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PORTO D'ADDA E LA MADONNA DELLA ROCCHETTA. NOTIZIE STORICHE.
(Carate Brianza, 1916)

PORTO D'ADDA

CAPO I
Porto d'Adda - Il guado - Battaglia di Cornate - Commercio di transito nel secolo XIII - Battaglia di Bagna - Torre di Porto - Dominazione spagnuola.


Porto d'Adda, oggi grossa frazione del comune di Cornate, deve il suo nome al passo del fiume.
Il paesello, con le sue case coloniche e civili sparse in amena posizione lungo l'alta sponda dell'Adda, dà un senso di benessere e di allegria.
Serie congetture ci portano a credere che il guado di Porto fosse conosciuto e praticato, per lo meno, fin dall'epoca romana. Di qui, secondo il Lupi, passava una strada romana che dalla Venezia metteva nella Liguria, discendendo da Medolago per risalire a Porto superiore verso Cornate. E nei dintorni di Cornate si rinvennero infatti monete romane del periodo imperiale. (1)
Tutti sanno l'importanza che avevano i guadi nell'antichità quando cioè o non esistevano o erano rarissimi i ponti. Perciò, probabilmente, dal passo di Porto, invece che sotto alla vicina villa Paradiso come ritenne il padre Ferrari nelle sue Lettere Lombarde (Milano 1765), guadarono l'Adda tra il 690 e il 691 le truppe del ribelle Alachi, le quali sul campo di Cornate dopo sanguinosa battaglia furono sconfitte dal re longobardo Cuniperto, restandovi morto lo stesso Alachi. In memoria e in ringraziamento di sì grande vittoria Cuniperto eresse sul luogo in onore di S. Giorgio non già un monastero nell'odierno significato della parola, da parecchi voluto identificare erroneamente in quello della Fugazza, ma una chiesa con chiostro o domicilio di preti e diaconi che l'avessero ad officiare. L'arcipretura collegiata di S. Giorgio in Cornate, che nel medio evo fu tra le più insigni del contado milanese, fu soppressa da S. Carlo il 17 settembre 1574, aggregando dignità e rendite alla collegiata di S. Lorenzo in Milano: a Cornate non vi lasciò che un prete curato al quale il capitolo di S. Lorenzo doveva pagare l'annua rendita beneficiale di cento scudi. Ultimo arciprete di Cornate fu l'inglese Giovanni Harris, caro a S. Carlo per la sua virtù e il suo zelo. È da far voti che ad una chiesa così insigne nel passato ritorni il titolo di arciprete, ufficialmente riconosciuto, ne suoi parroci. (2)
I documenti più antichi che ci parlano con sicurezza di Porto d'Adda li troviamo nel secolo XIII. Si chiamava allora Porto di Cornate (Portus de Coronate): Porto perché appunto qui si poteva facilmente tragittare il fiume dall'una all'altra sponda; di Cornate perché faceva parte di quel territorio. (3)
Dei secoli anteriori non ho potuto rinvenire documento alcuno che esplicitamente accenni a Porto, per quanto ne abbia trovati riguardanti, fin dal secolo X, Paderno, Verderio, Cornate, Colnago, Medolago. Ciò nonostante io non dubito che qualche cascinale almeno sorgesse in quei bassi tempi medioevali nel luogo di Porto, data la situazione del passo che metteva in diretta comunicazione con Medolago, villaggio con castello, che sorgeva di fronte sull'altra sponda del fiume. (4)
Comunque, si è nel secolo decimoterzo che incominciamo a trovar memorie di Porto. Sul cadere di novembre del 1271 il podestà di Bergamo ordinò che dal porto di Medolago non si tragittassero di là grani ed altre cose vietate, obbligando i custodi del porto a darne giuramento in mano di Gherardo Serbafondi console del Comune e gentile di Medolago. (5) Da questo è lecito arguire che un certo qual commercio di transito dovesse correre tra Porto di Cornate e Medolago. Dal codice di Goffredo da Bussero, morto nel 1289, risulta che in territorio di Porto, pieve di Pontirolo, esistessero tre chiesuole, una dedicata a S. Quirico, l'altra a S. Maria, la terza a S. Giovanni apostolo: prova evidente di popolazione in luogo. Teneva in questo tempo sua dimora in Porto un Guido figlio di Jacobo " de Burigo " che fece da testimonio in un testamento di Lanfranco figlio del signor Federico ser Tirisendi di Bernareggio chierico e benificiato della chiesa di S. Antonino di Brentana, testamento rogato in Bernareggio il 29 aprile 1279. Questo Guido doveva essere di famiglia signorile giacché era parente di un altro dei testimoni, certo " dominus " Lanfranco figlio di Rugerio " de Burigiis " che abitava in Verderio inferiore. (6)
Se non che Porto, nonostante la sua buona posizione sull'Adda, invece di progredire con gli anni venne sempre più eclissandosi man mano che crescevano d'importanza, dal lato strategico e commerciale, Brivio, Trezzo, Vaprio e Cassano. Nei turbinosi avvenimenti svoltisi lungo le sponde dell'Adda durante le lotte tra i Torriani e i Visconti, tra i guelfi e i ghibellini, tra la reppublica veneta ed il ducato, tra francesi e spagnoli sul cadere della dominazione sforzesca, nulla di particolare che riguardi Porto ci ha conservato la storia.
Fu soltanto nel 1323 che al vicino guado di Bagna si è combattuto tra guelfi e ghibellini. Galeazzo Visconti, successo nella signoria di Milano al padre suo Matteo, si vide venirgli contro un poderoso esercito crociato in conseguenza della scomunica lanciata da papa Giovanni XXII contro Matteo e i suoi figli. Galeazzo non si perdette d'animo, e fece tosto guardar l'Adda dove supponeva avesse a transitare il nemico da tre corpi milanesi, uno posto a Cassano, l'altro a Vaprio, il terzo a Trezzo. Marco Visconti, fratello di Galeazzo, con cinquecento cavalli custodiva gli altri passi lungo il fiume al disopra di Trezzo. I capitani dell'armata guelfa decisero di passare nel milanese per il guado di Bagna a circa due miglia sopra Trezzo. Squillarono le trombe e, in colonna serrata, il 25 febbraio 1323 l'esercito crociato dalla sponda bergamasca prese a guadare il fiume. Gli esuli milanesi, tra i quali primeggiavano Simone Crivello e Francesco da Garbagnate, formavano l'avanguardia. Marco Visconti, che attentamente vigilava, valoroso come sempre, si slanciò sul nemico coi suoi: l'avanguardia fu sconfitta. Ma avanzando sempre più il grosso del nemico, Marco Visconti non poté più oltre sostenersi: uccise di propria mano, come traditori della patria, il Crivello e il Garbagnate caduti prigionieri, e si ritirò col fratello Luchino in Milano. L'esercito crociato in quello stesso giorno prendeva Cassano, Vaprio e Trezzo; nel giorno successivo entrava in Vimercate, e nel 27 in Monza. (7)
Vaste brughiere e fitte boscaglie si stendevano allora su la sponda destra dell'Adda, dove ora sono campi feraci e ben coltivati. La selvaggina vi si annidava grossa e abbondante. Perciò Gian Galeazzo Visconti nel 1393, fra i luoghi a sé riservati per la caccia dei cinghiali e dei caprioli, incluse le selve e le brughiere dell'Adda da Brivio in giù, aggiungendovi con altro decreto del 14 dicembre di quell'anno il non lontano territorio di Mezzago.
Sotto Filippo Maria Visconti e sotto gli Sforza, Porto fu munito di una torre, la quale col vicino forte della Rocchetta concorreva alla custodia di quel passo. Intorno a questa torre poco o nulla mi fu dato di rintracciare. Nel 1452 vi era castellano Giacomo Scotto di Monza. Il castellano della Rocchetta, Bertolomeo Terzago, in una relazione al duca del 30 dicembre di quell'anno scriveva che i nemici dal bergamasco andavano praticando i guadi per passare il fiume. "Sono qua propinqui - scrive - a uno milliaro e mezzo trey guadi in i qualli ne sono duy si pono aguazare, el nome de l'uno è il guato de zorloto et l'altro è il guato de peterlino ", ma senza alcuna guardia, mentre al tempo di Filippo Maria gli si " faceva fare la guarda da quaranta homeni ogni note, gli qualli continuamente parte de loro discoreveno la rivera, et parte stavano in la tore de Porto per refrescharsi de hora in hora, a le qualle guarde contribuyveno tutte le tere de qua da Lamboro su questa banda ". Soggiunge che in questo modo sarebbe anche meglio custodita la torre di Porto nella quale non stava che il castellano, e talora ma non sempre anche un suo figliuolo intento solo a contrabbandare del grano. Allorquando il duca cadde mortalmente ammalato, in vista di probabili complicazioni pel ducato, Ottaviano Turcho capitano della Martesana fu incaricato di ispezionare i forti di S. Maria, di Porto, e di Brivio. Con lettera alla duchessa del l0 marzo 1466, datata da Vimercate, tra l'altro scriveva: " Ho fatto fortificar anzi me sia prescrito da la Imprixa la torre de Porto et li ho ordinato che die noctuque li stieno homini XXIII del paexe, si per la guardia de la torre corno etiam per trascorrere per la rippa d'Adda per lì de torno aziò che periculo non li possa cadere ". (8)
Ma nemmeno dal lato commerciale Porto ebbe campo di assorgere lungo i secoli a qualche importanza. Infatti il commercio di trasporto dal lago di Corno, per la via d'acqua lungo il fiume, era nullo prima che Francesco Sforza nel 1457 aprisse il canale della Martesana che da Trezzo conduceva a Milano. E anche dopo, prima della definitiva apertura del naviglio di Paderno nel 1777, si continuava per lo più a seguire le antiche vie di terra.
Il commercio poi di transito, dalla sponda bergamasca e viceversa, doveva essere così esiguo che, quando il governo spagnuolo nel 1578 vendette all'asta i diritti di pedaggio e di dazio dei porti sopra l'Adda da Lecco a Vaprio, di Porto d'Adda non se ne tenne calcolo (9). È solamente su lo scorcio del secolo XVIII, quando cioè il ducato sotto il savio governo di Maria Teresa e di Giuseppe II aveva segnato un rilevante progresso nell'agricoltura, nell'industria e nel commercio, che troviamo un ricevitore di dogana alla cascina Ricevitoria, che sorgeva a mezza strada tra Porto e la cascina del Barchetto su la riva del fiume, dove ormeggiava il barchetto pronto a tragittare da una sponda all'altra. Ben poca cosa del resto quando si pensi allo sviluppo preso in quel tempo dagli altri porti sull'Adda.
Durante il dominio spagnuolo gran parte dei nostri paesi assorsero a una misera personalità feudale. Il comune di Porto, che per altro non ebbe mai aggruppamento importante di popolazione, non poté godere i nemmeno di questo privilegio, ma sperduto nel mare magnum dell'amministrazione ducale non lasciò di sé traccia degna di nota (10).

CAPO II
Agostiniani di San Marco - Affresco di scuola luinesca nell'oratorio di S. Nicola - Catasto di Carlo V - Naviglio di Paderno - Il Meda - Porto nel secolo XVIII.

Le vicende di Porto, dalla metà del secolo XVI fino al cadere del secolo XVIII, si riassumono per lo più in quelle del convento, o dirò meglio, dei possedimenti che gli agostiniani di s.Marco in Milano tenevano sul luogo.
Nel 1544, con istromento del 7 luglio e previo il consenso cesareo, gli agostiniani che già possedevano dei fondi non solo alla Rocchetta ma anche in Porto, comperarono dal milanese sig. Gerolamo Gorla della parrocchia di S. Vito in Pasquirolo di Milano una casa da nobile e da massaro con 156 pertiche di terra, situate in Porto e coltivate a campi, a vigna, e a boschi, sborsando lire 2583 imperiali. I padri aggiunsero alla casa da nobile un piccolo oratorio dedicandolo a S. Nicola. Il bell'affresco, di scuola luinesca, che tuttora vi si ammira nell'oratorio, venne da alcuni attribuito a Bernardino Luini che lo avrebbe dipinto allorché, si dice, quivi eludeva le ricerche governative, ospitando presso i frati di S. Marco. Ma questo, come abbiamo già altra volta osservato, non può essere per la ragione che il Luini è morto non dopo il luglio del 1532. Chi sia l'autore non ho potuto rintracciare né dalle carte del convento né per altra via.
Degli agostiniani non dimorava a Porto che un padre, e non sempre di continuo, come sopraintendente ai fondi, benché vi si tenessero sempre apparecchiate delle camere per ospitarvi all'occorrenza più padri, specialmente nel giorno della festività della Madonna della Rocchetta.
Dal catasto di Carlo V si raccoglie che nel territorio di Porto, oltre i padri di S. Marco, possedevano il nobile Marc'Antonio del Corno, residente in Colnago (11), gli eredi di Antonio del Corno, residenti in Porto, Gio. Ambrogio de Santi, padrone pure del Paradiso, Gio. Tomaso del Corno, Francesco Corno, Pietro Figini e fratelli, Marc'Antonio Lattuada, e Ludovico Giussani, tutti gentiluomini residenti in Milano. Vi possedevano ancora un Francesco Scotto e un Bartolomeo Minetti, rurali e residenti in luogo. I massari che allora tenevano in affitto i fondi degli agostiniani erano un Battistino da Concesa, che dimorava presso la casa padronale dei frati, e un Brambilla Bernardo che lavorava terre situate in Porto superiore e inferiore. Quest'ultimo aveva in affitto 301 pertiche circa, compreso il molino, delle quali solamente 232 a coltivo, e pagava per l'affitto l'annuo canone di 7 moggia di frumento e 13 di segale e metà brocca.
Negli ultimi anni del secolo XVI i terrieri di Porto videro, e probabilmente non pochi vi avranno partecipato, un grandioso lavoro che veniva svolgendosi su le vicine sponde del fiume. La città di Milano, che sentiva gran bisogno di materiali di fabbrica e di viveri, pensò di aprire una via d'acqua che la mettesse in diretta comunicazione col lago di Corno. Francesco I, re di Francia e duca di Milano, riconoscendo giusti i desideri della città, nel luglio del 1516 concedeva diecimila ducati d'oro a patto che se ne spendessero ogni anno cinquemila nella costruzione. Fatti i debiti studi, e accettato dalla città il progetto del Missaglia di aprire un canale da Paderno fin sotto alla Rocchetta usando delle conche per adeguare la rapida discesa del fiume, si dié mano ai lavori nel 1520. La guerra scoppiata nel 1521 tra Francesco I e Carlo V fece troncare la grande opera appena iniziata.
Divenuti padroni del ducato gli spagnuoli, e sentendosi sempre vivo il bisogno di questo naviglio, i milanesi deliberarono di venire ad una definitiva esecuzione. Dopo parecchi nuovi progetti non accettati, l'ingegnere milanese Giuseppe Meda nel 1574 presentò un memoriale anonimo al Consiglio della città promettendo di dare navigabile l'Adda con un canale di derivazione sotto Paderno, formato con sostegni di nuova invenzione, nello spazio di due anni o poco più, con la spesa di 30 mila scudi d'oro ma con alcuni patti a suo favore. Difficoltà insorte, e specialmente la peste del 1576, ritardarono le trattative fino al 1580. La città di Corno, che dall'esecuzione del nuovo canale temeva per il suo commercio, cercò in tutti i modi di contrastarne la riuscita presso il governo di Madrid. Giunta finalmente con diploma cesareo del maggio 1590 l'approvazione del progetto, e fatti dalla commissione dei periti della città insieme al Meda gli ultimi definitivi sopraluoghi, si incominciarono i lavori. L'impresa fu assunta su la fine del gennaio 1591 dall'appaltatore bergamasco Francesco Valezzo per la definitiva somma di 36 mila scudi d'oro, che la città doveva sborsare a rate: mallevadore del contratto si costituì l'ingegnere Pietro Antonio Barca, milanese. II Meda presentò sicurtà in nome proprio e come procuratore del Valezzo nella persona del questore Morosini.
I lavori con la forza di trecento a quattrocento operai, e per mezzo di subappalti parziali, si iniziarono tosto con grande ardore su tutta la linea del canale progettato. Ma ben presto sorsero contrasti e difficoltà. Nel luglio del 1592 il Barca, per disaccordi col Meda, rinunciò alla sicurtà fatta, e per maggior sfortuna il Meda stesso cadde ammalato: i lavori rallentarono. Riavutosi il Meda dalla malattia, e sostituito al Barca l'ingegnere Alessandro Besnati, i lavori si ripresero con nuovo vigore nel 1593 per approfittare dello stato di magra del fiume. Se non che nuovi e disgraziati accidenti dovevano impedire il compimento della grande opera: più che le impreviste difficoltà opposte dalla natura del terreno, e le sollevazioni suscitate ad ogni momento fra gli operai che misero il Meda nella dura necessità di chiedere al capitano della Martesana la continua assistenza della forza pubblica, fu l'invidia astiosa di colleghi d'arte, particolarmente del Barca e del Rinaldi, i quali gli crearono nell'ambiente milanese una grande diffidenza sul buon esito dell'impresa. Il Valezzo, al quale dalla città non gli venivano riconosciute né pagate opere addizionali consigliate nel corso dei lavori da nuove e più felici idee del Meda, si ritirò dall'impresa.
Il Meda, convinto della bontà del suo progetto, non si dié vinto in mezzo a tante difficoltà: assunse l'impresa per proprio conto continuando i lavori col proprio denaro e coll'altrui procuratosi a prestito. Ma distrutto dai disagi di corpo e dai patimenti d'animo, giacché era stato imprigionato due volte perché compensasse alla città i danni a lei recati per cattiva direzione e per difetti di esecuzione delle opere convenute, moriva nell'agosto del 1599.
Merita di essere qui ricordato il fatto che nel 1595 l'Adda tra Brivio e Paderno, liberata dai massi, era stata resa navigabile: a Meneghino Bassi e a Pedrino d'Erba, per essere stati i primi a navigare da Gravedona fino all'imboccatura del naviglio con un carico di vino destinato a Milano, fu dato in premio dalla città il 22 giugno di quell'anno 25 ducati. Il comune di Brivio ne veniva a subire un danno, poiché, come si nota in una supplica senza data ma di non molto posteriore, per le mercanzie di transito percepiva un soldo la soma " quando le mercanzie si facevano condure da Brivi a Porto per cari ho cavali, perché in quello tempo se impediva detta riva et se rompeva la strada ", ma considerato che " adesso con 10 aiuto del s.r Idio si naviga di longho " e i mercanti non volevano più pagare alcuna tassa dal momento che più non impedivano la riva né rompevano la strada, domandava di poter almeno riscuotere dieci soldi per nave come si faceva a Trezzo, a Cassano, e a Lodi.
AI Meda nella direzione generale dei lavori successe il Besnati. Si continuò così a lavorare per parecchi anni ancora, ma senza energia e fra molti contrasti, finché tutto fu definitivamente abbandonato, benché nel 1603 si fosse data l'acqua al naviglio e si fosse navigato fino al ponte. Nel 1617 si rinchiuse il canale, e si vendettero i materiali di costruzione: si mantenne la navigazione dell'Adda coll'uso del traghetto di terra esteso a tutta la linea del canale del Meda. (12)
I padri di S. Marco, durante il secolo decimosettimo, oltre all'aver fatto un cambio di terre col capitolo di S. Lorenzo, cedendone a questi in Cornate per riceverne altre in Porto, attesero a ben tenere i loro possedimenti. Avevano essi una strada in mezzo ai loro fondi la quale, perché frequentata dai carri che andavano all'Adda a traghettare, recava loro grave danno. Nel 1660 ottennero licenza dall'ufficio governativo delle strade di poter aprire un'altra pubblica strada più comoda e diritta, l'attuale che da Porto superiore mena all'Adda, chiudendo la prima che era stretta, serpeggiante, ed assai incomoda ai carettieri. I loro contadini, come risulta da parecchi contratti e conti colonici, se la passavano la meno peggio relativamente ai tempi. I padri imprestavano le botti per il vino, e pagavano loro per il taglio dei boschi 14 soldi la giornata. Da un contratto di locazione si ha che un locatario era tenuto a consegnare, oltre il solito affitto e gli appendizi, due paia di anitre " per la festa di Porto". È noto, del resto, come in quel secolo di depressione nelle industrie e nei commerci, di miseria e di carestie, i contadini alle dipendenze delle congregazioni religiose stavano meglio degli altri.
Vuolsi qui ricordare una spaventosa grandinata caduta il 9 luglio 1675 a Robbiate, Porto, Cornate, e Colnago: le messi già mature e pronte per la mietitura andarono distrutte. I padri concessero ai loro coloni degli abboni sul fitto. In fatto di grandinate è memoranda quella caduta il 5 maggio 1639 sul territorio di Cornate. Il raccolto annuale, che consisteva in frumento, segale, e vino, andò totalmente distrutto: del frumento si raccolse a stento la semente, della segale nemmeno quella, e di 1500 brente di vino, solite a farsi, non se ne fecero che 4 brente.

CAPO III
Guerra per la successione di Spagna - Eugenio di Savoia tenta di penetrare nel milanese sotto la villa Paradiso - Dominazione austriaca - Gli agostiniani fanno prosperare i loro fondi -Provvedimenti contro i cacciatori - Catasto di Porto - Bilanci comunali - Vertenza tra Porto e Cornate - Il cardinal Pozzobonelli - Apertura del naviglio di Paderno - La Repubblica Cisalpina - Soppressione degli agostiniani - I marescialli Zopff e Ott passano il guado di Bagna - Il comune di Porto aggregato a quello di Cornate.

Col sorgere del nuovo secolo scoppiò la guerra per la succession di Spagna; guerra che doveva segnare il tramonto dell'infausto dominio spagnuolo su le nostre terre.
I terrieri di Porto assistettero a un terribile episodio di quella guerra, che divampava tra francesi e spagnuoli da una parte e austriaci dall'altra, e forse dai franco-spagnuoli avranno provate le dolcezze del saccheggio come l'ebbero a subire in quell'occasione quei di Cornate. Guerra e saccheggio, nei passati tempi, erano equivalenti.
Mentre il principe Eugenio di Savoia, comandante dell'esercito imperiale austriaco, veniva cercando lungo la riva bergamasca un luogo adatto per varcar l'Adda e penetrare nel milanese (13), i nemici lo spiavano attentamente. Eugenio arrivato di fronte al paradiso qualche giorno prima della metà di agosto del 1705, trovato il luogo opportuno, da Suisio scende nella valle e comanda di gettare un ponte di barche. Il duca di Broglio, acquartierato nella villa Paradiso con un battaglione e tre bande di cavalleria, non ardì, forse per insufficienza di forze, di fargli subito contrasto.
Disgraziati accidenti prolungarono l'operazione della gettata del ponte. Nel frattempo, chiamato dal fratello, arriva Vendôme. Questi conduce le sue truppe nella valle e tenta rigettare il nemico. Eugenio ordina di piazzare le artiglierie, e alzati qua e là sull'alta riva a modo di anfiteatro dei ripari, vi schiera buon numero di granatieri pronti a scaricar palle contro chiunque si fosse presentato all'incontro. Sotto il fulminare di venti pezzi d'artiglieria che flagellavano la valle, la costiera, e la villa Paradiso, nella quale Vendôme aveva posto il suo quartier generale, ma che dovette subito sloggiare per il pericolo, si getta il ponte, e i tedeschi varcato il fiume si fortificano nella valle, occupando la selva che si stendeva a destra del Paradiso.
Vendôme, vista l'impossibilità di respingere il nemico, dispose fortemente le sue truppe lungo il ciglione della costa, e alle due strade che dalla valle portavano in alto, circondate da più file d'alberi folti, pose in agguato i dragoni a piedi e i fucilieri.
Accortosi Eugenio della forte posizione del nemico, dopo due giorni di duello fra le due artiglierie nemiche, benché con maggior vantaggio dell'alemanna più numerosa e situata in luogo più alto, fece distruggere il ponte e ripiegò a Cassano, dove rimase sconfitto (16 agosto 1705).
Il dominio austriaco segnò un periodo di progresso per il ducato. Gli agostiniani presero a maggiormente curare i loro terreni, riducendone a coltivo molti ch'eran rimasti fino allora incolti. Inoltre dal governatore di Milano, principe di Lewenstein, ottennero il 22 luglio 1718 una grida, con relative multe pecuniarie e tratti di corda, contro i cacciatori e i pascolatori abusivi che danneggiavano i loro fondi. La grida a poco a poco cadde in dimenticanza, e si verificarono i casi di prima. I padri inoltrarono un'altra supplica il 24 aprile 1747, affinché il nuovo governatore si degnasse riconfermare la grida del 1718, e altresì esplicitamente vietasse ai barcaioli di traghettare dal bergamasco nel milanese gente con armi e cani da caccia, e che sul milanese non si avesse a somministrare cani ed armi a gente estera, tanto più che si andava a caccia anche in tempi proibiti. Non ho trovato se in realtà sia stata confermata la grida. Ad ogni modo i cacciatori appassionati avranno trovato il modo di continuare la caccia da queste parti ricche di selvaggina, e che meritarono già d'essere riservate, come abbiam detto, da Galeazzo Visconti nel 1393.
I padri non solamente attesero a migliorare i loro fondi, ma se ne aggiunsero dei nuovi comperandoli dai fratelli Bughi, dal sig. Maspruchi, e dai fratelli Scotti, detti Sverzoli, di Cornate. Si sentì tosto il bisogno di erigere in Porto nuovi fabbricati colonici.
Nella supplica a questo fine inoltrata dal padre sopraintendente il 29 maggio 1729, è detto che, " scarseggiandosi di case in Porto sì a riguardo della molteplicità delle persone cresciute da pochi anni in qua, che per ragione di molte pezze di terra già poste in buon ordine per essersi lasciate andare incolte ", si trovava vantaggioso per il convento la fabbrica di nuove case " e perché li beni saranno meglio coltivati, e perché s'affitteranno con molta utilità sendo esenti da carichi personali gli abitatori delle medesime ".
Da una relazione catastale del 1721 si ha che i terreni di Porto consistevano in prato asciutto, aratorio semplice, aratorio con viti, e boschi da taglio: le terre a coltivo si affittavano a grani, dividendosi poi a metà il vino e i bozzoli. Il seminato a frumento e a segale produceva sei staia la pertica nel buon terreno, e quattro nell'altro. Il prato migliore dava tre fasci la pertica, l'inferiore due: se ne raccoglieva in tutto il comune circa cinquecento fasci all'anno. Il seminato a lino dava tre libre la pertica; e della seta in tutto il comune se ne produceva quaranta libre. Gli affitti poi della case spettavano: uno ai fratelli Mastrocchi di Merate, due al sig. Gio. Battista Verderio, quattro al sig. Carlo Verderio, uno al sig. Domenico Valsassina, quattro, compreso quello dove si eserciva l'osteria, ai padri di S. Marco, uno ai padri Crociferi. Il sig. Carlo Borgazzi possedeva un molino a quattro ruote (14), e i padri di S. Marco godevano inoltre il dazio del Bolino.
Il catasto del comune di Porto del 16 dicembre 1757 dava un totale di pertiche 2639.18 stimate scudi 11535.1.1. I soli padri di S. Marco possedevano ben 1919.18 pertiche. Un prospetto poi degli abitanti di Porto del 1743 ci da 135 individui divisi in 22 famiglie.
Il primo bilancio comunale è del 1762. L 'uscita porta una spesa di £ 276 contro un'entrata di £ 280. La parsimonia, per altro, è la nota dominante nei bilanci di tutti i comuni di allora. Oggi invece si cammina per lo più in senso inverso; ma non sarebbe forse un male, pur seguendo con prudenza le esigenze del progresso, che una giusta economia, la quale è pure fra i requisiti necessari di una buona amministrazione, si curasse un po' meglio dai comuni, e si facesse il passo secondo la gamba. Assai miti erano le imposte fondiarie, e la tassa massima era la personale o testatica. Vi era pure l'imposta mercimoniale, la quale in Porto era nulla, perché non v'era commercio o industria di sorta: c'era solamente l'osteria di ragione degli agostiniani e anche questa " di poca entità ".
Più tardi, sotto la Cisalpina, i bilanci del comune di Porto segnarono un rilevante aumento di spese per il concorso al mantenimento della Legione Lombarda in ragione della mezza per cento, per la manutenzione delle strade da Porto a Trezzo e da Porto a Verderio, per le perlustrazioni decadali, per il corriere di Gorgonzola, ecc.
Una faccenda seria per il comune di Porto era quando si trattava di scegliere dal popolo qualche persona che sapesse scrivere nel disimpegno delle cariche comunali. Così, per esempio, nel 1781 si domandò di riconfermare nella carica di sindaco Antonio Corbetta, perché non v'erano allora in Porto altri che sapessero scrivere, tranne il Vismara fattore e sostituto dei padri di S. Marco, e il Monzano fattore e sostituto di Don Gaspare Verderio.
Negli ultimi decenni della prima metà del secolo sorse una curiosa vertenza, durata anni parecchi, tra la comunità di Porto e quella di Cornate riguardo alle spese ordinarie e straordinarie della chiesa parrocchiale di Cornate. Finalmente il 26 luglio 1743 venne stesa una scrittura legale di convenzione tra le due comunità dal marchese Giovanni Della Porta, questore delegato dal magistrato, nella quale si determinarono le feste alle quali dovesse concorrere la comunità di Porto con nuovi patti e condizioni, e ciò in base ad altra sentenza del 1735 nell'interpretazione della quale erano sorte delle controversie. Le feste convenzionate furono: la titolare di S. Giovanni Battista, la festa di S. Eurosia, tutti i venerdì di maggio, e l'ottava del Corpus Domini. Dovevano inoltre quei di Porto pagare il salario al campanaro. Le spese per il campanile, le campane, ed il cimitero si dovevano ripartire sopra le bocche vive effettive di entrambe le comunità. Per il passato, nel quale si era agitata la quistione, la comunità di Porto versava una volta tanto a quei di Cornate £ 206. Venne ancora stabilito, primo: che innanzi far spese straordinarie o riparazioni il sindaco e il cancelliere di Cornate dovessero intendersi con quelli di Porto; secondo che agli uomini di Porto spettasse un bastone del baldacchino nelle processioni, quando però non si facesse l'asta ai migliori offerenti; e finalmente che quei di Porto potessero essere eletti ad officiali della chiesa.
Questa convenzione fu sottoscritta in Milano dai rispettivi causidici di Porto e di Cornate con la vidimazione del questore delegato, giacché la causa fu dibattuta con fior d'avvocati d'ambe le parti.
Avvenimento importante per la nostra piccola comunità di Porto fu la visita pastorale dell'arcivescovo cardinal Pozzobonelli. Arrivò egli nella parrocchia di Cornate il 21 marzo 1759 da dove mandò il convisitatore a visitare l'Oratorio di S. Giuseppe in Porto superiore e quello di S. Nicola in Porto inferiore: ambedue, nel complesso, furono trovati ben tenuti. L'Oratorio di S. Giuseppe era stato aperto dal nobile Nicolao Verderio, stabilitosi in Porto nella seconda metà del secolo XVII. Il nobile signore aveva stabilito il 7 agosto 1701 un legato di patronato Verderio per la celebrazione perpetua di una messa festiva, e di sei messe nel giorno di S. Giuseppe compresa la messa in canto. Con la legge di soppressione del 1867 il legato della messa festiva fu incamerato dal demanio, e i fondi spettanti al medesimo furono comperati dal dottor Giuseppe Biffi per £ 18.700. Si pensò allora ad erigere una nuova chiesa più vasta e più comoda alla cresciuta popolazione, e fu benedetta il 6 novembre 1877 da Mons. Valsecchi vescovo di Bergamo: il vecchio oratorio fu tramutato dal sig. Gian Battista Nava in locali civili dell'annessa casa.
Il secolo decimottavo non doveva tramontare senza vedere finalmente aperto quel naviglio da secoli desiderato per una diretta comunicazione della città di Milano col lago di Corno. Studi e progetti non mancarono nemmeno dopo la morte del Meda, ma l'esecuzione non si ebbe che sotto il governo di Maria Teresa. Approvato il pratico progetto del comasco Nosetti, esperto nei lavori d'acqua e coraggioso impresario, venne decretata l'esecuzione il 4 febbraio 1773, affidandola al Nosetti stesso, che si era associato il luganese Fè, per la somma di 650 mila fiorini. I lavori furono condotti con avvedutezza ed energia così che il naviglio era già terminato nel 1777 con la strada dell'alzaia del canale della Martesana e del nuovo naviglio fino a Brivio, e con lo sgombero dei massi nell'Adda, ostacolanti la navigazione, tra Porto e T rezzo. L'arciduca Ferdinando all'11 ottobre di quell'anno inaugurò solennemente la navigazione imbarcandosi a Brivio e scendendo fino a Vaprio.
Io mi ricordo - scrive un parroco testimonio oculare - quando, date le acque al nuovo canale di Paderno, l'arciduca Ferdinando lo navigò per il primo. Se aveste veduto que' boschi che discendevano fino all'acqua, quelle ripide viuzze che serpeggiavano su per le costiere, quelle ristrette rive tra il canale e l'Adda, com'erano quel giorno gremite di gente! Non parevano più i luoghi selvatici, dov'io da ragazzo andavo ad uccellare colla civetta nell'antico letto abbandonato del Meda. Che frastuono, che brulichio, che festa! C'era gente accorsa da tutte le parti. In molti contadini si vedeva ancora un resto dell'antico abbigliamento dei bravi; largo e piatto il verde cappello, com'usano ancora i pastori, con entrovi una coda di lepre o una penna di pavone; ricascante sulla spalla sinistra la berretta dal fiocco a più colori; una grossa ciocca di capelli mollemente arricciati sull'una o sull'altra guancia; una reticella per cintura in vita, una falcetta mezza nascosta nel destro taschino de' calzoni e il paloscio pendente a sinistra. Ma se in parte conservavano ancora l'aria e il vestito dei bravi, ne avevano lasciati quasi del tutto i costumi, ed invece di molestare la gente e metter paura, andavano in volta soffiando nella cornamusa, o strimpellando la mandola e il colascione. Tra questi così allegri, si discernevano gli asinai di Cornate e di Colnago, mortificati o stizziti, perché cessato il bisogno di trasportar le derrate da Brivio a Trezzo sulle bestie da soma, avevano perduto il mestiere, ne sapevano prevedere che le loro sterili lande si sarebbero cangiate presto in amene ed utili campagne.
Dai contadini e dagli operai distinguevansi tosto i cittadini e i signori, alla zazzera incipriata, al grand'abito di seta, alla giubba ed ai calzoni ricamati, alla lunga spada che strisciava sulla bianca e lucida calza, terminante sotto una gran fibbia d'oro. I feudatari, padroni delle bicocche che torreggiavano sui colli all'intorno, e alcuno dei quali aveva fatto fino allora giustizia sul suo, soprastavano colle cappe ondeggianti, seguiti da gran corteggio, e a cavallo, ché nessuno colle indiavolate strade di allora avrebbe voluto per divertimento girar la campagna in quei tozzi e pesanti carrozzoni. Tutto quest'andirivieni era nella strada che corre sull'alto ciglio della valle, e donde lo sguardo abbraccia per un lunghissimo tratto l'Adda e il canale. Sulla riva opposta, che apparteneva alla signoria veneta, formicolavano i Bergamaschi, accorsi anch'essi a vedere quell'insolito avvenimento; i Bergamaschi che, per il diverso governo e per il difficil passaggio dell'Adda, erano a noi come gente straniera, e non si lasciavan vedere sulle nostre strade che per attaccar lite con qualcheduno; divisione e ruggine che non sono del tutto cessate, malgrado la successiva promiscuità del governo e le agevoli comunicazioni. Gli occhi di tutti si volgevano ogni momento con aspettazione alla voltata che fa il fiume sotto Villadadda, perocché di là doveva spuntare l'imperiale comitiva, che s'era imbarcata a Brivio per discendere il nuovo canale. Da più ore si stava collo sguardo teso, e già molti perdevano la pazienza.
I Bergamaschi che non si lasciavano mai sfuggire l'occasione di motteggiare i baggiani, cominciavano a bisticciarci; i nostri rispondevano, e dietro alle parole e ai fischi, dove l'Adda è più ristretta, già si faceva volar sassi, quand'ecco mille voci " vengono, vengono ". Ed infatti due barche addobbate, inghirlandate, l'una su cui sventolava la bandiera dello stato, l'altra che diffondeva festose armonie, compaiono sull'impetuosa corrente: sono a vista della Cappelletta de' morti; i barcaioli si levano il cappello e recitano un requiem; arrivano dinanzi al precipizio dove non erano fino allora capitati che i naviganti naufraghi in preda alla morte. La folla mette un grido che quasi a un tratto fu di spavento e di gioia. Le barche erano già entrate placidamente: s'arrestarono un momento per lasciar ammirare ai padroni il primo scaricatoio, dove l'acqua che ricasca nell'Adda, rinfrangendo il sole, presenta una delle iridi più pittoresche: poi subito innanzi tra gl'incessanti applausi della folla.
Voi avete visto quell'alto scoglio ch'è tra il fiume e il canale, e che ancora si chiama la Rocchetta, perché vi sorgeva altre volte un castellotto, cogli avanzi del quale s'è poi costruito su quella cima una chiesetta. I padri agostiniani di San Marco, che avendo lì in faccia vasti possedimenti a Porto sulla riva milanese, erano di fresco riusciti a staccare dalla parrocchia di Paderno quella chiesetta (15) e in quel giorno, a solenne dimostrazione del proprio diritto, s'erano recati a celebrarvi con gran pompa i divini uffizi, e quando le barche imperiali si fermarono sotto la Rocchetta per passare quei meravigliosi sostegni. con cui il canale ridiscende nell'Adda, si vide, il parapetto della spianatella ch'è in cima a quello scoglio. i padri. in piviale e colle torce accese, dispensar benedizioni e acqua santa sull'augusta comitiva. Chi avesse lor detto ch'erano alla vigilia di chiudere il convento e perdere que' bei possessi !... " (16).
Il movimento di transito non diede tuttavia quei risultati che si aspettavano. Dalla risposta di Vienna alla relazione dei delegati sopraintendenti alla navigazione dell'Adda del dicembre 1784, si rileva che il governo centrale, pur compiacendosi che la navigazione abbia preso qualche incremento, lo dice però ben tenue; e che il numero di 293 barche transitate per il nuovo canale nel decorso di un anno deve riguardarsi come molto piccolo ed assolutamente sproporzionato alla gran spesa fatta. Se le barche, osserva la risposta, pagassero anche il Dazio della Catena, del quale sono ora esenti, il prodotto non sarebbe certamente bastante alla spesa della manutenzione del nuovo canale e molto meno compenserebbe l'interesse del denaro impiegato per aprirlo.
Un fatto ben più importante per l'immediata risurrezione economica di Porto e dei paesi vicini si fu il savio decreto governativo che volle si alienassero, tanto in via di un leggero livello quanto per vendita libera, le vaste brughiere di proprietà dei comuni di Paderno, Verderio, Porto, Cornate e Colnago, coll'obbligo di ridurle a coltivo in breve giro d'anni, dandosi la preferenza agli abitanti dei rispettivi comuni. E infatti dal 1781 al 1786 le brughiere furono alienate, e molti contadini poterono ottenere il loro appezzamento e coltivarlo in conto proprio. Naturalmente i grossi proprietari, come di solito, si fecero la parte del leone.
Per ritornare ai nostri padri agostiniani dirò che nel 1784 misero all'asta la conduttura di tutti i fondi che possedevano in Porto, Cornate, Colnago, Verderio superiore e Robbiate. Andata vuota l'asta, si presentarono privatamente i cugini Biffi Innocente e Giuseppe Antonio, pronti ad assumere l'affitto con l'oblazione di lire 13 mila. Il contratto fu conchiuso.
Nel frattempo un grave mutamento politico era avvenuto al di là delle Alpi con la rivoluzione francese. Presto ne subì le conseguenze anche la Lombardia. Napoleone Bonaparte calava in Italia nel 1796, e, dopo un seguito di vittorie contro gli austriaci, entrava in Milano il 15 maggio. Coi nuovi dominatori Porto " povera e piccola comunità " ebbe al 21 di agosto la sua brava requisizione riguardanti i possessi degli agostiniani. Ancora locatari i Biffi, che tenevano la loro dimora presso la casa padronale dei padri, il convento di S. Marco fu soppresso con tutti i suoi beni nel 1797 dalla Repubblica Cisalpina. Con pubblica asta del 13 germile 1798 la maggior parte dei possedimenti di Porto furono comperati da Antonio Saglio di Andrea, rappresentante la ditta Saglio. Nello stesso giorno, sempre per asta, Paolo Granzino acquistò i boschi detti Beolé situati nel comune di Porto e tutti i fondi in comune di Cornate, mentre i possessi di Colnago passavano al sig. Gian Battista Annoni.
Senonchè, mentre Napoleone Bonaparte guerreggiava in Egitto, gli austro-russi ritornarono alla riscossa, e nel 1799 calarono in Italia sotto il comando di Melas e Souwarow. I francesi, guidati dal generale Schérer, furono sconfitti a Magnano veronese (5 aprile) e dovettero ritirarsi sulla sponda milanese dell'Adda, dove il generaI Moreau ne assunse il comando. Gli austro-russi non si fecero molto aspettare. Souwarow, riconosciute le posizioni del nemico, divise le sue truppe in tre colonne spingendole su Lecco, Vaprio e Cassano. La linea dell'Adda era per altro ben guardata dai francesi.
I terrieri di Porto e dei dintorni assistevano tremanti, com'è facile a pensare, allo svolgersi di quegli avvenimenti di guerra, quando Chasteler, quartier mastro degli austriaci, rinnovando con esito felice il tentativo di Eugenio di Savoia, fece gettare di notte un ponte alla vicina Bagna, luogo dai francesi non custodito, e sollecitamente allo spuntar dell'alba fece passare la colonna comandata dai marescialli Zopff e Ott. Questa colonna decise virtualmente la vittoria per gli alleati. Infatti, dopo di aver occupato di sorpresa il castello di Trezzo, si spinse a Pozzo dove respinse Grenier e Serrurier dividendoli. Il primo fu costretto a ritirarsi verso Vaprio e Cassano, l'altro sopra Verderio. Sgombrata l'Adda in quei paraggi, un'altra colonna poté passar l'Adda presso T rezzo, e così unite le due colonne austro-russe mossero a Cassano dove assalirono alla sinistra e alle spalle i francesi. Moreau e Grenier con abile ritirata riuscirono a riparare in Liguria. Chi ne pagò le spese fu il valoroso Serrurier co' suoi seimila soldati tra francesi e piemontesi. Tagliato fuori dal grosso dell'esercito fu accerchiato in Verderio dalla colonna Wukassovich, la quale, rimesse nel frattempo le barche calate a fondo dai francesi, aveva passata l'Adda a Brivio. In aiuto del Wukassovich sopraggiunsero altri corpi austro-russi. La battaglia si impegnò fiera e ostinata d'ambe le parti. Il generale Serrurier, dopo aver spiegato un raro valore, sopraffatto dalle forze preponderanti del nemico, dovette arrendersi co' suoi a discrezione (28 aprile 1799). (17)
Ma oggi Porto, riunito al comune di Cornate nel 1870 ed eretto in parrocchia nel 1898, non è più la povera e piccola comunità dei secoli passati: ha il suo bel fabbricato scolastico, acqua in abbondanza nell'abitato, nuove e spaziose case coloniche. Ai clamori di guerre è subentrato il fragore delle macchine nelle colossali officine idroelettriche della Società Edison, che tanta rinomanza diedero a Porto in questi ultimi anni.

SANTA MARIA DELLA ROCCHETTA
O Vergine Madre, o mistico fiore
o speranza di cuori fedeli!
Fontana di grazie, suggello d'amore
gloria a te nel più alto de' cieli!

A. Graf.

CAPO I

La Rocchetta - Origini della chiesa - Gli agostiniani -Il convento ridotto a fortilizio - Distruzione del forte - Il convento della Rocchetta incorporato con quello di S. Marco in Milano.

L'altura rocciosa della Rocchetta s'innalza in mezzo alla valle dell'Adda, poco al disopra di Porto, tra il naviglio e il fiume. Vi si ascende dalla parte del naviglio. La vista che di lassù si apre verso settentrione lungo le alte e dirupate sponde del fiume, le di cui acque scendono vorticose, gagliarde, frementi senza posa fra i massi, è d'una bellezza selvaggia e superba. Dall'altro lato, a sud, l'orizzonte si allarga e il paesaggio si fa più dolce: il fiume si appiana, e scorre calmo, solenne, quasi stanco per l'ampia valle. In bella prospettiva spicca Medolago che, nello svolgersi delle sue vicende, vide cadere nel 1406 sotto la sua fortezza Galeazzo Gonzaga di Mantova, il valoroso condottiero delle truppe ducali, mentre incitava i suoi soldati all'assalto; e che nel 1509 subì uno spaventoso saccheggio dai francesi, i quali da Brivio si erano gettati nella Valle San Martino mettendola a ferro e a fuoco.
Questi luoghi, che la natura e i grandi artefici dell'arte idraulica resero così suggestivi, meritarono di essere illustrati da Cesare Cantù nelle pagine tra le più commoventi del romanzo Margherita Pusterla, e da Antonio Stoppani in una serata del Bel Paese. Perciò ben si comprende come venisse quassù per ben due volte, l'ultima delle quali nel1875, la regina Margherita di Savoia, allora principessa, donna di alto sentire e di eletta coltura.
La chiesina, dedicata alla Vergine, domina dall'alto della Rocchetta, ma nulla ha di artistico né all'interno né all'esterno, sciupata come fu nei diversi rifacimenti di restauro, e tanto meno conquide per ricchezze di stucchi e di oro. Umile e solitaria non ha che l'attrattiva della fede. Da secoli i dolorosi mortali vi ascendono a prostrarsi fiduciosi alla Vergine Madre coll'umile fede delle anime semplici. I cuori d'argento e le tavole votive, che adornano l'interno delle pareti, ci dicono ognuna una storia e un prodigio della Madonna.
Le origini di questo piccolo santuario si riannodano a quel grande momento di fervore religioso nella vita milanese, che fece sorgere a Maria Nascente il duomo di Milano. È bene ricordarlo. La vecchia metropolitana o basilica iemale di Santa Maria Maggiore veniva ormai sfasciandosi, quando con pensiero audace si pensò di atterrare la vecchia chiesa e di costruirne una nuova, la quale diventasse il monumento degno di Milano. L 'arcivescovo Antonio da Saluzzo, con lettera del 12 maggio 1386, eccitò clero e popolo a concorrervi generosamente. Gian Galeazzo non trovò di meglio, insieme alla moglie Catterina, che di assecondare con entusiasmo la grande iniziativa dei milanesi, sicuro di acquistarsi la simpatia de' suoi sudditi agli inizi del suo dominio, e il 12 ottobre di quell'anno permetteva una questua in tutto il suo stato a favore della grande fabbrica che veniva elevandosi con un fervore senza esempio. I milanesi, senza distinzione di classe, ripartiti in schiere si alternavano nel lavoro gratuito: lo stesso Vicario di Provvisione e il Podestà con tutta la sua Curia non mancavano al loro turno. Le offerte poi fioccavano senza posa. Non v'è lettura più commovente, scrive il Verga, di quella dei primi libri d'entrata e uscita del duomo di Milano: in quei lunghi elenchi di offerte ora cospicue ora meschine si vede il mirabile accordo che univa in una idea grande e veramente patriottica, oltreché religiosa, tutte le classi dal proletario al ricco e potente signore di feudi e di castella. (18)
Il milanese dottor fisico Beltrando da Cornate (19), non contento di concorrere all'erezione del magnifico tempio cittadino, volle ancora nel 1386 far erigere nei suoi possedimenti della Rocchetta una chiesa dedicata alla Vergine con annessa una piccola casa d'abitazione, chiamandovi ad officiarla i frati eremiti dell'ordine di S. Agostino. Al sostentamento dei frati avrà verosimilmente provvisto, per quanto questo non ci consti espressamente, col donar loro in tutto o in parte i suoi fondi in luogo e nei dintorni. Se non che una bolla di Bonifacio VIII vietava agli ordini mendicanti di ricevere nuovi luoghi (20). Il padre Bartolomeo da Venezia ottenne tuttavia nel 1389 da papa Bonifacio IX, di recente eletto, di poter ricevere quella pia donazione, salvi sempre i diritti parrocchiali.
Il convento della Rocchetta fu in tal modo regolarmente costituito. Nel 1397 sappiamo che vi era priore il padre Marco da Merate: questi ed altri tre frati professi, costituenti di quattro parti la terza parte di tutto il capitolo, si erano raccolti nel refettorio per deliberare appunto sul mezzo migliore d'affittare i loro beni. Tuttavia, per quanto quella posizione solitaria e selvaggia ben si addicesse ad un piccolo convento di eremiti, lo scatenarsi di vicende guerresche rese quel luogo, divenuta ormai l'Adda nel 1428 confine in queste parti tra lo stato veneto e il milanese, impossibile alla dimora dei frati. Per sottrarsi alle violenze dei soldati, gli agostiniani dovettero abbandonare alcuni anni dopo il convento: Filippo Maria lo fece occupare trasformandolo in fortilizio con una guarnigione di soldati, lasciando per altro intatta la chiesa (21). Sul cadere del dominio sforzesco i mutati sistema di difesa e di attacco portarono all'abbandono di parecchi forti secondari nel ducato, e tra questi del nostro fortilizio. Negli atti di visita di Federico Borromeo per la pieve di Brivio del 1610 è detto che il forte della Rocchetta, divenuto ricettacolo di banditi e di ladroni, fu distrutto, tranne la chiesa, al tempo di Gian Giacomo Medici. (22)
I padri erano andati dispersi nei paesi circonvicini, aiutando le chiese secolari, benché per il provinciale si continuasse ad eleggervi il priore con l'obbligo di soddisfare alla colletta e agli oneri spettanti alla provincia. Continuarono perciò quei padri a godere alla meglio che potevano i loro privilegi e i loro possedimenti, ma per la loro lontananza molti beni del convento andarono perduti e incolti. Nel 1463 troviamo che vi era priore un Giacomo " de Crippis " al quale venne pagato un livello dal sacerdote Brugiolo de Santi rettore e beneficiato di S. Gervasio e Protasio in Trezzo (23). Così nel 1491 lo era frate Pacifico "de Limiate". Abitava egli in Cornate, e il 7 luglio affittò a Zanino Brambilla casa e terreno nel luogo di Porto, con atto rogato in Monza. Si noti come in questi atti si dica il monastero e la chiesa di santa Maria della Rocchetta in pieve di Pontirolo, e non già in quella di Brivio.
La vita che, date le circostanze, i padri del convento di santa Maria della Rocchetta conducevano non era affatto conforme alle regole della loro congregazione. Pertanto il padre Ambrogio Coriolano, generale dell'ordine, dietro relazione dei padri di S. Marco in Milano, pensò di provvedere a tal disordine sopprimendo, con lettera dal convento di S. Agostino in Roma del 20 ottobre 1484, il convento della Rocchetta e unendolo a quello di S. Marco con tutte le sue ragioni e pertinenze, fermo però l'obbligo per il convento di S. Marco di pagare la colletta e di istituire nella sua chiesa una cappella sotto il nome e l'invocazione di S. Maria della Rocchetta con la relativa festa alla Vergine da celebrarsi in perpetuo tutti gli anni. Il decreto del padre Coriolano, per difficoltà insorte, rimase lettera morta, finché il generale Ambrogio Egidio da Viterbo lo riconfermò nel 1513 curandone l'esecuzione. Leone X approvò tale unione con bolla del 30 ottobre 1514. L'incorporazione non divenne effettiva che nel 1517, come da pubblico istromento del 3 marzo rogato in Pavia nel convento di S. Agostino, e ciò per l'opposizione fatta, nell'interesse della sua provincia, dal padre Lazzaro di Novara provinciale di Lombardia.
Nel 1530 il padre Francesco de Gambassi, "visto che il convento et sito della rocchetta era del tucto abbandonato da frati, et ruinato degli edifitii et inculto de terreni, senza speranza che più gli potessino habitar frati", ordinò con autorità del generale che il convento di S. Marco vendesse alcuni livelli per far coltivare le terre della Rocchetta, liberandolo dall'obbligo di pagare la colletta.


CAPO II

Visita di S. Carlo e Federico Borromeo - Vertenza tra i parroci di Paderno e i padri di S. Marco - La chiesa dichiarata nel civile in territorio di Paderno - Soppressione degli Agostiniani - Parrocchia di Porto.

Col dominio spagnuolo le congregazioni religiose, coperte di molti privilegi, si fecero sempre più ricche e potenti. Gli agostiniani di S. Marco per via di compere finirono col divenire padroni di oltre due terzi del territorio di Porto.
Senonché intenti più ad arricchire che a zelare il culto della religione, difetto per altro comune in quei tempi, lasciarono deperire la chiesa di Santa Maria della Rocchetta in modo tale, scrive il Dozio, che " nel 1568 era divenuta in pessimo stato e senza i paramenti, sicché S. Carlo coi pieni poteri di visitatore apostolico espulse di là quel frate rimandandolo al proprio convento, e nel 1570, salvi agli agostiniani i loro poderi, unì in perpetuo i luoghi di Porto e della Rocchetta alla parrocchia di Cornate: allora quei terrieri ristorarono la cadente chiesa dell'Annunciata ". (24)
Restaurata la chiesa, i padri di S. Marco, tenaci come son sempre gli ordini religiosi dei loro diritti, continuarono a ritenerne la custodia, né mai pensarono, e si capisce, ad erigere Porto colla Rocchetta in parrocchia come aveva insinuato il padre gesuita Leonetti visitatore per incarico di S. Carlo. Anzi il 20 ottobre 1590, per non avere seccature, arrotondarono il possesso della chiesa della Rocchetta, ricomprando da Beatrice Scaccabarozzo, figlia ed erede di Bernardo e moglie al nobile Angelo Cesato, le 70 pertiche circa di terra tenute a selva, a campo e a vigna insieme al laghetto o fontanone e ad alcuni edifizi rovinati " sitis in territorio de Portu inferiori plebis Pontiroli ducatus Mediolani ubi dicitur ad bona divae Mariae de la Rochetta ", che anni prima avevano vendute, per cambio, a Bemardo Scaccabarozzo. Però tre anni dopo dovettero i padri rivendere quel possedimento alla città di Milano per i lavori del naviglio, tranne cinque pertiche per uso della chiesa di Santa Maria della Rocchetta.
La chiesa, nonostante fosse già stata riparata parecchi anni addietro, nel 1610 quando l'11 di agosto arrivò a Paderno in visita pastorale il cardinal Federico Borromeo, fu trovata mancante di suppellettile e bisognevole di riparazioni. Rotto era il tetto, mancava la sagrestia, l'altare non era tenuto secondo le debite prescrizioni: i padri di S. Marco si accontentavano solo di lasciar le chiavi della chiesa in custodia del loro massaro di Porto, e di ritirarvi le offerte. Eppure il piccolo Santuario, sperduto in mezzo a quelle silenziose boscaglie di confine, era assai frequentato dalle popolazioni circonvicine. Dicono gli atti di visita che vi era gran concorso nelle feste pasquali e i fedeli vi lasciavano molte offerte in denaro (25). Doni e quadretti votivi appesi alle pareti nell'interno della chiesa, testimoniavano le grazie ricevute della Madonna, la di cui statua, vestita di diversi panni, stava sotto un'arca di noce presso la parete dell'altare.
Il card. Federico, dopo aver detto che la Rocchetta si trovava tra i confini della parrocchia e del territorio di Paderno, ma senza portare una prova qualsiasi a sostegno della nuova affermazione, decretò che il parrocco di Paderno Don Pietro Consonni, coll'assistenza di due uomini probi, avesse la cura e la custodia della chiesa, amministrasse le elemosine per il restauro e l'abbellimento, provvedendola di tutto il necessario, e scegliesse dalle famiglie più vicine un custode che fosse pronto ad aprire e chiudere la porta specialmente nei giorni di concorso, minacciando la scomunica latae sententiae contro chiunque per qualsiasi motivo avesse osato impedire o molestare il parroco nell'esercizio dei suoi diritti. La minaccia di scomunica era naturalmente per i padri di S. Marco. Ma questi fecero lo gnorri e continuarono a tener duro, come appare dagli atti di visita del vicario foraneo di Brivio del 26 gennaio 1617.
La fama della taumaturga Madonna della Rocchetta veniva sempre più diffondendosi, e le popolazioni del milanese e del bergamasco vi traevano in processione coi loro sacerdoti. Straordinario era il concorso di popolo nel giorno della sagra all'8 di settembre. Le silenziose sponde dell'Adda si animavano come d'improvviso, brulicavano di popolo, echeggiavano di laudi alla Vergine. I padri in quell'occasione adornavano la chiesa di arazzi, l'altare di sei candelieri inargentati, e vestivano la statua della Madonna di ormesimo color celeste. Vi si celebravano in quel giorno buon numero di messe, e, per la presenza di confessori, molti fedeli si accostavano alla SS. Comunione.
Manco a dirlo l'oste della Rocchetta ed altri, che in quel giorno venivano ad improvvisar baracche, facevano ottimi affari.
Ma il nemico d'ogni bene ci volle mettere la coda. Il curato Visconti di Paderno, avendo trovato che il suo antecessore per un cinque o sei anni era venuto alla Rocchetta in processione col suo popolo a cantar messa nel giorno della sagra, con licenza dei padri, " che andavano a far la festa " quali attivi patroni, volle pur egli continuare la divota usanza. Ci venne infatti parecchie volte, ma accortisi i padri ch'egli pretendeva celebrare per diritto, l'8 settembre 1672 lo respinsero né gli permisero di celebrare. Il Curato era venuto in quel giorno accompagnato dal notaio e dai testimoni coll'intenzione di prendere legale diritto sopra la chiesa.
La cosa parve per allora finita. I padri continuarono indisturbati a celebrare negli anni successivi la festa della Natività di Maria, e il cardinale Alfonso Litta, arcivescovo di Milano, il 24 agosto 1675 concedeva cento giorni d'indulgenza a tutti i fedeli dell'uno e dell'altro sesso, i quali pentiti e confessati avessero in quel giorno visitata la chiesa di Santa Maria della Rocchetta.
Morto il curato Visconti e succedutogli don Giacinto Consonni ( 1683 -1714 ), questi " essendo subornato da alcuni della tera che questa chiesa era sotto Paderno, et che era solito a cantar la messa, senza farsi mostrare qualche fondamento procurò per mezzo del sig. curato di Robbiate per tornarsi a introdurre di aver licenza di cantar la messa, et a chi si aspettava darla non la volse dare ". E per tagliar corto a qualsiasi ulteriore pretesa, i padri, esagerando nella difesa dei loro diritti, ridussero senz'altro la chiesa da pubblica in privata, togliendovi l'ingresso dalla pubblica via. Il curato di Paderno ricorse allora al vicario diocesano protestando che la chiesa si trovava nei confini della sua parrocchia, e che vi era solito cantar messa. Il Vicario, nel dubbio che avesse a sorgere qualche grave disordine, interdisse la chiesa, vietando che si celebrasse per l'innanzi la festa.
I padri di S. Marco ricorsero essi pure al Vicario a tutela delle loro ragioni contro le pretese di don Giacinto, e la controversia si protrasse per degli anni parecchi, essendo il curato tenacemente spalleggiato dal conte Francesco Corio feudatario di Paderno. (26)
Don Giacinto negò innanzi tutto l'autenticità della bolla di Bonifacio IX, sostenendo poi, in secondo luogo, che la chiesa ebbe a passare in possesso laicale, come dall'istromento di cambio del 1533 nel quale non fu riservato alcun sito e tanto meno l'accesso per uso della chiesa, e che fu solamente nel 1590 che i padri di S. Marco s'impadronirono del luogo, comperandolo da Beatrice Scaccabarozzi figlia di Bernardo, e a questi intestato fin dal 1555 e in sua testa descritto nella misura generale o catasto ordinato da Carlo V.
Risposero i padri sostenendo la validità della bolla, e che in forma autentica, poiché allora ne avevano presentato solo la copia, l'avrebbero esibita a chi di ragione. Soggiunsero che la chiesa fu sempre immune ed esente, né mai passò in possesso laicale, ma che da Beatrice nel 1590 comperarono soltanto i beni confinanti con la chiesa della Rocchetta, osservando che se in quell'occasione avessero comperata anche la chiesa nell'istromento si sarebbe dovuto farne menzione. E alle testimonianze di vecchi uomini di Paderno messe in campo dal curato, i padri ne opposero altre dei più vecchi di Porto.
Da un attento e spassionato esame dei documenti relativi alla vertenza, esistenti nell'archivio di Stato, nell'archivio di Curia, e in quello parrocchiale di Paderno, il buon diritto spetterebbe ai padri di S. Marco.
Il punto di partenza delle pretese dei parroci di Paderno fu il catasto di Carlo V. Tuttavia, come giustamente osservarono i padri, l'errore della misura generale lo si spiega dal fatto che non venne stesa per distinguere i territori e le pievi, ma solamente le terre ecclesiastiche dalle laicali a motivo delle esenzioni e delle gravezze.
Presa poi in particolar modo di mira dal curato don Giacinto, o meglio da chi per lui, fu la bolla di Bonifacio IX col dire che in essa il luogo veniva chiamato Rocchetta, mentre il fortilizio sorse assai più tardi, e che d'altra parte esistette in Porto un'altra chiesa di Santa Maria della Rocchetta. Ma pur troppo mentre da una parte nessun documento o memoria ci prova resistenza in Porto di un'altra chiesa sotto tal titolo (27), dall'altra non v'è ripugnanza che il luogo della Rocchetta, forte alle difese e dominante un guado dell'Adda, fosse così chiamato anche prima per qualche rocca eretta anticamente, e che caduta in ruina abbia lasciato il nome al luogo. Tanto vero che il colle è detto della Rocchetta anche nell'atto di procura rilasciato dai padri del convento nel 1397, e cioè prima dell'erezione del fortilizio visconteo-sforzesco. Gli atti poi di visita del tempo di S. Carlo, e quindi prima che i padri di S. Marco ricomperassero dalla Scaccabarozzi il fondo, ci provano ancora come i padri ritenessero il possesso della chiesa. Non mi fu dato di rinvenire l'originale della bolla di Bonifacio IX e di Leone X, che i padri dissero di possedere, delle quali ne parla altresì il Torelli nei Secoli Agostiniani. Ma questo non è motivo per dubitarne, poiché i padri di S. Marco a tutela dei loro diritti ricorsero alla Santa Sede, dove, presentati i relativi documenti, ottennero piena soddisfazione. Il parroco di Paderno fu obbligato ad affiggere alla porta della chiesa parrocchiale la sentenza pontificia.
Del resto Porto e la Rocchetta appartennero fin da remota antichità alla pieve di Pontirolo, circoscrizione territoriale ecclesiastica e civile ad un tempo (28). Tuttavia, situati com'erano sui confini della pieve di Brivio e di Pontirolo, avvenne più tardi, incominciando dall'errore del catasto di Carlo V, che talora, come risulta dai documenti riguardanti il naviglio, senza badarci gran che, tanto più che il naviglio incominciava in territorio di Paderno e finiva in quello di Porto, si attribuissero ora alla pieve di Pontirolo ora a quella di Brivio.
Di queste confusioni se ne approfittò il curato don Pietro Consonni, nonostante gli anteriori decreti di S. Carlo, per affermare nel 1610 al card. Federico che la Rocchetta si trovava nel territorio e nella parrocchia di Paderno.
La grave misura presa dall'autorità diocesana coll'interdire il santuario recò grave danno al culto della Madonna della Rocchetta. " Mentre, - scrive un buon frate di allora - con vive espressioni d'un vero e divoto affetto verso la gran madre di Dio solennizavasi già per secoli interi dai padri di san Marco la solita festa della Madonna della Rocchetta nel territorio di Porto, alla quale concorrevano da tutte le parti, e vicine e remote, in gran numero i popoli con molta loro sodisfatione per il commodo che la loro divotione riceveva sì dalla molteplicità delle messe come dalla copia de confessori e di chi gli somministrava il sacro pane eucaristico, invidiando il nemico d'ogni bene una tal festa e che già per si lungo tempo nella comune quiete, buona amistà et unione dell'ecclesiastico secolare e regolare trionfava, all'improviso con impensato colpo, cangiando l'unione in discordia, l'abbatté in modo che si verificò quel detto d'Isaia al capo primo: Calendas vestras et festivitates vestras odivit anima mea; facta sunt mihi molestas, laboravi sustinens. Quindi è che il signor curato di Paderno (sempre da' Padri sud.i con particolar ossequio amato e riverito) non si sa se per propria volontà o per volere altrui volse, assistito da notaro e testimoni tentare giuridicamente il possesso di cantare in detta chiesa solemnemente la Messa, e che poi si rogasse l'atto. Veramente una simil violenza era assai più propria di qualonque altro che d'un ecclesiastico sì riverito che per l'amistà che passava tra esso et i Padri suddetti, era certo (senza questa novità indebita) riceverne ogni giusta sodisfatione che h avesse saputo desiderare: con tutto ciò ha voluto in questo mostrarsi piuttosto diffidente che confidente. Ma ciò, che prima d'ogni tentativo, doveva considerare e pure non ci pensò! Caso deplorabile che cava dagli occhi le lagrime è il gran male che infatti ne seguì! Poiché impedì una sì divota festa, tolse il culto che si doveva alla gran Madre di Dio, levò i popoli dalla loro solita divotione, fece chiudere la chiesa, e scandalizzò tanti popoli che ancor oggidì non cessano dalle doglianze e dai lamenti " .
Il motivo per cui venne a risuscitarsi questa contesa tra don Giacinto e i padri di S. Marco sarebbe stato l'oste della Rocchetta, spinto dall'ingordigia di maggior guadagno nel giorno della sagra. " La cagione che l'oste sia stato il principale a insalzare il sig. Curato e il s.r Conte dandoli ad intendere che sia nella cura di Paderno, è stato per escludere 1i osti delle altre terre a venire a vendere in tal giorno per aver lui tutto il guadagno ". Intanto i padri di S. Marco, mentre durava l'interdetto, celebravano la festa della Madonna della Rocchetta nel loro oratorio di S. Nicola in Porto.
Pienamente riconosciuti dalla Santa Sede i diritti dei padri, l'arcivescovo card. Archinti levò nel 1709 l'interdetto alla chiesa situata " intra fines Parrocchialis Ecclesiae dicti Loci Portus ", a patto che fosse tenuta meglio, provvista di tutto il necessario, e, senza alcun pregiudizio dei diritti parrocchiali, non vi fosse altro ingresso nella medesima fuorché dalla porta della pubblica strada. E per l'esecuzione diede mandato al prevosto di Trezzo don Battista Frascarolo.
La chiesa venne riaperta al culto con numeroso intervento di fedeli. Ma non si verificò più come prima il gran concorso delle popolazioni della Brianza abduana e del Bergamasco: queste, durante l'interdetto, si erano rivolte al vicino santuario della Madonna del Bosco, presso Imbersago, da pochi anni sorto (1646), dopo che si era sparsa la voce di un fatto miracoloso avvenuto in quel luogo.
Perduta la partita dalla parte ecclesiastica, quei di Paderno cercarono di spuntarla dal lato civile e vi riuscirono, giacché dietro le quinte chi brigava era il loro feudatario. Infatti nel 1721, lavorandosi pel nuovo catasto generale dello Stato di Milano, quelli di Paderno pretesero la Rocchetta e Porto nel loro territorio, pieve di Brivio. Contro tali pretese insorse la comunità di Porto. La causa fu portata dinnanzi al delegato della giunta del censo, Gio. Battista Pozzi. Riguardo a Porto la causa fu facilmente vinta, ed anche per la Rocchetta sul principio parve si riconoscessero le ragioni della comunità di Porto; ma poi senza plausibili ragioni fu definitivamente unita al territorio di Paderno (1760).
I padri di S. Marco presero ad avere maggior cura della chiesa della Rocchetta che non pel passato, e il convisitatore del cardinal arcivescovo Pozzobonelli, che nel marzo del 1759 era venuto in visita pastorale a Cornate, la trovò sufficientemente conservata e provvista di sacra suppellettile. La volta della cappella, ci dicono gli atti di visita, era ornata di antiche ed eleganti pitture: affreschi andati perduti negli ultimi restauri.
Scatenatasi sul finire del secolo XVIII la rivoluzione francese, e passato il governo di Lombardia nelle mani dei repubblicani di Francia, il piccolo santuario andò travolto nella soppressione del convento di S. Marco nel 1797. Porto e la Rocchetta continuarono a far parte della parrocchia di Cornate finché nel 1898 furono eretti in parrocchia. Il decreto del 1570 del padre Leonetto, che naturalmente, e si capisce, i padri di S. Marco non pensarono mai di eseguire, fu tradotto in atto dalla buona volontà de terrieri di Porto con la sanzione dell'arcivescovo cardinal Ferrari.
Dall'alto la bianca e vetusta chiesina della Madonna della Rocchetta continua a dominare in un paesaggio selvaggiamente pittoresco, meta di umili anime oranti alla Vergine. Sorta, si può dire, dal divino slancio popolare che fece sorgere in Milano la superba mole marmorea a Maria Nascente, da umile sorella, situata ai confini del ducato, condivise molte vicende della lontana città. E come lungo i secoli pei lavori immortali del naviglio e delle conche, così ora, mutati in meglio i tempi, assiste e benedice ai grandiosi impianti idroelettrici che dalle sue sponde tanta forza portano all'industre metropoli lombarda (29).