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IL GIURAMENTO DI PONTIDA E LA SOCIETÀ DELLA MORTE NELLA BATTAGLIA DI LEGNANO
(Storia o Leggenda ?)


Ristampa riveduta - Como 1970


"Quod enim a recentiore auctore de rebus adeo antiquis sine alicuius vetustoris auctoritate profertur, contemnitur
".
BARONIUS, Annales Ecclesiastici, I, 12.


AL LETTORE

È la ristampa di alcune note riguardanti il Giuramento di Pontida che il Corio dice celebrato il 7 aprile 1167 nella chiesa del monastero cluniacense di S. Giacomo, e la Società della Morte del Fiamma, capitanata da Alberto da Giussano, nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176.
Purtroppo c’è ben poco o nulla da aggiungere al già detto. Sono avvenimenti tanto incerti e malsicuri che sanno di leggendario.
Né ciò deve fare meraviglia. A quanti fatti senza una base di certezza, e a quante illusioni si presta fede!
Nella vita di Pio XII, scritta dal padre gesuita Leiber (Herden, Verlag, 1959), si legge che Mons. Pacelli (di poi Pio XII), allora nunzio in Germania, si trovò un giorno, in un ricevimento, a sedere accanto ad Adolfo Harnack, lo storico pilota del luteranismo liberale. Nel corso del colloquio il diplomatico della Chiesa di Roma domandò al celebre studioso quanto ci fosse di vero in ciò che la storia ci ha tramandato. Harnack rispose senza indugio: circa la metà, eccellenza. E il padre Leiber commenta: oserei dire che per Pio XII la linea di confine tra il sicuro e il non sicuro era ancora al di sotto della metà.





PARTE PRIMA

IL GIURAMENTO DI PONTIDA
DEL 7 APRILE 1167

Pontida, oggi capoluogo di un grosso comune della Valle S. Martino, è situato in territorio della diocesi e provincia di Bergamo, ma anticamente, fin quasi al cadere del secolo XVIII, la valle aveva fatto parte ecclesiasticamente della pieve di Brivio oltre l'Adda, diocesi di Milano (1).
Ebbe celebrità per il monastero cluniacense ivi fondato da S. Alberto nella seconda metà inoltrata del secolo XI, e dedicato a S. Giacomo, e forse ancor più per un Giuramento di Concordia fra le città lombarde, che si vorrebbe tenuto il 7 aprile 1167 nella chiesa di quel monastero.
***

Senonché, di un giuramento o congresso, tenuto in Pontida al tempo della Lega Lombarda, non vi è cenno in nessuna fonte scritta e nemmeno nella tradizione orale prima del Corio (1459-1519) (2) , il quale per primo ne fece parola nella sua Storia di Milano edita nel 1503: da lui dipendono tutti coloro, il Sigonio compreso, che successivamente vollero ammettere questo giuramento (3).
Scrive il Corio: ".. Queste cose in quelle parte lo Imperatore agitandose: li Procuratori per lui constituti in Lombardia più asperamente che prima di continui mali exagitavano li subditi: ne per questo veruna cità da per si non havea ardire de vindicarsi: ne anchora tanta exstorsione non si poteva sostenere: finalmente la necessità trovò il consilio. Per il che Milanesi li quali più che veruno altro de Lombardia erano aflicti: in modo che fugire non ardivano ne stare puotevano: deliberarono de fare uno concilio inscieme con Cremonesi: Bergamaschi: Bressani: Mantovani e Ferraresi: li quali al septimo Daprile in el templo di sancto Iacobo in Pontida nel Bergamascho convenendosi: furono recitate per ciascuno le ricevute ingiurie: le quale supportandole: cognosceano più non potere vivere per il che ad ogniuno pareva essere melio con honore una sola volta morire: che sotto di tanta Tjrannide vivere. Sopra di ciò Pinamonte Vimercato nobile et egregio Milanese: con grande humanità in questo modo cominciò a dire. Le destructione: le ruine: li incendii: le cede: le rapine: le violentie ad ogni sexo et etate: li vectigalii: graveze: iniusticie: a noi illate da Federico et altri Barbari in nome suo: naturalmente nemici al nome italiano: io penso che ognuno de voi fratelli et amici: representatori dele amantissime e fidelissime Republice chiaramente il cognosca: e troppo con dolore e calamitate gli habino supportate sine a presenti giorni: et anche tanto male in tal forma è per multiplicare: che ultimamente non so se la morte nostra potrà saciare la sevissima e superbissima natura de tal gente. Il perché grandemente è da considerare in qual modo si gli possa resistere e discaciarli fuori del nostro Paese. Sopra dil che io di continuo considerando veruna altra salute non trovo a tanto male: che la restitutione de la destructa cità Milano. Et a ciò che non para ch’io vi commemora le cose predicte per il privato bene e particularitate: più che per la commune salute: vi proponerò alchune evidentissime ragione: e prima. Lé a ciaschuno manifesto che la nostra Cità per ogni tempo come capo deli Insubrii non solo quelli contra molte natione ha difesi e mantenuti: ma anchora le Italice Republice et exsterni potentati: a li quali lo implorato presidio ha sempre prestato; et alchuna fiada gli ha liberati di perpetua servitute: dil che la sancta Jerusalemme rende vero testimonio: nel tempo che Otho Vesconte con Gothofredo fu mandato per la nostra communità ala recuperatione di la sacra terra. Similmente Bressa: Cremona: e molte altre preclare Republice ne puono rendere ampla certitudine: non pretermittendo l’antiqua gloria: come Cesare con il nostro adiuto contra di Pompeo obtenne felicissima victoria: e finalmente lo Imperio Romano. Dinde ciaschuno può considerare che infine la nostra cità è stata lo inimico nostro capitale: mai non ebbe ardire si incrudelire come doppuo ha facto contra de le altra cità: in far ruinare le mure de le più nobile: cioè Bologna: Bressa e Piacentia: pigliando le più valide fortezze in suo dominio. Doppuoi in ogni loco ha constituito le sue potestate e miso li procuratori: in modo che ogniuno chiaramente può intendere Federico havere in suo dominio tutta la Lombardia: dove talmente è per firmare il piede: che niuna posteritate mai serà bastante a levarlo: anzi in tutto lasciando li suoi costumi farasse Theutonica. O crudel fato: o deploranda potestate: o misera conditione: che quello che mai non puotte obtenere Brenno occupatore de Roma: ne il sagacissimo Hanibal con tante clade per lui date a li Italiani: ne Pyrro con il suo bene ordinato e potentissimo exercito: ne Conrado secondo: quale tanto incendio: occisione e rapine diede circa la magnanima Cità: a nostri giorni uno Thodesco con la possanza Italica debe lacerare Italia: che in verità per veruna altra via non haverebbe potuto ne potrebbe fare. Ma non essendo anchora questa mala pianta in tutto radicata: la nostra unione penso ne potrà anche liberare da la perpetua servitute: la quale de giorno in giorno verso de noi si fa più crudele. Ripensate vi prego quanto li costumi oltramontani sono dai nostri diferenti: ricordatevi quante clade: quante iacture: quante pugne adverse hano recevute dal valore Italiano: excogitate che sempre serano avvidi de far vendetta contra di noi: e che non solo le facultate: ma le mogliere e nostri figlioli con acerba violentia continuamente serano in preda de Barbari: e di tanto male a chi potrete dimandare ragione. E se per lultimo remedio volessemo in tutto la nostra patria lasciare in potestà di loro: ditemi vi prego: è veruno de noi che sapia dove drizarsi: et è anche di pegio: che il partire non ne è concesso: aciò che in tutta la Lombarda stirpe sotto il gravissimo iugo habia in processo di tempo a manchare. Certificandovi: se disponeremo vivere con indissolubile amore: questi Barbari per essere il paese a sé naturalmente nimico: circundato da monti: e distante da le sue confine: più tosto con la fame serano vincti che con larme.
Adunque il commune bene: la commune salute e liberatione: vi mova a dare opportuno principio ne la instauratione de la nostra cità. E considerate che in perpetuo tanto beneficio da Milanesi non sia dimenticato: anzi in ogni tempo et in ogni opportunitate vi serano favorevoli: e potrete tenere per certo che tanta felice edificatione habia a parturire una generale liberatione de la molestissima servitute: ne la quale ciaschuno vede apertamente essere constituto. O perpetua gloria de quegli haverano dato adiuto a sì nobile impresa: la quale più veramente commune che particulare potrano reputare. In questa restauratione de Milano non solo la salute de Lombardia e de Italia consiste: ma anche da tutta la Christianitate: e questa è sol quella ne la quale è posta la commune liberatione. Con bono animo disponetivi hormai ad aiutare Milanesi: a ciò che mediante il vostro auxilio possono fare felice principio al ritornare nela propria patria: megliore mezo in reedificare le mure de la potente Cità: et optimo fine in possederla: con la liberatione da tutte le exsterne oppresione. Havendo Pinamonte finito ciaschuno laudò lutile consiglio. Il perché feceno confederatione insieme con capitulo: che luna cità alaltra porgesse adiuto: e difenderse da lo Imperatore e da suoi procuratori o nunci: quando gli volesseno fare violentia alchuna: e questo ciaschuno de li predicti con sacramento promise salvando però: sicome in publico dicevano: la fede de lo Imperatore: quale haveano con sacramento corroborata. In questo concilio anchora fu limitato uno termine: nel quale tutti inscieme doveano remettere Milanesi nela sua cità: et adiutarli anchora a relevare le fosse: aciò Milanesi vi puotessero habitare sicuri. Il che essendosi concluso ciaschuno con animo lieto si partì ritornando ale patrie loro. Et inde Milanesi al termine constituto con suoi colligati nel giorno de la festività de sancto Vitale et Valeria al vigesimo octavo daprile: bene armati e con molti vexilli entrarono ne la loro desiderata cità Milano: et ivi inclinati a terra: immortale gratie reseno a le predicte Republice li transmissi de le quale pigliata buona licentia da Milanesi: ritornarono a le proprie patrie. Puoi li optimi patricii con tutte quelle forze gli fu possibile: al meglio che puotteno si fortificarono ne la ruinata sua cità Milano. Di questa conspiratione: e come Milanesi erano entrati in Milano: di subito lo Imperatore fu avisato: il quale benché tale novella li pasasse il core: nientedimeno in palese dimonstrò di tal cosa non curarsi. Consiglio per certo sapientissimo: e quale da prudenti Capitanei: et excellentissimi Principi in simile angustie se sole diligentemente observare. Onde da Vergilio eminentissimo Poeta il suo Enea fu summamente comendato: quando da fortuna nel lito de la aphrica buttato: persa una parte de sue nave (come veramente credeva) per non spaventar li suoi. Spem vultu simulat premit altum corde dolorem
" (fol. 48).

***

In merito agli accordi tra le città lombarde contro il Barbarossa, ecco in breve quanto si ricava dai documenti e dai cronisti di quel tempo (4): la barbarica distruzione nel 1162 della città di Milano (5) e la triste condizione nella quale furono ridotti i Milanesi; le vessazioni indiscriminate dei funzionari imperiali; il gravame di continue richieste di denaro con tasse e tributi; la devastazione di territori del bergamasco e del bresciano compiuta dal Barbarossa nel novembre del 1166; l'esempio delle città della Marca Veronese e Trevigiana strette in lega fin dall'aprile del 1164 con-tro l'imperatore in difesa dei loro diritti, ed altri motivi, fecero si che la maggior parte dei Lombardi venissero ad una maggior comprensione fra di loro, e a suscitare sensi concordi di ribellione al tirannico dominio cui soggiacevano.
Pertanto nel 1167, approfittando della lontananza dell'imperatore col suo esercito, che nel mese di gennaio aveva intrapreso una spedizione nell'Italia meridionale finita poi tanto miseramente che l'imperatore dovette ritornare in Germania per rimettere in sesto l'esercito, l'8 marzo in Bergamo si raccolsero in congresso Bergamaschi, Bresciani, Cremonesi e Mantovani, e vi conclusero una concordia, ossia una stretta alleanza contro chiunque osasse fare ingiustizia ai loro diritti già in uso da oltre cento anni, e con la clausola che vi potessero far parte altre città, purché assumessero gli annessi comuni obblighi. I patti, di quel primo congresso d'alleanza, dovevano essere giurati al 16 di marzo da duecento dei migliori cittadini delle rispettive città (6).
I Milanesi, aiutati specialmente dai Cremonesi, furono i primi a domandare l'adesione, e nonostante la loro triste situazione, e fors'anche per questo, ottennero di farvi parte.
In quello stesso mese si tenne infatti a Cremona un secondo congresso nel quale - per la prima volta - sono presenti i Milanesi coi loro delegati: Ottone Visconti, Confalonieri d'Aliate, Alberto da Carate, Rogerio Marcellino, Manfredo da Sesto, Alberto Longhi, Malfigliozzo de Ermenulfi.
Di Pinamonte da Vimercate non si fa menzione né in questo né in altri accordi con altre città prima della vittoria di Legnano (7).
Si ribadiva il patto dell'aiuto vicendevole contro i soprusi di chicchesia. Si rinnovava tuttavia la fedeltà all'imperatore, pur rimanendo l'impegno di far valere le ragioni e i diritti che gli alleati sostenevano di essere in loro possesso e godimento da ormai cent'anni.
Il termine per il giuramento dei patti da parte dei cittadini venne fissato al 1° di maggio, e naturalmente, si può ben pensare, per dar tempo ai Mila-nesi di sistemarsi in città (8).
Un terzo trattato veniva conchiuso il 4 aprile tra i Milanesi e i Bergamaschi, al quale vi aderiva Cremona: riguardava specialmente l'agguerrito castello di Trezzo, presidiato dai tedeschi, che stava come un cuneo fra Milano e Bergamo, e che fu poi espugnato e preso il successivo 10 agosto (9).
Di questi precedenti sicuri congressi o congiure ne ebbe sentore il vicario imperiale di Milano, conte Enrico di Dixe, il quale non soddisfatto di aver imposto e ricevuto il 22 marzo cento ostaggi dai Milanesi, mandandoli nella fedele Pavia, ne pretese successivamente altri duecento con in più cento militi, da consegnare entro ventiquattr'ore, sotto minaccia di sanguinose rappresaglie coll'aiuto dei Pavesi.
La situazione dei Milanesi, raccolti nei borghi periferici della rovinata città, si faceva sempre più pesante.
Il 27 aprile, prima che scadesse il primo maggio, comparvero nei borghi truppe Bergamasche, Bresciane e Cremonesi che ricondussero i Milanesi nella loro città, aiutandoli a rimetterla in efficienza e in stato di difesa.
Il rientro festante dei Milanesi segnò l'uscita dei tedeschi che presidiavano la città e i loro fautori (10).
Il 5 settembre entrava in Milano l'arcivescovo S.Galdino, eletto successore di Oberto e vi faceva residenza.
La città veniva risorgendo, e si incamminava a diventare la città più potente della Lega.
Non è nel nostro scopo seguire il susseguente allargarsi e rafforzarsi della Lega Lombarda. Basti il dire che col primo di dicembre erano già ben quattordici le città alleate.

***

Rimane pertanto accertato che la Lega Lombarda trasse le sue origini a Bergamo l'8 marzo 1167, e non a Pontida il 7 aprile; che nel successivo congresso di Cremona dello stesso mese vediamo i Milanesi partecipare all'alleanza, e che Pinamonte e i Ferraresi non hanno a che fare ne' a Bergamo né a Cremona (11).
Della riedificazione di Milano non vi è tuttavia esplicita menzione né in questo né in altri autentici congressi della Lega, tranne che in quello incertissimo di Pontida presentatoci dal Corio e da nessun altro.
I sostenitori di quest'ultimo ne trassero argomento per affermare, con quasi certezza, che fu appunto in Pontida che si sarebbe decisa la sua ricostruzione.
Commentava il Vignati fin dal 1867 che: " Sire Raoul e Morena, storici contemporanei, ed altri cronisti, scrivono bensì di un congresso o di una congiura avvenuta in quei giorni, attribuendo a questa anche le precedenti intelligenze delle città lombarde, ma tacciono il giorno e il luogo dell'avvenimento. Il Corio e il Sigonio dicono senza esitare che fu in Pontida il 7 aprile ". E soggiunge: " Siccome i congressi precedenti rimasero probabilmente ignoti a molti, e invece quello di Pontida che decise della immediata riedificazione di Milano fece molto rumore, a quel congresso si attribuirono fatti di altri tempi e luoghi "(12).
Per il Vignati " è indubitabile che a Pontida andarono Milanesi, Bergamaschi, Cremonesi, Bresciani e Mantovani, e probabilmente si fecero rappresentare da quelli stessi che furono al congresso di Cremona, ma non avevano bisogno di stringersi in lega che già lo erano. E pur certo che si trattò del modo e del giorno di liberare i Milanesi e ricondurli nella rovinata città, come fecero venti giorni dopo; ma nessun dato storico ci dà a pensare che in Pontida si facessero altre disposizioni " (13). Questo modo di argomentare dà l'impressione di una convinzione preconcetta non sorretta da prova qualsiasi, per cui si continua a rimanere nell'oscurità e nell'incertezza.
Lo Zimolo riprese, in sostanza, l'opinione del Vignati, e con osservazioni ricavate dal confronto delle fonti sincrone si sforzò, pur prescindendo dal Corio e dal Sigonio, di rendere verosimile, anzi necessaria, la ipotesi di un congresso posteriore ai precedenti, nel quale si decise la ricostruzione di Milano, o per lo meno la data e le formalità di essa, poiché in tal modo, a parer suo, era possibile accordare quanto dicono le fonti stesse(14) .
Allo Zimolo si è accostato il Belotti nella sua Storia di Bergamo (15), e ultimamente il benedettino Padre Lunardon in occasione dell'VIII centenario di quel giuramento.
Per il Lunardon è assai probabile, anzi quasi certo, che siasi tenuto un congresso nel monastero di Pontida, e in esso discussa la ricostruzione di Milano(16) .
Egli afferma che, tra un patto e l'altro dei congressi rimastici nel volume di Lodi o in altri archivi, c'era ben posto per altri incontri e patti, come dimostra, egli dice, anche l'esperienza quotidiana: nessun congresso riesce a stabilire tutto, a prevedere tutto, e spesso per realizzare le decisioni di un congresso, occorre adunarne un altro o, per lo meno una commissione e relative sottocommissioni (17).
A questo riguardo si potrebbe osservare che non è un buon metodo, per avvicinarci alla verità, il voler giudicare i fatti di un'epoca storica col metro di quello di un'altra. E gli avvenimenti di quel lontano mondo medioevale si svolsero appunto in un ambiente sociale e politico sotto molti aspetti ben diverso dal nostro. Uomini e istituzioni rimangono storicamente comprensibili solamente se inseriti nel loro contesto e valutati secondo la mentalità ed esigenze di tempi tanto differenti dai nostri.
Altrettanto non persuasivo è il supporre che le città alleate fossero talmente esitanti e perplesse, per i pericoli ai quali rischiavano di andare incontro coll'accettare i Milanesi nella Lega e aiutarli a ricostruire la città, da essere necessario, per indurle ad una maggior comprensione, un apposito congresso segreto a senso politico, tenuto sotto la spinta di Pinamonte, a Pontida il 7 aprile(18) . Ciò non risulta da nessuna fonte contemporanea.
Il Corio stesso non accenna a difficoltà opposte dagli alleati.
L'accettazione dei Milanesi nella Lega non sarà di certo avvenuta a casaccio ma nemmeno con pignoleria dubbiosa, inconcludente. Data la loro particolare situazione politica, se ne sarà doverosamente e attentamente vagliato il pro e il contro sotto ogni rapporto.
Il divisamento poi di liberare i Milanesi dalla loro impotenza e di renderli liberi cittadini giuridicamente capaci, come gli altri alleati, di assolvere ai comuni obblighi, doveva essere presente e operante nei confederati sino dai primi abboccamenti. La logica ed il buon senso ci avvertono che, come in tutti gli affari di una certa importanza, il fine, che sarebbe l'ultimo dei fatti, diventa il primo nell'ordine degli intenti.
Perciò il congresso di Cremona, nel quale per la prima volta compaiono i delegati Milanesi e firmano con gli altri i patti stabiliti, lascerebbe seriamente intuire che sia stato preliminarmente deciso anche il tempo e il modo di aiutare i Milanesi a riedificare la loro città, condizione indispensabile per non essere di peso, ma divenire al più presto alleati efficienti.

***

Comunque sia avvenuto, sta tuttavia il fatto che in nessun atto della Lega, si fa espressamente parola della riedificazione di Milano.
Per quanto sia difficile leggere con precisione nel cervello degli altri, si potrebbe ciò nonostante affermare con molta probabilità che, date le difficoltà politiche di quei momenti, si ritenne non necessario né conveniente farne esplicito accenno nella stesura finale dell'atto.
Non strettamente necessario, poiché l'obbligo di aiutarsi vicendevolmente a tutto potere contro le ingiustizie e i soprusi di chicchessia era già stabilito e firmato nei patti dell'alleanza; e tanto meno conveniente in quanto si trattava di un'inutile sanguinosa sfida all'autorità imperiale; sfida che veniva inoltre ad essere in grave contrasto con la inserta fedeltà all'imperatore.
Così facendo si sarebbe probabilmente cercato di salvare, almeno in parte, la faccia.
La ricostruzione di Milano riempì di amarezza l'imperatore.
Da avveduto politico, procrastinò a tempi per lui migliori il farne vendetta.
Nove anni dopo a Legnano affronterà infatti l'esercito Milanese e suoi alleati, ma rimarrà talmente sconfitto da dover lasciare, con la successiva pace di Costanza, il passo libero allo svolgersi delle nuove esigenze sociali e politiche, che venivano fermentando in Lombardia e altrove.

***

Benché l'arco del possibile sia vastissimo, nondimeno nella realtà, in correlazione al documentato svolgersi degli avvenimenti, è ben difficile sostenere l'esistenza del giuramento di Pontida.
Di questo giuramento, al quale per dargli uno scopo gli si attribuirono, come si è detto, gli ultimi definitivi accordi tra Milanesi e alleati, non si ha notizia qualsiasi in nessuna cronaca guelfa o ghibellina italiana o straniera, in nessun atto pubblico o privato milanese o di altra città, in nessun monumento, in nessuna tradizione o leggenda. Anche il monaco Ilarione, familiare dell'arcivescovo S. Galdino e che ne scrisse la vita, non accenna ad un giuramento di Pontida. Tutto è muto. E una notizia che salta fuori di punto in bianco col Corio nel 1503, ossia ben 336 anni dopo!...
Tristano Calco, che poco prima aveva lui pure scritto una Storia di Milano, lo ignora affatto .(19)
Perciò non mancarono autorevoli studiosi, i quali con ragioni non tanto facilmente confutabili, non dubitarono di ritenere una leggenda, una favola, il giuramento di Pontida(20) , e questo certamente non per dubbia ostentazione di erudizione, e tanto meno per un accanimento preconcetto.
Donde prese il Corio quell'insolita notizia? Non ce lo fa sapere. Ma una delle due: o la ricavò da qualche scritto di poco o nessun conto se rimasto a tutti sconosciuto prima e dopo di lui, e certamente non sincrono ma posteriore di secoli, poiché l'anacronistico discorso di Pinamonte sa di umanistico, di rinascimentale; oppure - ed è forse più verosimile - si tratta di un'elaborazione personale del Corio stesso.
Egli avrebbe preso la notizia di un generico congresso, tenuto in quel tempo, dall'Anonimo continuatore di Acerbo Morena - la riporta infatti con le stesse parole(21) - e l'avrebbe specificata coll'aggiungervi la data e il luogo, e attribuendo a quel congresso la fondazione della Lega Lombarda e la decisione di ricostruire la città di Milano.
Il Corio, pur essendo in linea di massima uno storico di valore in quanto, come il Calco, ha lavorato, almeno in parte, su fonti d'archivio alcune delle quali oggi introvabili, tuttavia non sempre dà affidamento di attendibilità, mancando talora di vigilante senso critico. Più volte, a detta dello stesso Zimolo, fu colto in falso nella sua Storia di Milano in fatto di notizie, di nomi, e di date.

***

L'argomentare sul silenzio delle fonti lo si vorrebbe di un valore molto relativo e quasi mai stringente. Ma questo potrà verificarsi in dati casi.
E chiaro che una prova positiva, inequivocabilmente documentata toglie definitivamente ogni dubbio, ogni discussione, e fa limpidamente risaltare la verità.
Ma quando, come nel caso nostro, ci troviamo di fronte ad un assoluto silenzio di oltre tre secoli, silenzio negativo avvalorato da ragionevoli probabili motivi che ci offrono gli stessi atti autentici della Lega, e non da fragili indizi, conserva un valore che si impone allo studioso.
Gli atti di quel congresso, soggiungono altri, potrebbero essere andati distrutti in occasione di qualche grave infortunio (incendi, saccheggi, devastazioni, ecc.) dei passati secoli. Ciò lo si può ammettere per alcune città della Lega, ma non tutte andarono soggette a tali disastri, mentre tutte erano interessate a tener copia degli atti.

Frontespizio della seconda edizione della Storia di Milano di Bernardino Corio.

Ad ogni modo, se i documenti si fossero successivamente perduti, di essi direttamente o indirettamente ce ne sarebbe rimasta, con tutta probabilità, qualche ricordo nelle carte delle rispettive città, come infatti si è verificato per altri congressi della Lega Lombarda.
Altri pensano che quanto ci narra il Corio non può essere rifiutato a priori solo perché tardivo, e che la questione non si può considerare chiusa, poiché le ricerche non sono ancora esaurite.
Che la controversia non possa dirsi definitivamente chiusa lo si potrebbe anche ammettere; per questo si continua a discutere il pro e il contro. Sta nondimeno che a tutt'oggi, dopo ottocento anni, nulla di positivo è venuto alla luce, nonostante tanti studi e ricerche, che dia sicura credibilità all'asserzione del Corio (22).
D'altra parte non c’era ragione in contrario, se quel congresso fosse veramente avvenuto, sia che avesse fatto molto rumore come insinuò il Vignati oppure siasi svolto in segreto come supporrebbe il Lunardon, che dovesse rimanere completamente ignoto per cosi tanto tempo ai Milanesi, e alle stesse città confederate.
C'era anzi motivo, dopo la vittoria di Legnano e la pace di Costanza, di esaltarlo e di eternarlo ai posteri, come nei marmi di Porta Romana tramandarono la memoria del loro rientro in città (23). Gli stessi monaci di S. Giacomo, mentre conservarono memoria del priore che con altri fece da paciere nel 1156 fra i Bergamaschi e i Bresciani, e nel 1158 tra i Lodigiani e i Milanesi, non sognarono mai un simile congresso né prima né dopo il grave saccheggio del loro monastero compiuto da Bernabò Visconti nel 1373.
È solamente col Corio che ne vennero a conoscenza, e poiché il fatto dava rinomanza al monastero e al paese di Pontida, d'allora in poi si diedero premura di tenerne viva la memoria, del resto più che naturale dal loro punto di vista, arrivando persino a volere identificare nella sala capitolare del monastero quella del giuramento di Pontida(24) .

Frammento dell'Orazione di Pinamonte da Vimercate dalla seconda edizione della Storia di Milano di Bernardino Corio.


***

Comunque sia, e con tutto il rispetto delle opinioni altrui, quello che in definitiva si può accertare si è che prima del Corio, ossia del secolo XVI, non abbiamo né uno scritto, né una tradizione, né una leggenda qualsiasi che riguardi il giuramento di Pontida. E d'altronde, come poteva formarsi una tradizione o una leggenda popolare intorno ad un avvenimento totalmente ignorato fin dalle supposte origini?
La cosi detta antica tradizione del giuramento di Pontida non si inizia che con la Storia di Milano del Corio, ossia col secolo XVI.
Non a caso il Muratori, trattando della Lega Lombarda, nei suoi Annali e nelle Antiquitates Italicae M. Aevi (vol. IV), non diede alcun peso al congresso di Pontida.
Una grande incertezza, con forte odore di favola, continuerà ad avvolgere quel giuramento sino a quando non si conoscerà, se possibile, la fonte e il suo valore, alla quale abbia attinto il Corio, oppure si rintracceranno altre fonti o quanto meno elementi inequivocabili che ne confermino la veridicità.
Ciò nonostante nel secolo scorso, durante il nostro Risorgimento, romanticamente e liricamente esaltato, fu tra i più efficaci simboli di nazionale concordia contro lo straniero.

APPENDICE

I

IUSIURANDUM PERGAMENSIUM

( 8 marzo 1167 )


"In nomine domini. Nos homines de pergamo iuramus de custodire homines brixie et cremone et mantue in nostra terra et in nostra aqua, offensionem aliquam studiose eis non faciemus, et si offensio aliqua advenerit a decem annis in za per aliquem nostrorum infra XL dies ex quo requisitum fuerit sacramento eius discernendo qui dampnum passus fuerit restituemus si requisitum fuerit a consulibus iam dictarum civitatum vel a suo certo misso cum sigillo publico nisi remanserit per parabolam ipsius qui dampnum passus fuerit, vel iusto impedimento, et si parabola vel terminus datus fuerit sine fraude attendere faciemus ad terminum quem ipse dabit; vel remanserit per parabolam consulum dictarum civitatum vel illorum qui tunc electi erunt ad iustitiam faciendam. Et si terminus vel parabola... (data fuerit) a dictis hominibus; ad ipsum terminum attendere faciemus. Nec offendemus vos vel res ve-stras... (per nos) neque cum aliqua persona; neque in habere neque in personis, nec cum rebus vel personis. Et si aliqua persona vel gens vobis offendere voluerit per nostram terram vel aquam bona fide et sine fraude prohibebimus. Et si de possessione vel debito ad nos venerit querimonia predicto modo similiter attendere faciemus sine usuris et fructibus. Et sic usque ad quinquaginta annos observabimus; et in omni quoque decimo anno renovare predictum sacramentum faciemus. Si a consulibus predictarum civitatum requisitum fuerit qui tunc erunt. Et predictum sacramentum duecentos de melioribus hominibus mee civitatis usque ad proximam medietatem quadragesime facere faciemus. Et de hinc ad octavas pasce proxime reliquos omnes homines istius civitatis et burgium habebo factos facere hoc sacramentum a XV annis in sursum et a LX in zozum et in palisi arengo, predictarum civitatum habebo receptum suum sacramentum nisi remanserint per concordiam nostram, et habebo factum meum in palisi arengo ad predictum terminum octave pasce proxime. Et si imperator fuerit ante retro reversus cum oste suo quin erit finis modoetiam in sursum, vel ad duos dies propre mantue vel cremone. Ego palam faciam hoc sacramentum in meo arengo et recipiam in vestro. Et si aliquis homo vel aliqua gens voluerit per istam concordiam malum in personas vel in eorum possessionibus vel in habere et venire super in tua civitate vel in tuo episcopato, ego ab omni homine vos adiuvabo; si requisitum fuerit cum sigillo publico et nuntio civitatis et cum personis et habere vos adiuvabimus. Si fuero in curia pape vel imperatoris bona fide adiuvabo tuum comunem et tuum missum sicut meum. Et si consules predictarum civitatum qui tunc erunt in con-cordia consulum nostre civitatis aliquid addere voluerint oh-servabimus in iam dicto sacramento. Et illa gens que in con-cordia brixie et pergameni et mantue et cremone venerit ad istam concordiam similiter observabimus. Et illa querimonia que fuerit facta de maleficio quod sit factum per imperatorem vel suum missum debet esse inanis; preter si habet datum aliquam possessionem alicuius hominis istarum civitatum qui est in ista concordia vel venerit sine parabola illius cuius est. Ego debeo esse in debitum facere laxare ei cuius erat sine fructibus et frugibus, hoc totum debeo iurare sine fraude et malo ingenio salva imperatoris fidelitate; id est quod habeat suas res sicuti sui antecessores habuerunt a centum annis infra usque ad vitam regis Conradi. Et ego per bonam fidem dabo operam ut obsides brixie exigantur " (a).

(a) Vignati, op.cit., p.104 e sg.



I I

1167 MARZO IN CIVITATE CREMONE



Gli uomini di Cremona giurano capitoli di pace con la città di Milano, Mantova, Bergamo e Brescia.
L'atto è diviso in due parti: nella prima parte (cap. 1-9) sono le proposte di pace concordate dai rappresentanti delle città interessate; nella seconda parte (cap. 9-11) le aggiunte apportate nella redazione definitiva.

" In nomine domini nostri Jesu Christi, milleximo, centeximo sexageximo septimo, indictione quintadecima, mense martii. Facta est firma pax inter Cremonenses et Mediolanenses et Mantuanos et Pergamenses atque Brisianos tali ordine.

1) Quod nos homines Cremone iuramus salvare et custodire homines Mantue et Mediolani et Pergami atque Brisie in nostra terra et in nostra aqua, nec in sua terra, nec in sua aqua ofensionem aliquam studiose eis fatiemus, salva fidelitate imperatoris Fiderici.

2) Et si ofensio aliqua evenerit, vel a decem annis retro evenit per aliquem nostrorum, infra quadraginta dies postquam nobis requisitum fuerit, sacramento eius dixernendo qui dampnum passus fuerit, restituemus, si requisitum fuerit a consulibus suprascriptarum civitatum qui tunc erunt, vel per suum certum missum et sigillo publico, nisi remanserit parabola illius qui dampnum susceperit, vel iusto inpedimento; et si parabola vel terminus datus fuerit, sine fraude, hoc adtendere faciemus ad terminum quem ipse dabit, nisi remanserit parabola consolum suprascriptarum civitatum, vel illorum qui tunc electi erunt ad iustitiam fatiendam; et si terminus vel parabola data fuerit a iam dictis hominibus, similiter ad ipsum terminum hoc adtendere faciemus.

3) Nec ofendemus vos vel res vestras per nos, neque cum aliqua persona, neque in rebus, neque in personis, nec cum rebus vel personis; et si aliqua persona vel gens vos ofendere voluerit per nostram terram vel per nostram aquam bona fide et sine fraude prohibebimus.

4) Et si de possessione vel debito querimonia ad nos evenerit, suprascripto modo adtendere fatiemus suprascripto ordine, de debito sine usuris, de possessione sine fructibus.

5) Et sic usque ad quinquaginta annos observabimus; et in unoque decimo anno renovare suprascriptum sacramentum faciemus, si a consolibus suprascriptarum civitatum qui tunc erunt requisitum fuerit, et omnes homines nostre civitatis a quindecim annis supra usque ad sexaginta suprascriptum sacramentum iurare faciemus bona fide et sine fraude ad proximas kalendas madii.

6) Et si consules suprascriptarum civitatum qui tunc erunt in concordia consulum nostre civitatis Cremone aliquid in concordia adere voluerint, similiter observabimus.

7) Et in vestris civitatibus ac episcopatibus ab omni homine vos adiuvabo contra eum qui vos ofendere voluerit, si requisitum fuerit sigillo publico et nuntio civitatis.

8) Et de illa gente que in concordia suprascriptarum civitatum ad nostram concordiam venerit similiter observabimus.
Actum est hoc in civitate Cremone. Et hanc concordiam composuerunt Albertonus Musa de Torclo, Osbertus Cervus, Albertus Strussius; de Mediolano Otto Vicecomes, Confanonerius de Alliato, Albertus de Carate, Rogerius Marcellinus, Mainfredus de Sexto, Albertus Longus, Malfiliozius de Armenulfis; de Pergamo Bertram Noxa, Johannes de Predengo; de Brisia Johannes de Calapino, Johannes de Ponte Carale, Girardus de Bagnole; de Mantua Jacopus de Adeleita, Raimondus..., Redulfus de Azanello.
In nomine domini nostri Jesu Christi.

9) Salva fidelitate imperatoris Frederici, quod sic expositum est ab hominibus Cremone et Mediolani et Pergami et Brisie et a consolibus Mantue, idest salvis rationibus et bonis usibus quas et quos soliti sunt habere reges et imperatores a centum annis infra usque ad vitam regis Chunradi.

10) Et si aliquis homo vel comunio civitatum harum scilicet Cremone, Mediolani, Mantue, Brisie, Pergami a decem annis retro possessionem aliquam intraverit sine ratione, restituere faciemus sine fructibus, si querimonia facta fuerit sicut in suprascripta carta concordie scriptum est, et eo remoto quod nemo possit se tueri ea ratione quod dicat se datum habere ab imperatore Frederico.

11) Ei bona fide et sine fraude operam dabimus ad recuperandos obsides Mediolani et Brisie secundum quod nobis melius visum fuerit ad bonorem suprascriptarum (civitatum), et in curia Rome et imperatoris nos vos adiuvabimus bona fide "
(b)


(b) Manaresi, op.cit., p.73 e sg.



PARTE SECONDA



ALBERTO DA GIUSSANO
E LA SOCIETÀ DELLA MORTE
NELLA BATTAGLIA DI LEGNANO
DEL 29 MAGGIO 1176

Con la battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 la Lega Lombarda conquistava di fronte all'impero germanico la libertà comunale.
I Comuni Lombardi non intendevano, date le idee istituzionali dominanti in quell'epoca, sottrarsi completamente alla podestà imperiale, ma facevano questione di franchigie e di diritti ormai acquisiti per prescrizione e negati dall'imperatore tedesco Federico I.
Non si trattava quindi di indipendenza dallo straniero come avvenne, molti secoli dopo, nel periodo del nostro Risorgimento nazionale (25).
Con le trattative di Montebello dell'anno precedente, i Lombardi avrebbero potuto ottenere patti vantaggiosi, qualora si fossero accostati alle mire dell'imperatore, tendenti specialmente a distaccarli dal pontefice Alessandro III. Ma non abboccarono. Il rischio era grave. La lotta continuò e si chiuse con la battaglia di Legnano, una delle maggiori di quel tempo sia dal punto di vista politico che militare.
Senonché quella famosa battaglia ci fu tramandata dagli storici con dei particolari, quali la Società dei novecento militi della Morte comandata da un Alberto da Giussano, e l'altra dei trecento fanti del Carroccio; particolari da alcuni accettati come veri o verosimili, da altri respinti come leggendari, per il fatto che di queste due Società militari non si ha cenno qualsiasi in nessun atto, in nessun cronista contemporaneo o vicino a quel tempo.

***

E solamente col Fiamma (circa cento cinquant'anni dopo Legnano) che spuntarono questi nuovi elementi, e purtroppo il Fiamma rimase, a tutt'oggi, l'unica fonte in merito.
Galvano Fiamma, milanese, nacque da nobile e ricca famiglia verso il 1283 e morì nel 1344. A quindici anni entrò nell'ordine dei Domenicani a San Eustorgio.
Ai suoi tempi ebbe fama di dotto, e scrisse, oltre il resto, parecchio di storia, svolgendo particolarmente la sua attività di cronista tra il 1336 ed il 1342. Fu caro ai Visconti e loro ammiratore.
La prima opera storica, cui pose mano, è la Chronica Galvagnana. Scrisse poi il Chronicon Extravagans nel 1338, che non è altro che un'amplificazione della prima parte della Galvagnana, e forse contemporaneamente il Chronicon Maius. Il Manipulus Florum, che cronologicamente raccoglie in modo sommario il materiale delle opere anteriori, viene dopo il Chronicon Maius (26).
Intorno all'autorità storica del Fiamma furono pronunciati giudizi più o meno sfavorevoli, specialmente per la parte antica. Basti ricordare quello del Novati: " il teologo domenicano per più di trent'anni ha sciupato tempo e inchiostro a travasare d'uno in altro zibaldone la stessa indigesta congerie di notizie storiche, raccattate un po’ dappertutto ed accatastate senza verun senso d'arte e lume di critica... Giacché di favole grossolane costui non soltanto ha mischiata, come il Giulini asseriva, la storia antica della città sua, ma la recente ancora; e basta per essere edificati in proposito ripensare alle strane leggende ch’ei spaccia non solo sull'assedio di Milano del Barbarossa, ma sulle spedizioni del nipote di lui Federico II!...
Il Fiamma dappertutto è conseguente a sé stesso, si manifesta cioè compilatore negligente, credulo, privo di senso critico "
(27).
Giudizio forse un po' troppo severo, ma che comunque dimostra la cautela che si deve usare con le asserzioni di frà Galvano.

***

Nel Chronicon Maius al capo 905, fol. 218r, scrivendo della guerra rinnovatasi nel 1176 tra i Milanesi e Federico Barbarossa, il Fiamma ci narra che furono organizzate in Milano tre Società militari.
La prima di novecento militi scelti tra i più addestrati, i quali giurarono di affrontare dovunque l'imperatore e di non mai darsi alla fuga, e chi di loro fosse venuto meno gli sarebbe stata mozzata la testa. Venne assunta dal Comune e aggregata all'esercito, e per distintivo ognuno ebbe un anello d'oro in dito. Suo capitano Alberto da Giussano vessillifero della Comunità. " Et ista fuit (nota il cronista) prima societas que unquam facta fuit in Mediolano ".
La seconda fu quella di trecento fanti scelti fra il popolo per la custodia del Carroccio, con giuramento di non mai abbandonarlo al nemico.
Ed una terza di trecento carri falcati triangolari con dieci uomini per carro (28).
Il Barbarossa, sempre al dir del Fiamma, mosse da Pavia contro i Milanesi, ma giunto al borgo di Carate fu sconfitto. Venuto quindi ad accamparsi tra Legnano e Dairago si riaccese la lotta, quando all'apparire di tre colombe, partite dall'altare dei martiri Sisinio, Martirio ed Alessandro (situato nella basilica di S. Simpliciano in Milano), e venute a posarsi sull'antenna del Carroccio, l'imperatore preso da spavento si diede alla fuga (29).
Di queste società il Fiamma aveva già fatto menzione nella Galvagnana al capo 291; e più avanti al capo 294, accennando alla battaglia di Legnano, non mette in scena che le tre colombe, e scrive che Alberto da Giussano, vessillifero della Comunità, era fiancheggiato da altri due suoi fratelli giganti fortissimi Otto e Rainerio che in quella circostanza portavano il vessillo spettante al fratello stesso: " Albertus de Gluxiano vexillum Comunitatis habuit, cui inerant duo fratres gigantes fortissimi, scilicet Otto et Rainerius qui fratri suo portabant vexillum semper comites fuerunt a dex-tris et a sinistris " (30).
Nell'ultima sua opera, il Manipulus Florum, dopo aver detto che i Milanesi si erano per tempo preparati alla guerra contro l'imperatore, specifica le insegne delle singole Porte cittadine sotto le quali era disciplinato l'esercito. Della battaglia di Legnano altro non fa che ricordare le solite tre colombe, e che lo scontro durò a lungo.
Se ci domandiamo, dopo tutto, quale sia stata l'azione svolta dalla Società della Morte e del suo comandante nel combattimento di Legnano nulla ci fa sapere nelle sue cronache; che anzi attribuirebbe la sconfitta dell'imperatore non alle forze della Lega Lombarda e tanto meno al valore della sopradetta Società, ma all'intervento di tre miracolose colombe.

***

Chi era questo Alberto da Giussano?
Il nome di Alberto da Giussano, e dei suoi due fratelli, all'infuori del breve cenno del Fiamma, è completamente ignorato in tutti gli avvenimenti politici e guerreschi di prima e dopo la battaglia di Legnano.
Cesare Cantù nell'Omaggio della Società Storica Lombarda al VII centenario della battaglia di Legnano (I Lombardi e il Barbarossa), domandandosi chi fosse l'eroe di quella giornata, scrive che, venuti in signoria i Visconti, si attribuì ad un loro antenato quella vittoria, e che Alberto da Giussano non si trova nominato che più tardi con altri nomi non meno incerti(31) .
Tuttavia in un ricorso dei vicini di Porta Comasina del 1196, vi sono annoverati un Ugo ed un Alberto da Giussano (32).
Benché questa notizia, nuda e cruda, non ci porga il modo di poterlo sicuramente identificare con quello del Fiamma, nondimeno non è inverosimile che possa essere la stessa persona.
Comunque sia, un Alberto da Giussano, tranne che nell'accennato ricorso, non appare, ripeto, a tutt'oggi in nessuna altra fonte, in nessun atto pubblico o privato, in nessun avvenimento grande o piccolo, in nessuna cronaca o memoria che non sia quella del Fiamma, nonostante le pazienti ricerche fatte da studiosi in archivi pubblici e privati, sia in occasione del settimo centenario della battaglia di Legnano, che successivamente dopo.
La casata dei Giussani che, secondo il Rossi, teneva la turrita casa avita in Porta Nova (33), ebbe non poche relazioni col Monastero Maggiore di Milano a motivo della corte di Arosio confinante con Giussano. Orbene nelle carte rimasteci di quel monastero non vi è parola di un Alberto da Giussano. Abbiamo invece memoria, se non di un Rainerio, di un Otto o Ottone da Giussano. Ma non mi risulta che fosse fratello di un Alberto o di un Rainerio.
Otto, il quale possedeva beni non solo in Giussano, ma altresì in Arosio e dintorni, doveva essere persona ricca e ragguardevole, e ricorre in atti del 1190, 1199, 1212 (34).
Osserva il Rossi che "la gloria di Alberto, dopo la battaglia di Legnano, doveva riflettersi anche sulla di lui famiglia, accrescerne la riputazione, se non le ricchezze già considerevolissime, ed eccitarne i discendenti a coprirsi di splendore nelle armi, e nelle pubbliche cariche in servizio della patria " (35).
Strano invece che nei signori da Giussano dal se-colo XII in poi, fra tanti e diversi nomi familiari, il nome di Alberto non ricorre che tre volte nei secoli XVI e XVII.
I discendenti avrebbero dovuto sentirsi orgogliosi di tener vivo nella loro casata il nome di un tanto glorioso avo, se veramente ad essa appartenuto.
Gli stessi abitanti di Giussano si ricorderanno di un Alberto da Giussano in occasione del VII centenario della battaglia di Legnano, i di cui preparativi incominciarono parecchi anni prima sotto la spinta di Vitaliano Rossi.
Ad Alberto fu dapprima dedicata una via del paese, e successivamente il Consiglio Comunale deliberava che fosse inoltre collocata sulla parete esterna della casa comunale una lapide commemorativa, che fu infatti inaugurata il 29 maggio 1876.
Nei secoli precedenti doveva essere uno sconosciuto, se di lui non ci è rimasta memoria nelle vecchie carte e registri della Parrocchia e del Comune.
Fu specialmente il citato volumetto del Rossi, pubblicato nel 1876, che lo richiamò all'attenzione loro e degli altri. In esso egli riporta altresì la prima parte di uno scritto riguardante Alberto. Argomentando da quel poco che trascrive non dev'essere molto antico. Se si fosse trattato di un documento anteriore al Fiamma o di quel tempo non avrebbe certamente tralasciato di annotarlo.
In definitiva mi sembra che non si possa altro precisare che, sullo scorcio del secolo XII (1196), esisteva realmente a Milano un Alberto da Giussano: dimorava in Porta Cumana, ed era tra le persone più distinte di quella zona cittadina. Appare con un Ugo pure da Giussano, mentre l'Alberto del Fiamma lo è con un Otto e un Rainerio.
Ma quali fossero le sue occupazioni, le sue opere non è possibile accertare. Si potrebbe forse pensare che vent'anni prima, nella pienezza delle sue forze, possa avere partecipato alla battaglia di Legnano sotto le insegne dei militi di Porta Cumana, e di essere stato tra quei militi fuggiaschi milanesi che si riunirono al nuovo contingente alleato arrivato più tardi in aiuto alla fanteria, assalendo sul fianco il nemico, e siasi diportato tanto valorosamente, che la leggenda come ha trasformato quei militi nella Società della Morte del Fiamma, lo abbia fatto di essa gigantesco ed invincibile capitano.
Come ben si accorge il lettore, si cammina sul terreno mal fido di congetture più o meno attendibili. Di certo nulla ci è stato dato di conoscere, né quando né dove nacque, se a Milano o a Giussano o altrove, né dove né come trascorse la sua giovinezza(36) , né quali le sue imprese, né quando né dove morì .
Se poi, come afferma il Rossi, l'abitazione della casata dei Giussani era in Porta Nuova, probabilmente Alberto ed Ugo dimoranti ambedue in Porta Cumana, appartenevano a qualche ramo di detta casata forse già da tempo stabilitosi in Milano, poiché tra l'altro, non mi risulta che tenessero casa o possedimenti in Giussano e dintorni. La distinzione da Giussano (de Gluxiano) potrebbe perciò ritenersi soltanto come cognome, poiché è noto che i discendenti di famiglie signorili venute dalla campagna a dimorare in città venivano, per lo più, assumendo la distinzione o cognome familiare, dal luogo d'origine.
Ad ogni modo, a meno che si voglia romanzare, la figura di Alberto da Giussano del Fiamma rimane tuttora nel dominio dell'oscurità e della leggenda(37) .

Illustrazione tratta dall'opera di Vitaliano Rossi, Alberto da Giussano capitano della Compagnia della Morte.

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Donde ha ricavato il Fiamma le notizie riguardanti la battaglia di Legnano?
L'accenno delle tre colombe proviene dalla cronaca di Leone, il prete, a quanto sembra, che nel Manipulus Florum è detto che le vide volare (38). Chi è questo cronista? Sappiamo solamente che è citato dal Fiamma più di una ventina di volte. Il contenuto si adatterebbe intorno ad uomini illustri, giacché si parla quasi sempre degli arcivescovi di Milano.
Il Giulini vorrebbe questo cronista, la cui opera dichiara di poca importanza, fiorito nel secolo XIII di molto inoltrato. In quella cronaca, oggi introvabile, ma che il Giulini poté consultare poiché al suo tempo si conservava nella biblioteca dei monaci di S. Ambrogio, nulla ci doveva essere riguardo alle Società militari presenti a Legnano, se il Giulini stesso non fa che attribuire al Fiamma questa novità (39).
Frà Galvano ci ricorda inoltre la battaglia presso il borgo di Carate, notizia attinta da un Iacobo. Cairate nel Seprio, il luogo dove veramente il Barbarossa pose il suo accampamento venendo da Como verso Pavia, fu cambiato nel brianzolo borgo di Carate applicandovi tanto di combattimento con la sconfitta dell'imperatore.
Se il Fiamma tolse la favolosa battaglia di Carate da un Iacobo, se dal cronista Leone ricavò la notizia delle tre miracolose colombe, da chi mai quella delle Società militari a Legnano(40) ? Egli non ce lo fa sapere, né finora lo possiamo conoscere per altra via. Forse, più che dalla sua fantasia, da qualche sconosciuto cronista, a corto di notizie autentiche, e da lui raccattata nei suoi zibaldoni, poiché oltre alle cronache ricordate altre ne usò non citandole affatto(41).
Riguardo alla Società dei carri falcati sappiamo dall'autore degli Annali Milanesi che i nostri usarono di tali carri in precedenti fatti d'arme, facendoci altresì conoscere l'inventore, un certo Guintelmo ingegnere; ma che fossero presenti anche nella battaglia di Legnano non vi è parola, tranne che nel Fiamma.

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Alcuni non furono alieni dall'accettare, come vere o verosimili, le affermazioni di frà Galvano, e ne ravvisarono quasi un preludio fin dai tempi dell'arcive-scovo Ariberto da Intimiano, allorquando nel 1036 durante la guerra con l'imperatore Corrado, un gruppo scelto di cento militi diede molto da fare agli imperiali con le sue scorrerie in campo aperto (42).
Altri, e fra questi il Giulini, scrissero che il racconto del Fiamma si rende molto verosimile in quantoché, dopo questi tempi si trova più di una di queste Società in Italia sì di nazionali che di esteri (43).
È una generica congettura che ci lascia non poco dubbiosi.
Il trovare dal secolo XIII in avanti costituite Società militari in Italia ed all'estero, stipendiate dai Comuni o dalle Signorie (44), non vuol dire che dovevano o potevano esserci anche a Legnano nel 1176, di fronte al silenzio assoluto di tutti i cronisti e documenti sincroni, e al modo col quali essi ci parlano di quella battaglia.
L’organizzazione della Società della Morte e del Carroccio erano avvenimenti nuovi e singolari nell'esercito milanese. Come potevano essere da tutti totalmente dimenticati?
Neppure Bonvesin della Riva, cronista di ben maggior credito che non sia frà Galvano, e a questi anteriore di mezzo secolo, ne fa parola.
Bonvesin, il quale si era proposto di narrare le grandezze della sua città, come avrebbe potuto dimenticare novità così gloriose, egli che ricordò le imprese dei Forti allorché i milanesi uscirono in campo contro l'imperatore Federico II? Egli che sulla memoria dei vecchi rammentò un gigantesco e valoroso milanese, Uberto della Croce, come avrebbe potuto scordarsi del gigantesco e invincibile Alberto da Giussano, l'eroe di Legnano(45) ? Possibile che nessuno né a Legnano, dov'egli dimorò a lungo, e, a quanto pare, maestro di scuola, né a Milano rammentasse il prodigioso valore dei Novecento della Morte, e dei Trecento del Carroccio?...
Che in combattimento presso il Carroccio stessero le schiere dei fanti e dei militi più valorosi è evidente, trattandosi di difendere la cosa più cara. Ciò che, a mio avviso, pare non doversi ammettere si è che a Legnano e prima ci fossero particolari Società militari stipendiate dal Comune, strette da vincoli e con speciali distintivi come ce le descrive il Fiamma; Società o Compagnie che sono un frutto sociale del susseguente secondo periodo comunale(46) .

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Con la vittoria di Legnano, e con la successiva pace di Costanza del 25 giugno 1183, si chiude il periodo eroico della storia comunale, e un altro se ne apre più fecondo di attività e di rivolgimenti interni, caratterizzato da continue lotte fra nobili e popolo. Di conseguenza ne avvenne una inevitabile trasformazione nei costumi, nell’ economia, nella magistratura, nell'esercito.
Quand'anche si voglia sfrondare dei particolari il racconto del Fiamma, e ridurre la Società della Morte e l'altra del Carroccio a due semplici Compagnie militari, nello stretto significato della parola, così da renderle meno ripugnanti all'ambiente milanese del primo periodo comunale, la loro esistenza a Legnano difficilmente, ripeto, si può dimostrare dinnanzi ad un'unica fonte mal sicura e tardiva come quella del Fiamma, ed al silenzio di tutti i cronisti contemporanei guelfi e ghibellini.
Né vale sostenere che la tradizione, dal Fiamma in poi, reca la partecipazione ed il valore spiegato a Legnano da queste due Società. La tradizione ha valore solo quando emana da fonte sicura, non è interrotta, né stanno contro di lei argomenti indiscutibili. Osserva Michele Amari che "la tradizione di bocca in bocca, sempre variabile e fallace, torna poi di nessun peso contro le autorità storiche "(47) .

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Sarebbe interessante poter precisare se, nel nostro caso, si tratta di una tradizione leggendaria di origine popolare oppure scritta o dotta. Ci mancano dati per stabilirlo con certezza. Ma che sia di fonte popolare è assai dubbio.
E per verità, come si è osservato, non solo siamo totalmente all'oscuro per il tempo anteriore al Fiamma, ma ancora in quello successivo, poiché nulla di nuovo è venuto alla luce che confermasse quanto disse frà Galvano.
Tutti coloro che ne parlano dipendono, più o meno, dal Fiamma. Perciò è assai probabile che sia di origine scritta, o forse uscita dal cervello del Fiamma stesso, come d'altronde ce ne ha dato prova per altri avvenimenti, ovvero parto di qualche ignoto favoloso cronista del secolo XIII e da lui raccolto nelle sue cronache.
Sorge il sospetto che questa leggenda sia stata messa in campo dallo stesso partito dei nobili, al quale apparteneva il Fiamma, coll'intento di attribuirsi la vittoria di Legnano, quasi a redimersi della precedente sconfitta; e che a questa pretesa avrebbe quindi reagito il partito popolare coll'assegnare, con altra opposta leggenda, la sconfitta del nemico ai soli trecento fanti, custodi del Carroccio.
In tutto questo nulla di strano, che anzi ci sarebbe da meravigliarsi se quel clamoroso fatto d'armi non fosse stato, col passare degli anni intaccato e colorito da dicerie leggendarie.
Si dice da taluni che l'argumentum a silentio, ossia il silenzio delle fonti, vale ben poco. Facile il dirlo, ma difficile il dimostrarlo quando è sorretto da altri motivi o per lo meno da seri indizi, benché non sia una prova positiva.

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Non pochi storici, ai quali mancò l'animo di abbandonare tradizioni leggendarie che tanto solleticavano l'amor proprio cittadino e nazionale, cercarono di ravvisare le Società militari del Fiamma in quei combattenti che parteciparono all'ultima fase della battaglia di Legnano, dei quali ci parlano nei loro Annali Romualdo di Salerno e Sir Raul, nonché l'inglese Bosone nella vita di Alessandro III (48).
Quest'ultimo ci attesta che il Barbarossa, sbaragliati i settecento cavalieri lombardi mandati in esplorazione e successivamente gli altri, si era avvicinato al Carroccio, dove una " electa mediolanensium bellatorum militia ", che " in posteriori acie tamquam murus impenetrabilis firmiter consistebat ", lo affronta " in virtute magna " e lo volge in fuga(49) .
Il biografo pontificio sembra ignorare la presenza della fanteria, e ciò in aperto contrasto con gli altri cronisti. Siamo forse di fronte ad una confusione delle notizie che poté raccogliere a Venezia (1177), durante lo svolgimento dei preliminari di pace tra Alessandro III e l'imperatore, ai quali partecipò personalmente. Lo scrittore assegnerebbe inoltre erroneamente il giorno della battaglia " circa fine mensis iunii ".
Questa eletta milizia milanese, la quale stava compatta come un muro impenetrabile intorno al Carroccio, non poteva essere che la fanteria, come lascerebbe supporre non solo il modo di esprimersi, in quanto la cavalleria è movimento, slancio, ma probabilmente anche perché, come asserisce lo scrittore stesso, nello scontro finale presso il Carroccio, il vessillifero imperiale cadde trafitto da un colpo di lancia. La lancia o picca era appunto l'arme manovrata con due mani dalla fanteria contro gli assalti della cavalleria nemica.
Se si avesse a prendere quell'eletta milizia mila-nese nel suo stretto significato di soldati a cavallo (milites), escludente i fanti (pedites), e allora dov'era la fanteria alla cui resistenza, al dir di Romualdo e di Sir Raul, si deve in particolar modo la resistenza e la vittoria?
Non deve trarci in inganno la parola " electa ", quasi fosse una particolare Società a sé stante di militi milanesi, stipendiata dal Comune, come lascio scritto il Fiamma. Essa non può che semplicemente indicare una comune milizia scelta, tanto vero che il biografo la applica pure ai militi di Verona, Brescia, Novara e Vercelli.
Del resto Bosone, guelfo, il quale ci narra con una certa enfasi quel fatto così glorioso per il suo partito, non avrebbe con tutta probabilità tralasciato di ricordare un particolare così notevole, quale sarebbe stato la presenza di una Società militare, per la prima volta apparsa nell'esercito milanese, e che sarebbe stata la salvezza della Lega Lombarda.
Romualdo dà invece chiaramente il merito principale della vittoria alla fanteria " pedestris multitudo ", stretta intorno al Carroccio " cum paucis militibus ", che all'irrompere della cavalleria tedesca " oppositis clipeis et porrectis hastis ceperunt eorum furori resistere, et ad se venientes animose repellere ", finché giunto sul campo l'aiuto di un contingente di cavalleria alleata con sé riuniti i fuggiaschi, tutti insieme (et simul... impetum facientes) contrattaccarono il nemico costringendolo alla fuga(50) .
La pedestre moltitudine non poteva essere dei soli trecento fanti della leggenda. E noto che in quella grave circostanza la maggior parte dei popolani milanesi, abili alle armi, era uscita in campo col suo Carroccio. Cosa potevano fare trecento lancie contro un nemico agguerrito e per lo meno dieci volte superiore? Tutt'al più sarebbero finite eroicamente in breve tempo come i trecento delle Termopoli, ma senza alcun vantaggio per la vittoria.
Sir Raul, cronista milanese contemporaneo, ci fa sapere che la cavalleria, la quale stava da una parte del Carroccio, fu talmente sconfitta dalle forze del Barbarossa che quasi tutti i Bresciani e degli altri la gran parte (magna pars), compresi i migliori dei milanesi secondo il codice pubblicato dal Muratori(51) , fuggirono verso Milano. I pochi militi rimasti, milanesi e alleati, che non vollero o non poterono fuggire in tempo, si strinsero con la fanteria intorno al Carroccio, e tutti quanti virilmente combattendo sconfissero il nemico(52) .
Non si riesce a credere come il cronista milanese potesse ignorare, se veramente esistita, la formazione e la partecipazione alla battaglia di Legnano di Società militari milanesi con particolari vincoli e distintivi - cose fino allora mai viste - , le quali avrebbero dato alla sua città la gloria del trionfo, e non avesse a farne parola, sia pure di sfuggita, nei suoi Annali.
Ad ogni modo, ognuno vede la grande differenza tra quanto asserisce il Fiamma, e quanto fanno conoscere le fonti sincrone.

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Non è nello scopo di queste brevi note il descrivere la battaglia di Legnano.
Osserviamo soltanto che l'imperatore, sbaragliata la cavalleria milanese e alleata, e ormai sicuro della vittoria, si era slanciato con tutte le sue forze contro la disprezzata fanteria, la quale serrata intorno al Carroccio lo fronteggiava come un muro impenetrabile(53) .
I fanti, imbracciati gli scudi, opposero, come bene si esprime il Barni, una selva di lancie (54). Imperterriti respinsero i furiosi assalti, manovrando con vigore e destrezza le lunghe, robuste, e accuminate lancie, e negli attimi propizi ficcandole negli interstizi delle armature che proteggevano uomini e cavalli.
Questa seconda fase del combattimento si svolse con pari tenacia e valore d'ambe le parti. I popolani milanesi decisi a tutto ben sapendo, se avessero ceduto, che per loro non c'era altra via di scampo che o un'umiliante arresa o una fuga disastrosa nella quale sarebbero stati in gran parte sterminati dalla cavalleria nemica, mentre i loro familiari avrebbero incontrato una seconda distruzione di Milano e un più duro esilio dal vendicativo imperatore: dolori e sofferenze alle quali potevano, almeno in parte, sfuggire i nobili e i ricchi col rifugiarsi nei loro tenimenti o feudi di campagna. Dall'altra il Barbarossa non meno risoluto di farla finita specialmente coi milanesi ribelli alle sue mire imperiali.
Alla fanteria milanese non rimaneva che di vincere o morire sul posto (55).
La lotta durava da ore accanita ma incerta, quando giunse, scrive Romualdo, un contingente fresco di cavalleria alleata con a sé riuniti, se non forse tutti, certo la maggior parte dei fuggiaschi, e assalì sul fianco il nemico(56) .
Nello stesso tempo la fanteria, con avvedutezza tattica, e come richiedeva lo svolgimento dell'azione in corso ai fini della sconfitta del nemico, passò in massa al contrattacco, il che decise la piena vittoria degli alleati. Un colpo di lancia ben assestato trafisse l'alfiere imperiale, e successivamente fu atterrato lo stesso imperatore che valorosamente combatteva nelle prime file. La scomparsa dell'imperatore, creduto morto, produsse un grave panico e quindi la rotta degli imperiali (57).
Senza nulla togliere al valore di quei pochi militi milanesi ed alleati rimasti sul campo conglomerati coi fanti, ed agli altri fuggiaschi riunitisi al contingente alleato più tardi arrivato in aiuto, è al comportamento della fanteria milanese, più che ad altri, che si deve la strepitosa vittoria.
" A Legnano, osserva il Pieri, la cavalleria imperiale era nelle condizioni di presentare, dal punto di vista tattico, il massimo di efficienza, celerità e compattezza, potenza d'urto cui forse sia giunta in tutto il Medio Evo; e quindi nonostante ciò le giovani fanterie lombarde non solo resistettero ma passarono esse stesse al contrattacco. Fatto forse unico nella storia delle fanterie comunali italiane, rarissimo e comunque assai tardivo in quelle d'oltralpe "(58) .

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Il tempo di Federico Barbarossa fu un periodo epicamente grandioso per i Comuni Lombardi e per l'Impero, che vi attaccarono d'ambe le parti particolari tradizioni leggendarie.
Il valoroso e tenace sovrano visse nella tradizione germanica quale rappresentante della sua razza, come quegli che un giorno sarebbe uscito coi suoi fedeli dal campo dorato di su il Kiffhauser, e avrebbe fatto grande il popolo tedesco sopra tutti gli altri.
Era più che naturale che anche da noi la grande vittoria di Legnano, per la quale, dopo tante lotte, fu definitivamente fiaccata la prepotenza imperiale, dovesse venire successivamente intaccata dalla leggenda.
A Federico Barbarossa che in quel giorno alla testa dei suoi fece prodigi di valore, gli venne leggendariamente opposto un non meno valoroso e gigantesco Alberto da Giussano vessillifero del Comune; ed alla bellicosa cavalleria alemanna i novecento della Morte e i trecento del Carroccio. E a rendere più strepitoso il trionfo dei collegati vi inserì il poetico episodio delle tre colombe miracolose, alla vista delle quali il nemico terrorizzato si diede alla fuga. I combattenti, che non fuggirono, ma che si strinsero intorno al Carroccio lottando eroicamente fino alla vittoria, furono probabilmente trasformati dalla leggenda nell'invincibile Società della Morte. Il Fiamma ebbe fama di dotto, e la sua autorità si mantenne finché sorse un nuovo astro, Bernardino Corio, la cui Storia di Milano, pubblicata a sue spese nel 1503 e scritta in volgare, doveva assurgere a grande celebrità presso i contemporanei.
Riteniamo perciò interessante un confronto sia pure sommario, ma sufficiente, tra Galvano Fiamma e i successivi storici per vedere quale fu il loro comportamento e quali nuovi particolari introdussero nella fonte del domenicano, che possiamo dire la primitiva, dalla quale ci pervenne il leggendario che ci interessa.
I cronisti della seconda metà del secolo XIV e quelli del secolo seguente ricavarono, più o meno abbondantemente, dalle cronache del Fiamma. Per quello che ci riguarda abbiamo sul finire del Trecento la cronaca Flos Florum (59), già attribuita ad Ambrogio Bossi, ma forse ancora probabilmente d'ignoto autore, nella quale non si fa che ripetere con le stesse parole quanto è narrato nel Chronicon Maius.
Di cronache quattrocentesche, le quali facciano menzione delle Società militari descritteci dal Fiamma, non ne abbiamo o per lo meno non ne conosco. Nella Chronica di Milano, pubblicata dal Porro Lambertenghi (60), e in quella di Donato Bosso (61), e nella Storia del Merula(62) si accenna soltanto alle tre colombe.

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Due storici milanesi, fioriti sullo scorcio del secolo XV, meritano particolare attenzione: il Calco ed il Cono, i quali ebbero accesso alla biblioteca ed all'archivio ducale. A costoro attinsero non pochi storici posteriori.
Il Merula era stato chiamato a Milano al tempo di Ludovico il Moro perché scrivesse la Storia di Milano.
Lui morto nel 1494, Tristano Calco ebbe l'inca-rico di continuare il lavoro. Se non che egli, che da poco tempo aveva riordinata la biblioteca viscontea pavese e poté così conoscere nuove fonti, stimò opportuno rifare la storia del predecessore. Orbene, scrivendo della battaglia di Legnano, non dà alcun peso alle asserzioni di frà Galvano, benché anch'egli erroneamente faccia arrivare sul campo le truppe pavesi col Barbarossa (63).
Ma lo storico che sopra tutti doveva dominare nella opinione del suo tempo, e anche dopo, fu il Corio (1459-1519).
Della battaglia di Legnano fa innanzitutto presente come era organizzato in quella circostanza l'esercito milanese con notizie desunte quasi alla lettera dalle cronache del Fiamma a detta dello stesso Giulini.
Quale opera abbiano poi particolarmente svolta nel combattimento le tre Società militari nemmeno il Corio ce lo sa dire. Egli cita la cronaca di Leone, e quelle di Iacopo da Voragine e di Aicardo o Sicardo, ma esse nulla ci fanno sapere al riguardo. Vi aggiunge che la Società della Morte aveva per arma " la panzera con un aceta et uno pugnale "(64) . Donde abbia desunto questo particolare che manca nel Fiamma, non mi fu dato di rintracciare.
Si può ritenere che stese il suo racconto avendo alle mani non solo le cronache del domenicano e le altre citate, ma forse qualche altra cronaca oggi perduta, a meno che di sua iniziativa abbia introdotto qualche nuovo elemento, come del resto sembra faccia in altri passi della sua Storia di Milano.

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Nel secolo XVI ebbero pure larga fama, il Baronio (1538-1607) e il Sigonio (1532-1584).
Il primo nei suoi celebri Annali Ecclesiastici (65)ebbe il retto criterio di seguire senz'altro una cronaca contemporanea, ossia la Vita di Alessandro III del Bosone, scartando le aggiunte del Fiamma e dei suoi copiatori.
Il Sigonio, modenese, scrisse invece nella sua Storia del Regno d'Italia che nel 1176 i milanesi si prepararono alla guerra con mezzi sino allora inusitati. Questi mezzi furono la formazione della Compagnia della Morte e della Compagnia del Carroccio. Col Sigonio possiamo dire di trovare per la prima volta queste due Società non soltanto citate come negli storici precedenti, ma messe in azione nello svolgimento della battaglia.
Tre colombe, partite in volo da Milano dall'altare dei santi Sisinio, Martirio ed Alessandro situato in San Simpliciano, vennero a posarsi sull'antenna del Carroccio prima dello scontro, messaggere di vittoria per i milanesi(66) .
Iniziatosi il combattimento i militi milanesi sono sconfitti: i trecento del Carroccio continuano la lotta, finché i novecento della Morte, memori del giuramento, irrompono con tale impeto da travolgere in grave rotta il nemico.
Benché il Sigonio non ci faccia conoscere le fonti sulle quali ha elaborato il suo racconto, non è tuttavia difficile comprendere ch'egli si è appoggiato ai noti elementi del Fiamma e del Corio(67) , ormai accettati come verità, dai più, nel mondo degli eruditi del Cinquecento. Fu il primo storico, per quello che mi consta, che attribuì esplicitamente il merito principale della vittoria ai Novecento della Morte.
Ad ogni modo rimane pur sempre evidente la discordanza coi cronisti coevi che ci narrano quella battaglia. Lo ricalcarono di poi non pochi storici, e tra questi il Sismondi (68).
Nondimeno a Milano nel secolo XVI ci doveva essere un'altra corrente, probabilmente di origine popolare, la quale assegnava la vittoria al valore dei trecento del Carroccio. Così, infatti, si esprimeva San Carlo nella lettera pastorale d'invito al VI Concilio Provinciale del 1582: " Abbiamo testimonio dai libri antichi e moderni come per la memoria di questo beneficio (la vittoria di Legnano), la città di Milano santificava questo giorno. Che grazia fu quella, che quando più era per perdersi, si ebbe con trecento giovani milanesi la vittoria contro l'esercito di Federico Barbarossa impe-ratore, nemico capitale di Milano ".
Il Bugatti ci parla della Società della Morte, quasi fosse un battaglione di fanteria (69).
Il leggendario doveva spingersi all'apogeo nel Seicento col Ripamonti. Questi, esagerando col suo latino magniloquente, disse la Compagnia della Morte una coorte " maxima insignis ac tremenda species " ed il suo capitano Alberto di così alta statura da essere soprannominato il gigante (70).
Ma ormai stava per sorgere il padre della storia, il Muratori.
Fino allora si può dire, in linea di massima, che uomo erudito era ritenuto colui che sapesse più degli altri, non che sapesse meglio. Il Muratori richiamò gli studiosi della storia alle fonti sincrone e documentarie, e nei suoi celebri Annali omise le dicerie del Fiamma.
Da questo punto tralasciamo di accennare agli storici susseguenti, i quali specialmente nell'occasione del VII centenario si occuparono della battaglia di Legnano. Nulla di nuovo, nonostante il molto rovistare negli archivi, si è trovato che potesse documentare, le asserzioni del Fiamma (71)le quali continuano a rimanere storicamente assai incerte e malsicure con forte odore di leggenda. Ad ogni modo non si può escludere in modo assoluto che il Corio possa avere ricavata la notizia da qualche fonte ignota e sconosciuta, oggi perduta.
Tuttavia, se il nostro intelletto si inchinerà alla verità storica, il nostro sentimento amerà vivere la leggenda, che in certo qual modo è la poesia della storia.
Il ricordo della vittoria di Legnano, mitizzata nei Novecento della Morte e nei Trecento del Carroccio, fu di efficace richiamo alla concorde riscossa contro lo straniero negli anni del nostro Risorgimento, dimostrando che l'Italia " ancor di Legnano sa i ferri brandir ".