso. Nel campo del lavoro poi già oggi la posizione degli operai non qualificati è diventata insostenibile. [...] Non è
dunque esagerazione sostenere che l'operaio d'oggi col suo diploma di quinta elementare è in stato di maggior minorazione sociale che non il bracciante analfabeta del 1841»10. La povertà si misura dunque
sul grado di cultura. Discorso analogo valeva per la mancanza di fede: «Fondamento della preghiera liturgica è il possesso della Dottrina. Fondamento della Dottrina è (a mio avviso) quel minimo di
padronanza del linguaggio che dovrebbe distinguer l'uomo dalla bestia, ma che manca invece a gran parte di questo popolo»11.
All'osservazione don Milani unì una vicinanza concreta ai parrocchiani e ai loro problemi. Si interessava degli anziani, dei malati, dei disoccupati. Quando un operaio morì in un cementificio lasciando
moglie, due figli, un cognato malato e un affitto da pagare, si impegnò di persona per far costruire una casa per i familiari, coinvolgendo i giovani e alcuni muratori. Un analogo episodio si verificò
quando tre famiglie di contadini si ammalarono di febbre maltese e lui, tramite il fratello medico, riuscì a procurare loro le medicine necessarie facendole arrivare dagli Stati Uniti. I gesti di carità
fraterna del sacerdote erano accompagnati da una grande modestia nello stile di vita. Don Milani era convinto che i «lontani» non bastasse andarli a cercare: occorreva essere credibili ai loro occhi. Badava
dunque a che il suo stile di vita non fosse superiore a quello dei parrocchiani e rifiutava comodità come l'automobile. Infatti, per gli spostamenti usava sempre una bicicletta malconcia. La sua paga di
cappellano era spesa nell'acquisto di libri e quaderni per la scuola o per aiutare i poveri. Non accettava offerte in denaro per la celebrazione della Messa.
Alla luce di questi fatti, si comprende che Esperienze pastorali non è un libro che nasce a tavolino, quanto piuttosto dall'immersione del suo autore nella realtà parrocchiale e nella totale identificazione
con il proprio ministero.

3. Il messaggio di fondo

Dalla sua pubblicazione, nel 1958, Esperienze pastorali ha avuto finora nove edizioni. È un testo di 477 pagine suddiviso in due parti. Nella prima sono analizzati, in quattro capitoli, la fede del popolo
di San Donato (attraverso l'amministrazione dei sacramenti); la ricreazione come «metodo» pastorale tradizionale cui ricorrevano i parroci per avvicinare i fedeli alla Chiesa; l'istruzione civile;
l'indirizzo politico dei parrocchiani. Nella seconda parte vengono descritte le condizioni di vita della popolazione attraverso indicatori economici e sociali quali la situazione abitativa, i flussi
migratori dai monti e dalle campagne verso le città, l'attività lavorativa.
Ci soffermiamo ora sugli aspetti salienti dell'opera.
a) La scristianizzazione come dato di partenza
Agli occhi dell''establishment ecclesiastico dell'epoca, che mirava a riaffermare con forza la presenza cristiana in Italia, Esperienze pastorali era un libro pericoloso in quanto sosteneva che la
scristianizzazione del nostro Paese poteva già considerarsi cosa fatta. Era una tesi esposta al termine della prima parte del volume, dove don Milani scriveva testualmente che «il popolo, su cui il
comunismo ha lavorato e fatto presa, non solo non era già più cattolico, ma neanche cristiano e neanche religioso»12. L'acuta disamina della vita sacramentale, delle devozioni, dei riti (o, per meglio dire,
dei ritualismi) in cui si manifestava l'esperienza ecclesiale della sua gente, portava il sacerdote fiorentino a constatare che spesso il rapporto con la Chiesa era ridotto a pura e semplice superstizione.
Il fatto che la quasi totalità dei parrocchiani fosse stata battezzata, avesse ricevuto un'istruzione religiosa, partecipasse alle ricorrenze del culto e richiedesse la presenza del sacerdote all'atto delle
nozze o al momento della morte, secondo don Milani poteva tranquillamente coniugarsi con una vita lontana dalla fede13.
In effetti, simili considerazioni erano dirompenti e provocatorie, soprattutto perché non venivano formulate da un sacerdote operante in quelle periferie urbane a prevalenza operaia in cui si realizzava il
«divorzio» fra Chiesa e lavoratori o nella pianura rurale scossa dai roventi scontri fra braccianti e agrari, ma piuttosto da un pastore che viveva fra gente di montagna: proprio quella che si riteneva la
frontiera di un'appartenenza ecclesiale ancora indenne dai mali del tempo.
Più ancora, colpiva il fatto che don Milani non si perdesse nelle spire di una facile apologetica contro il comunismo ateo e libertario (anche se tutta la sua esistenza fu marcata da un anticomunismo
coerente)14, ma piuttosto evidenziasse come al fondo degli atteggiamenti diffusi nella comunità vi fosse una «mancanza di insegnamento religioso», a sua volta riconducibile a «quel substrato di ignoranza
civile sulla quale l'istruzione religiosa [...] non ha potuto stare in piedi»15.
b) Le finalità delle scelte pastorali
Se dovessimo individuare le linee di fondo del pensiero di don Milani, potremmo dire che alla base di tutto vi stava una preoccupazione profondamente religiosa: ottenere la salvezza eterna della sua gente
tramite la piena adesione alla verità di Cristo. La sua tensione religiosa, tuttavia, non cedeva all'insidia dello spiritualismo, per cui si guarda alla fede come «cosa dell'anima» che si dissolve nella
pura interiorità senza riferimento ai modi ordinari di vita (famiglia, lavoro, rapporti sociali, politica)16. Se la salvezza riguarda tutto l'uomo e tutti i suoi mali, la missione della Chiesa non può
ignorare le concrete condizioni storiche in cui la sua esistenza si svolge e non può non schierarsi dalla parte dei poveri, cioè di coloro che maggiormente subiscono le conseguenze del peccato. Il più
grande limite a una piena umanità è l'ignoranza, nel senso letterale di non conoscenza di cose e di fatti, che si traduce in limitazione della libertà di pensiero e di azione. E il superamento di questo
limite che mette le persone in condizione di accogliere consapevolmente la verità cristiana. L'annuncio del Vangelo, pertanto, rendeva necessaria una trasformazione del contesto economico-sociale in cui si trovavano tanti suoi parrocchiani.
c) La scuola come raccordo tra fede e vita
Giungiamo così al problema della «parola», della «lingua» come barriera insormontabile per il povero, sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello spirituale. «Dopo quel che ho detto, non mi pare
difficile dimostrare che un parroco che facesse dell'istruzione dei poveri la sua principale occupazione e attività non farebbe nulla di estraneo alla sua specifica missione (mi sia consentita l'eresia,
ormai che è consacrata quella un po' più grave del prete che ha la sua principale attività nel ricreatorio). Come padre non può permettere che i suoi figlioli vivano a livelli umani così differenti e che la
maggioranza viva anzi a un livello umano così inferiore al suo e addirittura non umano. Come evangelizzatore non può restare indifferente di fronte al muro che l'ignoranza civile pone fra la sua 17
predicazione e i poveri».
L'analfabetismo generava pessimi cittadini e pessimi cristiani, esposti alle mode del momento piuttosto che alle menzogne dei nemici della Chiesa, la quale, peraltro, poco faceva per sviluppare le capacità
critiche delle persone che ancora a essa si rivolgevano. Era quindi inevitabile e dolorosa la situazione del sacerdote che «si dispera per queste folli incongruenze della campagna e per il modo formalista e
festaiolo con cui la gente si avvicina ai Sacramenti e per il contrasto brutale che c'è nel suo popolo tra maggioranza di voti comunisti e totalità di popolo in chiesa per Pasqua, oppure tra passione per
l'apparato esterno delle feste e rifiuto di cercare il perdono di Dio dopo ogni peccato»18.
Si spiega così la centralità che la scuola ha assunto nella prassi di don Milani, ben distinta dai metodi pastorali allora prevalenti, che puntavano sulle forme ricreative, sulle associazioni cattoliche e
sulla religiosità popolare. Era una scuola, la sua, non puramente nozionistica, ma che voleva fornire al povero la capacità di padroneggiare la lingua, di leggere la realtà che lo circondava e in questo
modo di poter anche riconoscere la verità trascendente19. Era un modo di intendere l'educazione come il raccordo tra fede e vita. Infatti, gli alunni cui veniva dedicata più attenzione erano quelli
maggiormente svogliati o in difficoltà. Finché questi non avevano capito, gli altri non andavano avanti: un'applicazione del primato evangelico degli ultimi. Nello stesso tempo l'accesso alla conoscenza
rendeva anche il povero più attento e consapevole rispetto ai suoi diritti nei confronti del ricco e del potente, e quindi capace di cambiare la società, il che per don Milani non era un fine in sé (come
dimostra la sua famosa lettera al giovane militante comunista Pipetta, in cui dice esplicitamente che anche dopo la vittoria contro i ricchi il cristiano non potrà sentirsi appagato)20, ma una conseguenza
positiva della presenza di cristiani consapevoli, capaci di lottare per la giustizia con maggiore energia di altri perché portatori di un messaggio più alto.
Nella seconda appendice di Esperienze pastorali, la Lettera a don Piero, don Milani ci porta direttamente al cuore delle sue preoccupazioni sociali, descrivendo gli abusi perpetrati sui suoi giovani
parrocchiani da padroni senza scrupoli che si pretendono cristiani, e denunciando l'impotenza, se non la connivenza, dei poteri pubblici di fronte ad angherie e soprusi. Formula quindi la domanda più
coraggiosa, se cioè la Chiesa sostenendo la DC non finisca per appoggiare anche un sistema di potere assai lontano dallo spirito cristiano.
Di qui le famose «tre proposte» lanciate per trovare una risposta a quella domanda. La prima è quella di ritirarsi dalla politica, con gerarchia ecclesiastica, preti e laici impegnati in un esame di
coscienza che duri qualche decennio. La seconda è quella di un impegno radicale, senza sconti per nessuno sui principi e sui mezzi, a eliminare il predominio del potere economico e sostituirlo con il
dominio di una legge morale che ponga i diritti di Dio e dell'uomo al di sopra di ogni diritto terreno. La terza proposta delinea una sorta di «via media», con una netta distinzione fra il ruolo dei
sacerdoti e quello dei laici: i primi impegnati a delineare e attuare un programma coraggioso di evangelizzazione e di promozione sociale delle masse; i secondi occupati a risolvere i problemi politici e
sociali, ma «a conto loro, come privati cittadini che cercano di avvicinarsi all'ideale cristiano e sanno di non riuscirci e non presumono di esserne l'incarnazione autorizzata»21.
Per don Milani, formare veri cittadini e veri cristiani era più importante della lotta a tutto campo contro il comunismo o del fiancheggiamento del partito cattolico, e perciò nella sua scuola non
accoglieva i ragazzi selezionandoli in base alle convinzioni delle proprie famiglie, né faceva opera di propaganda, pur non trascurando la dimensione politica dei problemi22. La strada intrapresa da don
Milani non puntava a trasmettere dei contenuti dottrinali, ma si basava unicamente su una testimonianza in cui era la sua stessa persona ad annunciare Cristo. «In sette anni di Scuola popolare non ho mai
giudicato di farci dottrina. E neanche mi sono preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a non dire stupidaggini, e non lasciarle dire, e a non perdere tempo. Poi ho
badato a edificare me stesso, a essere come io avrei voluto che diventassero loro. Ad aver io un pensiero impregnato di religione. Quando ci si affanna a cercare apposta l'occasione di infilare la fede nei
discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece un modo di vivere e di pensare»23. E l'apparente paradosso di un insegnamento che,
proprio perché profondamente cattolico nelle intenzioni, era aconfessionale e autenticamente laico nella pratica.

4. Attualità di una provocazione

Il mondo di Calenzano e ancor più quello di Barbiana conosciuti da don Milani oggi non esistono più. La sua opera educativa era legata, oltre che alle particolari circostanze in cui si era trovato a
operare, al suo indubbio carisma.
Una combinazione del genere non è riproducibile a piacere ed egli si guardò bene dal proporre la propria scuola come un modello da seguire; non desiderava che proseguisse dopo la sua morte. La sua
personalità intransigente, per di più, non lo portava a interloquire con altri alla ricerca di mediazioni per le proprie idee.
Che cosa resta, allora, di don Milani? Innanzitutto la forte testimonianza di un'esistenza totalmente spesa per Dio e per gli altri, fino a tramutare in lezione di vita anche la malattia24. Inoltre, restano
alcune intuizioni che conservano una salutare carica di provocazione per la Chiesa e per la società di oggi. Ci limitiamo a enunciarle brevemente, con l'auspicio che vengano riprese e approfondite. La
diagnosi sulla scristianizzazione della società italiana ha anticipato i tempi e andrebbe presa in seria considerazione. I nostri vescovi parlano del persistere di una Chiesa di popolo che può essere
lievito nella pasta e minoranza trainante. È vero che il cattolicesimo conserva una presenza capillare e diffusa nel Paese, ma bisogna capire in quale misura esso è capace di rivolgersi ai «lontani», oltre
che ai «vicini», e quanto tra i praticanti sia tuttora diffuso il ritualismo denunciato da don Milani.
Il rischio che l'azione politica della Chiesa ne oscuri la missione evangelizzatrice è riemerso. Le «tre proposte» di don Milani andrebbero riprese anche oggi, opportunamente reinterpretate, in un momento
in cui la Chiesa vive una stagione di forte coinvolgimento nel dibattito politico. La vicenda del sacerdote di Barbiana ricorda ai credenti che questo genere di impegno non dovrebbe prevalere sulla
vicinanza sollecita alle persone e alle loro fragilità. Altrimenti la Chiesa rischia di essere percepita solo come un'istituzione che persegue interessi di parte e cerca di accrescere il proprio potere.
La missione della Chiesa dovrebbe mirare maggiormente all'educazione per rendere le persone capaci di comprendere la realtà e di scegliere consapevolmente. Sarebbe la necessaria premessa all'ascolto del
messaggio evangelico. In questa intuizione ci sono delle assonanze con alcuni recenti orientamenti pastorali emersi al Convegno ecclesiale di Verona del 2006: per annunciare il Vangelo nel mondo che cambia,
i cristiani dovrebbero intraprendere un lavoro formativo che aiuti a maturare una fede adulta e «pensata», mettendo al centro di questo impegno la persona e gli ambiti della sua esistenza.
Le Esperienze pastorali di don Milani provocano a non lasciare le buone intenzioni sulla carta e invitano a passare ai fatti, con coraggio e passione simili a quelli da lui testimoniati per tutta la vita
nella missione sacerdotale e nell'attività di maestro ed educatore.