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BARZANÒ

Barzago 1995

PREMESSA
Ognuno dei nostri paesi, oltre alla storia generale della zona in cui è situato, ha una storia propria, intima, fatta di piccole cose, di episodi locali ed alle volte quasi insignificanti per gli estranei, ma importanti per la comunità del luogo. È la vita d'ogni giorno che, con date, nomi ed opere, oggi è cronaca e domani sarà storia.
Di Barzanò, fra i più cospicui luoghi della Brianza centrale, per la sua posizione e per le sue ville abbellite da ameni giardini, altri già si occuparono delle sue vicende (1), e in particolare del castello, della Chiesa di San Salvatore, del battistero e della collegiata, che sono la parte più interessante e discussa della Barzanò antica. Rimangono nondimeno non pochi punti oscuri quanto mai difficili a chiarire per deficienza di documenti.
Non resta che ricorrere a congetture, ma, per quanto nei giusti limiti seriamente elaborate, sono pur sempre congetture e non prove.
Tuttavia, come già osservava Polibio (2), quando da parecchi si indaga e si scrive su uno stesso argomento, più facilmente potrà emergere la verità. Perciò oso anch'io esporre modestamente il mio modo di pensare.
Quello che importa si è di scrivere per amore del vero, e non dare per certo quello che è incerto.
Pubblicandosi questa seconda edizione ne approfitto per correggere gli svarioni tipografici e chiarire qua e là qualche punto rimasto alquanto oscuro.

CAPITOLO PRIMO

ORIGINE DI BARZANÒ
TOMBA DELLA PRIMA ETÀ DEL FERRO

Il Redaelli ritiene che Barzanò traesse la sua origine dalla città orobica di Barra, che si dice sorgesse sul fianco del Monte Barro verso ponente.
Al momento della sua distruzione, che sarebbe avvenuta durante l'invasione dei Galli verso il 400 a. C., i suoi abitanti si sarebbero in parte rifugiati nel luogo che da loro prese il nome di Barzanò.
Il Redaelli fece del suo meglio per provare il suo asserto (3). Ma il Dozio, che anni dopo fu più di una volta sul Monte Barro, lasciò scritto:
"Io ho a lungo osservato quei luoghi, e, lo dirò candidamente con un vivo desiderio di poter dedurre da quelle osservazioni qualche argomento di conferma all'asserzione che lassù, su quel monte, sorgesse l'antica Barra. Ma come presto quei desideri si dileguarono dinanzi all'osservazione! Chi mai, asceso lassù, e seduto in un canto di quei praticelli alpini, che stanno poco sotto al convento, e misurandone d'ogni intorno lo spazio, chi vorrà mai dire ch'ivi fosse allogata appena una piccola borgata? dove l'acqua ad almeno quattrocento o cinquecento persone, ed agli animali loro? dove almeno qualche orto per le verdure e i legumi? dove tant'altre cose necessarie agli usi della vita?...
Ma, dicono, ivi sono gli avanzi di antichissime mura e di acquedotti, ivi è una comoda strada che conduce a quel piano, ivi furono trovate masserizie e monete, o che so io.
Rispondo: chi scrive tali cose, o non fu mai su quel monte, o vi sognò. Perocché quelle povere ed esili vestigia di mura, non ponno dirsi più vecchie di cinque o sei secoli fa: al più appartennero a qualche diroccato castellotto, non mai ad un'antica città: e quegli avanzi d'acquedotto sono un sogno, proprio un sogno: perché, domando io, donde traevan l'acqua? E le antiche masserizie e le monete si mostrino affinché le consideriamo, e si veda di che gente sono, perché se romane o milanesi non provan nulla all'assunto.
Non v'ha, dunque, mi pare, valor di ragioni a provare che l'antica Barra ricordata da Plinio sorgesse, come vorrebbero alcuni, in quei ripiani, ora erbosi, che stanno a circa la metà del Monte Barro (4)."
Della città di Barra infatti nulla, assolutamente nulla, ci è dato conoscere: né dove sorgesse, né quando, né da chi distrutta.
Il Redaelli, seguendo il comasco Paolo Giovio, la volle sul Monte Barro, il Rota a Bergamo, ed altri altrove.
All'infuori della nuda citazione di Plinio (5), tutto quanto si è scritto intorno a Barra è puramente fantastico.
Di certo, sappiamo solamente che su quel monte Francesco I Sforza fece erigere una rocca nel 1450, poi distrutta dai Francesi nel 1507, e che non molti anni dopo vi si costruì un convento cappuccino (6).
In occasione della costruzione del fortilizio o rocca, venne aperta una strada mulattiera, resa ancor più comoda dai cappuccini, e assai migliorata posteriormente.
Altri, pur prescindendo dalla città di Barra, pensarono di assegnare a Barzanò una origine gallo-celtica, appoggiandosi alla radice bar, che in lingua celtica vorrebbe significare altura, monte.
Il Serra ha invece prospettato che Barzanò possa derivare da un gentilizio romano Barcianus (7). Perciò Barzanorum dovrebbe equivalere a Barcianorum, ossia possesso, fondo dei Barciani.
È noto che la registrazione del catasto romano avveniva sotto il nome del rispettivo proprietario.
È una congettura che ha più del verosimile. Facile è infatti il cambiamento del cia e del tia in za nella parlata popolare, come si verificò per non pochi luoghi nostri, benché non in tutti, come ad esempio in Dolzago, Verzago, Barzago, ecc.
A questa opinione si sono accostati l'Olivieri e il Visconti (8).
Ma c'è un guaio ed è che, almeno finora per quello che mi consta, Barcianus o Bargianus non risulta nell'onomastica romana (9).
Comunque sia, il millenario nome di Barzanò è "villa Barzanorum" equivalente a Barzanore, per cui abbiamo Barzanorum (1015), Barzanure (1162) (10), Barzanore (1213), ecc.
Si hanno nel secolo XIII forme similari: Barzanoe, Barzanolo, ecc. (11), ma la normale predominante anche nei secoli successivi rimane Barzanore, come ad esempio, nell'estimo del Monte di Brianza del 1456 e in altri documenti (12), finché prese sopravvento anche nel linguaggio dotto il volgare abbreviato di Barzanò.
Nel 1905, in territorio di Barzanò, in prossimità dell'allora stazione tranviaria, su terreno del nobile Mannati venne reperta una tomba a cremazione attribuita alla prima età del ferro (13).
Orbene, se quella tomba veramente apparteneva a quell'età, possiamo dire che Barzanò affonda le sue origini nella foschia di tempi lontanissimi.
Barzanò, situato nel centro collinoso della Brianza e all'incrocio di strade provenienti dal sud verso l'alta Brianza, fu senza alcun dubbio località abitata fin dalla preistoria.

***

Vale la pena, riguardo alle derivazioni etimologiche locali, di richiamare quanto scrisse il Dozio oltre cent'anni or sono, e che ancor oggi, nonostante i progressi della linguistica e della toponomastica, conserva in buona parte il suo valore. "Io poi" scrive il Dozio "dò i nomi dei villaggi della pieve nel latino-barbaro del medioevo quali stanno sulle carte, in Goffredo da Bussero e in altri documenti di quei tempi, senza farmi mallevadore del sapere e dell'esattezza dei notai, dei cancellieri e dei diversi scrittori, che li hanno registrati. E li dò volentieri per giovare agli studiosi dell'antica corografia milanese: ché, come la cronologia, così la corografia (ch'é parte minuta della geografia) sono i due occhi della storia. Li dò anche per mostrare con esempi due cose: la prima come sia da far poco fondamento sulle teorie delle frasi lessicali, messe in campo ai dì nostri, assai vantate da taluni, ma, da altri, che pur sono uomini di vaglia, giudicate più ingegnose che vere a stabilire il preciso nome dato ai villaggi nei vari secoli del medioevo; la seconda, come meritatamente da uomini di grave senno sieno giudicati essere incerti e fallaci gli argomenti dedotti dalle etimologie e dai suoni dei nomi corografici; perocché quei nomi o furono variamente pronunciati e modificati dal succedersi di genti di diversa lingua venute a stabilirsi sulle nostre terre, o furono variamente scritti nei codici e nelle carte dagli uomini del medioevo, o diversamente letti e talvolta erroneamente applicati anche da grandi uomini imperiti della nostra corografia (14)."

CAPITOLO SECONDO

I GALLI E LA DOMINAZIONE ROMANA
TOMBE ROMANE - NOVELLIANO PANDARO - IL CULTO DI GIOVE SUMMANO

I Galli, popolazione di stirpe celtica divisa in tribù, scesi probabilmente ad ondate non molto distanti l'una dall'altra dalle Alpi occidentali verso il 400 a. C., occuparono secondo la tradizione liviana tutta la Valle Padana.
L'Italia settentrionale prese perciò il nome di Gallia Cisalpina. Coloro che si stanziarono in Lombardia furono chiamati Galli Insubri, e ad essi si attribuisce la fondazione di Milano (15), loro centro, ossia un grosso villaggio, poiché vivevano in capanne e in luoghi aperti e non in città murate.
Polibio, il quale fu nelle nostre parti verso il 150 a. C., dice appunto che gli antichi Galli dimoravano in villaggi non murati e dormivano per terra.
Gente rozza, bellicosa, di alta statura, dalla lunga capigliatura e mezzo nudi: più che di agricoltura si occupavano di guerra e di pastorizia.
Nei combattimenti usavano grosse spade, lunghe aste, e alti scudi che fortemente percuotevano andando all'assalto del nemico, elevando nello stesso tempo urla selvagge da incutere paura.
Della civiltà gallica in Brianza poco ci è rimasto: interessanti nondimeno le tombe scoperte al Soldo di Alzate (16). Tombe galliche sarebbero pure state trovate nel territorio di Casatenuovo (17).

* * *

Nel frattempo Roma aveva esteso il suo dominio sull'Italia meridionale e centrale. Non rimaneva che la Gallia Cisalpina e ne intraprese la conquista.
I Galli Insubri nel 222 a. C. furono vinti per la prima volta sul loro stesso territorio a Casteggio dalle legioni romane, condotte dai consoli Gneo Cornelio Scipione e Marco Claudio Marcello, che entrarono vittoriose in Milano.
Dovettero tuttavia passare degli anni prima che si potessero dire completamente domati.
Tito Livio, tra l'altro, ricorda una grande battaglia combattutasi nel 196 a. C. nei pressi di Como e conclusasi con la conquista di Como e del suo contado da parte delle legioni romane agli ordini di Quinto Marcello figlio del console della predetta campagna del 222.
Fu dopo la battaglia del 191 a. C., avvenuta probabilmente nel territorio dell'Emilia e terminata con l'annientamento dell'esercito gallico, che Romani e Galli stipularono un trattato di pace e di alleanza, segnando così l'ingresso di queste genti nell'ambito della civiltà romana.
Non ci è dato di sapere quando l'Insubria fu ridotta a Provincia Romana: forse ai tempi di Silla. Comunque la Gallia Cisalpina fu governata per molto tempo dai proconsoli inviati da Roma.
I Romani non confiscarono ai vinti le loro terre, ma li lasciarono indisturbati nelle loro circoscrizioni dei pagi e dei vici, con piena libertà nel campo religioso e amministrativo, esclusa ogni funzione politica.
La regione venne man mano romanizzandosi. Gli abitanti si tramutarono, a poco a poco, in pacifici agricoltori, e dai campi traevano vino, panìco, miglio, legumi, orzo, frumento. Dalla fiorente pastorizia ricavavano carne, latte, formaggio, pelli e lana. Nutrivano i maiali con le ghiande delle querce.

* * *

Ara di Feliciano Primo

Le città della Transpadana, ormai compenetrate nella civiltà romana, col passare del tempo presero ad agitarsi per avere la cittadinanza romana.
Nell'89 a. C. ottennero lo ius latii, e cioè di essere considerate come Latini, ossia mezzo romani, pur continuando ad essere governate da proconsoli.
Insoddisfatte, continuarono l'agitazione per ottenere la piena cittadinanza romana, con gli annessi diritti giuridici e politici; cittadinanza che finalmente fu concessa nel 49 a. C. da Giulio Cesare per mezzo del pretore L. Roscio Fabato.
Milano ed altre città della Cisalpina e delle Venezie (per esempio Aquileia) divennero Municipi romani.
Con ciò Giulio Cesare premiava quelle popolazioni, fra le quali si distinsero le Lambrane, per la loro fedeltà alla sua causa durante la guerra civile contro Pompeo e il suo partito, allorquando passò il Rubicone.
L'aggregazione vera e propria di Milano e di Como coi loro rispettivi territori non avvenne che nel 42 con la sistemazione voluta da Augusto. L'Italia venne divisa in undici regioni: i Municipi di Milano e di Como furono assegnati alla XI regione e ascritti alla tribù Oufentina.
Da allora il nostro territorio seguì le sorti di Roma fino alla caduta dell'Impero romano.

* * *

Se del periodo gallico Barzanò non ha conservato memorie, per quello romano non mancano tracce notevoli.
Il 29 settembre 1959, fra Barzanò e la frazione di S. Feriolo lungo la strada provinciale di fronte al Consorzio Agrario, si rinvenne un'antica tomba, e un'altra simile, sempre lì vicino, il successivo 3 ottobre: tombe ad inumazione nelle quali erano stati collocati, non uno, ma parecchi cadaveri a giudicare dalle ossa rimaste.
Si tratterebbe di tombe pagane, mancando in esse un qualsiasi oggetto o segno cristiano. Dal corredo funebre in esse rinchiuso - nella prima tomba un vasetto monoansato in terracotta verniciata, due vasi di terracotta, un'ampolla globulare di vetro con alto collo, un coltellaccio di ferro, quattro braccialetti in bronzo cesellato, ed altri piccoli oggetti in metallo; nell'altra tomba uno spillone di osso, un mezzo braccialetto, tre frammenti di braccialetti, e sei monetine - potrebbero risalire alla seconda metà inoltrata del secolo IV, e probabilmente agli anni immediatamente precedenti la diffusione del Vangelo nella Brianza. Antonio Balbiani le daterebbe senz'altro della fine del IV secolo (18).
Ancor più interessanti sono due are votive sacrificali di serizzo dedicate a Giove Summano, delle quali una reperta nel 1821 nella chiesa parrocchiale di San Vito, e dal Mantovani fatta trasportare nella chiesa di San Salvatore, dove ce ne stava già un'altra utilizzata come pila dell'acqua santa. Le rispettive iscrizioni, diversamente interpretate dagli studiosi, furono riportate dal Mantovani e dal Cappellini. Preferisco la lettura del Mommsen che mi sembra la più sicura.
Quella scoperta nel 1821, e che secondo il Labus potrebbe rimontare al III secolo (19), reca scolpito:

V(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) Iovi alto summano
Felicianus Primi v(otum) s(olvit) (aut Primus) cum
suis d(onum) d(at) d(edicat) (20)

Questo Felicianus Primus non sembrerebbe un gentilizio prettamente romano.
L'altra ara ci presenta su due lati le seguenti iscrizioni:

Novellian(us) Pandarus I(ovi) o(ptimo) m(aximo)
v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) pro se rem domum
(= re domo) f(ecit) qum dis deabusq(ue) d(eo)?
d(onum) d(at).

I(ovi) o(ptimo) m(aximo) Novellianus Pandarus ex
v(oto) pro se et suis omnibus ara(m) deo donum
p(osuit) (21).

Il Mommsen non assegna alcuna probabile data a queste iscrizioni. Tuttavia, considerate nel loro complesso epigrafico, siamo indotti a ritenerle non già del secolo d'oro di Augusto, ma del III o IV secolo, e probabilmente di quest'ultimo.
Lo stesso Mantovani, accostandosi alle argomentazioni del Borda, vorrebbe l'ara di Novelliano Pandaro degli ultimi anni del secolo IV. Sappiamo infatti che, con decreto dell'8 novembre del 392, l'imperatore Teodosio proibiva definitivamente in tutto l'impero il culto pagano in pubblico e in privato, sotto minaccia di grave ammenda (22). Quei gentili che, tenaci nella religione dei loro padri, non potevano esercitare pacificamente il loro culto nelle città, si ritirarono nei più reconditi luoghi campestri per venerare i loro Dei. E così avrebbero fatto Novelliano Pandaro e i suoi familiari.
Chi era questo Novelliano Pandaro? Il Redaelli, il Mantovani, il Cappellini ed altri opinarono che appartenesse al noto illustre casato milanese della gens Novelia (23). Novellianus, Novellius sono infatti gentilizi romani.
Senonché, mentre i nomi dei personaggi milanesi - Quinto Novellio Vazia e Caio Novellio Rufo - portavano i tre elementi regolari distintivi e normalmente costanti per il vero cittadino romano dai tempi di Silla fin quasi a Costantino (24), e cioè il prenome (l'individuo), il nome (la gente), il cognome (la famiglia), i nomi ricordati nelle sopra citate iscrizioni recano due soli elementi; sicuro segno che siamo nel tardo periodo della decadenza romana.
Novelliano Pandaro, sul finire del IV secolo, sia che dimorasse in Barzanò da facoltoso signore, sia che da Milano si rifugiasse nella sua villa o grande proprietà campestre per le sopra accennate circostanze, fatto sta che donò una casa o delubro e un'ara per sacrificare a Giove Summano e agli altri dèi. Il delubro di Barzanò, secondo il Mantovani, sorgeva là dove si eresse poi la chiesa di S. Salvatore, ma non è escluso che fosse invece nel luogo dove nei tempi successivi si costruì la chiesa di San Vito e Modesto, località allora alquanto appartata dall'abitato situata alle falde di una boscosa collina, e per sé ben adatta ad un edificio sacro al culto pagano.

Ara di Novelliano Pandaro

Il culto di Giove era il culto romano per eccellenza. Quando troviamo Giove venerato col titolo di Altus Summanus (Dio del cielo notturno) vediamo un influsso della religione officiale romana, per quanto il popolo nelle campagne continuasse ad onorare di preferenza le proprie tradizionali divinità celtiche.
Barzanò deve probabilmente alla famiglia di Novelliano Pandaro e discendenti l'aver conservato l'impronta della sua romanità col mantenere il titolo specifico di Villa (Villa Barzanorum), nonostante le successive invasioni barbariche.
Nelle nostre campagne, e specialmente nelle boscose colline, gli abitanti del IV secolo erano ancora nella massima parte attaccati al culto tradizionale delle loro credenze. Sant'Agostino infatti nel 386, ritiratosi a Cassago, come si ritiene tuttora da autorevoli studiosi, nella villa campestre dell'amico Verecondo ancora pagano per prepararsi al battesimo, non accenna nelle Confessioni e in altri suoi scritti alla presenza di chiese o di cristiani in luogo o nei dintorni, benché si trovasse in condizioni d'animo di dover farne parola.
D'altra parte nella vicina Barzanò, continuava ad essere in auge il culto a Giove Sommano (25). Una metodica propaganda evangelica verrà iniziata forse con Sant'Ambrogio e certamente dai suoi successori.
La Brianza, allora scarsamente popolata in confronto d'oggi e coperta per gran parte di boschi e di selve, con non facili comunicazioni con Milano, si prestava a sicuro rifugio degli ostinati pagani della città, nella quale la maggior parte dei ricchi e dei grandi proprietari terrieri si manteneva tenacemente attaccata al culto pagano.
Scrive il Mantovani che "negli andati tempi il villaggio di Barzanò era più popolato ed esteso e costituiva un Pago della regione decima ai tempi della romana repubblica; vi esistevano delubri ed are, e vi si celebravano le feste in onore degli iddii della pagana religione" (26).
Purtroppo nulla ci è dato di conoscere all'infuori di quello che dicono o che si può dedurre dal corredo funebre delle due tombe e dalle iscrizioni sopra ricordate, e cioè che il culto pagano a Barzanò durò per lo meno fin quasi allo scorcio del secolo IV mantenuto in vigore, a quanto pare, dal signore latifondista del luogo Novelliano Pandaro.
Se poi si ammette, secondo una moderna teoria, che i capoluoghi dei pagi, in linea di massima, divennero in seguito coll'affermarsi e organizzarsi del cristianesimo centri plebani battesimali, ossia sedi delle primitive parrocchie rurali, si dovrebbe affermare che Missaglia fu il centro del pago del quale doveva perciò far parte anche Barzanò (27).
Niente poi ci autorizza a pensare che i Romani tenessero a Barzanò un presidio militare.

Territorio di Brazanò in epoca borromaica (secolo XVI)

CAPITOLO TERZO

INVASIONI BARBARICHE
I LONGOBARDI - I CONTI DI TORREVILLA

Col secolo V si apre il periodo delle grandi invasioni barbariche nell'Impero romano, non esclusa l'Italia.
Sono popolazioni germaniche, stanziate nei territori oltre i confini dell'impero che si spostano verso regioni sud-occidentali, sospinte alle spalle dagli Unni, tribù nomadi originarie dell'Asia che avevano preso a sconfinare verso l'Europa.
In Italia si incomincia con Alarico ed i suoi Visigoti o Goti occidentali nel 401, per terminare nel 568 coi Longobardi. Tempi di saccheggi e di devastazioni, di miseria e di sofferenze, specialmente nelle campagne in parte spopolate e incolte.
Memoranda rimase nella tradizione l'incursione del 452 compiuta dagli Unni con Attila detto il "flagellum Dei".
Nel 476 Odoacre con gli Eruli ed altri barbari occupa l'Italia, estingue l'Impero romano d'Occidente, e si proclama re d'Italia.
Nuove rovine vengono accumulandosi con la venuta di Teodorico (489), condottiero degli Ostrogoti o Goti orientali, durante la guerra per strappare il regno a Odoacre.
Morto Teodorico, dopo 33 anni di regno, si rinnovarono le guerre e le devastazioni. Prima Belisario e poi Narsete, alla testa degli eserciti imperiali di Bisanzio, mossero contro gli Ostrogoti. Nel 539 Uraia, nipote di Vitige, coll'aiuto di diecimila Franchi mandatigli da Teodeberto re di Borgogna, assalì la citta di Milano lasciandola semidistrutta.
A Teia, ultimo re Goto sconfitto nel 553, subentrava la dominazione bizantina, ma per pochi anni.
Nel 568 calava dalle Alpi Giulie Alboino coi Longobardi, facendo di Pavia la capitale del suo regno.
Devastazioni, violenze d'ogni sorta segnarono il loro passaggio ed i primi anni del loro dominio, non rispettando nemmeno le chiese e i monasteri. Gente in parte ariana ed in parte pagana.
Era tale il generale spavento che precedeva la loro avanzata che gran parte delle popolazioni fuggiva mettendo in salvo persone e averi. Lo stesso arcivescovo di Milano, Onorato, con altri cittadini milanesi cercò rifugio a Genova, dove pure rimasero i suoi successori come in luogo sicuro, poiché Genova non cadde sotto il dominio longobardo che con Rotari verso il 638. È con Teodolinda che i Longobardi si avviarono ad abbracciare la fede cattolica, migliorando gradatamente i loro costumi.
Delle invasioni barbariche quella che durò più a lungo fu la longobarda. Essa chiuse l'era delle trasmigrazioni e sovrapposizioni delle stirpi. Durò circa due secoli, lasciando larga impronta nel sangue, nei costumi, nel nome stesso di Lombardia.
Nel 774 scompariva il regno longobardo conquistato da Carlo Magno.
Estintasi la dinastia dei Carolingi, dopo anni di turbolenze e di guerre, la dignità imperiale del Sacro Romano Impero passò con Ottone I di Sassonia (962) ai re di Germania, e l'Italia fu di poi per lungo tempo considerata come un loro feudo ereditario.

* * *

Famiglie longobarde presero stanza anche nella Brianza, e vi ebbero corti e ville, le quali avevano poderi e vigneti all'intorno, e specialmente boschi, poiché quei barbari si dilettavano delle armi e della caccia, lasciando ai loro servi ed agli aldi, un di mezzo tra i servi e i liberi, la coltura delle terre confiscate ai precedenti signori.
Da pergamene pagensi del nono, decimo e undicesimo secolo si ha memoria di famiglie longobarde, come ad esempio a Beolco, Casatevecchio, Imbersago, Merate, ecc. I cognomi di quelle famiglie non sono indicati nelle carte, perché non si erano ancora formati, ma i nomi sono di conio longobardo e portati da persone viventi a legge longobarda.
Di una famiglia signorile longobarda residente in Barzanò non consta con certezza. Il tempo e l'incuria degli uomini non ci hanno conservato né pergamene né altre sicure memorie. Tuttavia si deve pur logicamente ammettere che qualche distinta famiglia longobarda avrà preso possesso della villa romana già dei discendenti di Novelliano Pandaro.

Personaggio orante - San Salvatore (secolo XV)

* * *

Durante il periodo longobardo il nostro villaggio appare ricordato in favolose leggende tramandateci da cronisti molto posteriori. Difficile dire cosa possono contenere di vero. D'altra parte a Barzanò, nulla abbiamo di murario che si possa sicuramente assegnare all'epoca romana o longobarda.
La cronaca di Daniele del secolo XIV, ci racconta che il pontefice Gregorio I avrebbe concesso al conte d'Angera, Aliono, figlio di re Milio, delle corti nel comitato di Milano, tra cui quella di Barzanò (28). Un'altra riportata dal Mantovani e ricavata da un anonimo, ma di qual secolo non dice, attribuirebbe la costruzione del castello di Barzanò ad un Rothfurt, già scudiero di Astolfo re dei Longobardi, e da esso creato conte, con donazione di una corte che comprendeva Torrevilla, Dagò, Oriano, Prebone, Torricella, Barzanò, San Feriolo, perché ferito alla Chiusa delle Alpi combattendo contro re Pipino nel 754, lo avrebbe ridotto in salvo, trasportandolo dalla mischia. Ma lo stesso Mantovani conclude col dire che, "non trovando gli storici alcun dato circa il fatto attribuito al conte di Rothfurt, potrebbe risolversi in una delle tante favole di cui abbondano le cronache di quei tempi".
Senonché più avanti non dubita di affermare che "a quell'epoca (700) Barzanò, come sede del signore di quelle terre, ossia corte di Barzanò, era considerato come capoluogo ossia capo di pieve, e la chiesa del castello era riguardata quale matrice o plebana, e come tale godeva il privilegio di amministrare il battesimo" (29).
Orbene, da un fatto tanto incerto che sa di favola non so come si possa attribuire ad un ipotetico conte di Rothfurt il castello e la chiesa col fonte battesimale, facendo della contea, o corte che dir si voglia, una pieve. Non ci soccorrono né prove né sicuri indizi per confermarlo o seriamente supporlo. Tutto è avvolto nelle tenebre.
A trarre in inganno il Mantovani concorse fors'anche l'attuale vasca battesimale che ritenne molto più antica di quello che lo fosse in realtà, e della quale si dirà più innanzi.
Dal V secolo alla seconda metà del secolo X si stende su Barzanò un gran velo d'oscurità. Non che il villaggio sia scomparso: continuò a vivere secondo la tarda tradizione romana, con interferenze di nuove costumanze barbariche, per cui probabilmente il latifondo di Novelliano Pandaro si sarà trasformato in corte coi Longobardi, e successivamente in feudo durante il periodo feudale il di cui centro era generalmente fortificato.
In quei tempi barbarici la vita pubblica nelle campagne si esplicava nelle adunanze davanti alle chiese, conventus ante ecclesiam come si ha dall'Editto di Rotari re Longobardo (c. 243), che corrisponderebbe al conventus vicinorum della legge Visigota (c. VIII, 6, 6).
In quelle adunanze non si sarà solamente discusso di ciò che aveva rapporto col culto, del quale allora il popolo si dava gran cura, ma probabilmente anche di altre cose, come ad esempio, di questioni riguardanti la proprietà collettiva (pascoli, selve, ecc.), detta appunto vicanalia, comunantia.
Umili convegni nei quali si potrebbero ravvisare i germi di quello che sarà poi il comune rurale medioevale.
È noto che le plebi campagnole (i rustici), dopo che le Città Lombarde riuscirono a conquistare nell'ultimo quarto del secolo XII la loro autonomia contro l'imperatore Federico Barbarossa, presero ad agitarsi contro i loro signori con sediziosi accordi fra di loro e col pretendere di eleggere esse stesse i magistrati locali, così da ottenere almeno una parte di quella libertà che già godevano i cittadini (cives). Ciò che, nonostante gli inerenti contrasti, riuscirono ad ottenere nel secolo seguente, dando origine e sviluppo ai Comuni rurali, i quali a loro volta vennero via via evolvendosi lungo i secoli successivi, in base alle relative condizioni politiche e sociali dei tempi, trasformandosi nel moderno Comune rurale, e più nulla conservando del passato.
Infatti l'attuale nostra struttura comunale affonda le sue radici nella Legge Provinciale e Comunale del 1865, emanata quattro anni dopo la proclamazione del Regno d'Italia (8 ottobre 1861), ma da allora, coll'affermarsi dell'economia industriale, quale trasformazione si è verificata sotto la spinta di nuove continue esigenze sociali.
La ragione di questo continuo evolversi la si può ravvisare nel fatto che il Comune è un'entità vivente strettamente legata agli eventi politici e sociali dell'umana società sempre in cammino verso nuove mete.
Il Fiamma raccolse nelle sue cronache una tradizione, e cioè che sopra Barzanò, su un certo qual monte, vi erano conti potentissimi, detti conti di Torrevilla, che per le loro crudeltà furono poi espulsi, e riparatisi in Toscana furono chiamati conti di Rothefort sino al presente (30).
Questo certo qual monte sopra Barzanò potrebbe corrispondere all'altura o parte antica di Barzanò, su la quale sorsero il castello e la chiesa di S. Salvatore.
Ignazio Cantù ritenne di precisare le asserzioni del Fiamma, scrivendo che il castello di Barzanò sarebbe stato eretto dai signori o conti di Torrevilla, e che Berengario e Ugone signori della corte di Barzanò appartenessero a quella famiglia, e che per aver favorito Arduino contro Enrico II fu loro confiscata la corte e donata al vescovo di Como nel 1015 (31). Il Mantovani asserì, lui pure, sempre sulla fede del Fiamma, che i conti toscani di Rothefort si fanno discendere dai conti di Barzanò (32).
Il dire del Fiamma contiene qualcosa di vero. Ugo e Berengario, dei quali si parlerà più avanti, erano infatti dei prepotenti e dei ribelli, e perciò confiscati dei loro beni. Ma che appartenessero ai cosidetti conti di Torrevilla o ne avessero tal titolo non vi è parola in nessun'altra cronaca o memoria, e nemmeno nei documenti che li riguardano. Il Giulini stesso non ha dato alcun peso a quest'ultima diceria del Fiamma, unica fonte di tale notizia (33).
Che a Torrevilla sorgesse nel medioevo qualche castello è verosimile, arguendo dal nome stesso. Ma in quale anno precisamente eretto e poi distrutto, e chi ne fossero veramente i signori, ci è totalmente ignoto: tutto è avvolto nell'oscurità e nella leggenda (34).
Sulle origini dei conti di Rothefort si potrebbe osservare che già sul finire del secolo XII, cessata la guerra col Barbarossa, le famiglie più elevate per censo e cariche incominciarono ad andare in cerca di una nobiltà di sangue più o meno antica, dando origine ad un fiorire di leggende, raccolte premurosamente dai cronisti.
La boria di un'alta origine, col passare del tempo, man mano passò in tutte le famiglie di una certa potenza e ricchezza, così che nel secolo XVI Paolo Morigia nella sua Nobiltà di Milano poteva scrivere: "Onde sino al giorno d'oggi fioriscono in questa veramente magnifica patria molte illustrissime famiglie, che d'antichità e nobiltà non hanno invidia a qualunque della nostra Italia, perché alquante tranno la loro origine da sangue reale, altre da Imperatori, alcune da Troiani, chi da Greci, e molte dalla nobiltà romana e d'antichi Toscani, alquante vengono dal ceppo Gotico e dal Longobardo, e molte dalla nobiltà di Francia e di Germania, le quali a voler raccontare farei di troppo lunga narrazione per essere non picciol numero" (35).

Santo che imbocca un malato - San Salvatore (inizio secolo XIV)

CAPITOLO QUARTO

LA CORTE DI BARZANÒ


IL CASTELLO - IL CONTE SIGIFREDO -UGO E BERENGARIO -I VESCOVI DI COMO -I PIROVANO-DEMOLIZIONE DEL CASTELLO

La carta più antica, anzi l'unica che si conosca di quei lontanissimi tempi, e nella quale per la prima volta ricorre Barzanò, è il diploma del 4 ottobre 1015, datato da Meresburg, col quale l'imperatore e re d'Italia Enrico II donava iure et legaliter ad Alberico vescovo di Como e suoi successori, con facoltà di tenere, commutare, alienare la corte di Barzanò: "Curtem... qui dicitur Villa Barzanorum" con tutte le sue dipendenze, confiscata ai ribelli Ugo e Berengario, figli del conte Sigifredo (36).
Benché non se ne conoscano i limiti, doveva essere un vasto e fertile tenimento, se ingolosì il vescovo di Como ad averlo in suo possesso dal sovrano del quale era fervente sostenitore.
Già sotto la dominazione longobarda prese a svilupparsi nelle campagne il sistema curtense (da corte o cortile, ossia spazio cintato intorno alla casa padronale), formato da un insieme di possedimenti di varia natura, collegati ad un edificio centrale. Il tutto costituiva un unico complesso patrimoniale, la cui economia poggiava essenzialmente su quella terriera e sul lavoro servile vincolato.
La corte svolgeva la sua vita in un regime chiuso. Ogni corte era come un piccolo mondo che bastava a se stesso, producendo quel tanto che era necessario al consumo interno. In tal regime economico non poteva esserci posto per una vera industria e per un vero commercio: i pochi scambi occorrenti si svolgevano per lo più col baratto dei prodotti in natura e manufatti casalinghi, e raramente in moneta. Di conseguenza mancava il ceto borghese che si forma là dove trionfa non la ricchezza terriera, ma la monetaria. Di grande importanza perciò erano allora le grandi proprietà terriere laiche, ecclesiastiche e monastiche.
Questo sistema di vita economica praticamente durò fin oltre il Mille. Alla sua base stava una classe di coltivatori, detti servi della gleba, i quali erano considerati come le bestie annesse ai feudi signorili.
Allorquando i liberi Comuni delle Città Lombarde avranno dato vita ad una economia più aperta ed espansiva, di riflesso verranno spezzandosi anche nelle campagne le barriere curtensi e feudali: ad un'economia naturale a mercato chiuso subentrerà ben più largamente quella monetaria (37). Nelle fonti classiche romane, Villa indica la casa padronale con le annesse proprietà, e nel medioevo assume anche il significato di villaggio, come vediamo verificarsi per Barzanò e per altri paesi (Villa Romanò, ecc.).
I vasti poderi romani, non è un male ripeterlo, si sarebbero per lo più tramutati in corti nell'alto medioevo. Lo Schupfer ci fa conoscere infatti che, riguardo alla proprietà immobiliare, i sistemi dell'ultima epoca romana continuarono in buona parte non solo sotto i Goti, ma ancora coi Longobardi, nonostante le intromissioni di costumanze barbariche (38).
La corte di Barzanò sembrerebbe pertanto equivalere all'antico romano possesso o villa di Novelliano Pandaro.

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Nel citato diploma di confisca del 1015 mentre viene specificato, sia pure in modo generico, il complesso patrimoniale della corte col nominare le terre colte ed incolte, le vigne, i campi, i pascoli, le selve, i mansi masserizi, le acque, i mulini, le case, i servi e gli aldi, non vi è parola della chiesa, e nemmeno di un particolare edificio centrale o castello, quale centro amministrativo, sede del signore o di un suo rappresentante, che pure non doveva mancare.
Se il castello esisteva fin d'allora, non si comprende come non se ne sia fatta menzione, poiché era il punto più importante della corte.
Che sia stato eretto dopo il 1015? Potrebbe darsi, e non mancano infatti studiosi che suppongono chiesa e castello eretti al tempo dei Pirovano. Ma nel nostro caso mi sembra poco probabile se si tien calcolo delle indagini compiute cento anni or sono, dal Mantovani, e che rimangono a tutt'oggi l'unica fonte, ch'io sappia, per notizie riguardanti la consistenza del castello.
È noto che gli antichi castelli rurali dei secoli X-XIII erano generalmente formati di una torre centrale e di un muro castellano di cinta, e non di rado resi più forti con altri accorgimenti difensivi (fossati, ponti levatoi, bastioni, terrapieni, ecc.) a seconda della opportunità e della situazione del terreno. Tale, press'a poco, si presentava il castello di Trezzo, il quale aveva "meliorem murum ac pulchriorem et meliorem turrim que unquam in tota Longobardia fuisset". E poiché i Tedeschi avevano rinforzato le mura e la torre, i Bergamaschi e i Milanesi nella convenzione del 1167 stabilirono di "destruere omnem laborem quem Teutonici habent ibi factum facere de turri et muro castellano" (39).
Quello di Barzanò, sempre che le constatazioni del Mantovani corrispondano a verità, occupava in vasta cerchia la collina su la quale sorge tuttora la chiesa di S. Salvatore. Si stendeva dalla punta orientale della villa Mantovani sino al già Oratorio della Immacolata verso ponente (40), e circondato di solide e agguerrite mura intersecate da torri e ripari atti ad una vigorosa difesa.
Verso oriente stava la chiesa, e dal lato di ponente e settentrione il castello propriamente detto con gli annessi massicci e cupi fabbricati per l'abitazione del signore e per le necessità inerenti al castello ed alla corte.
Il Bedoni (op. cit., p. 13) ritenne di poter specificare (ma non dice in base a quale fonte) che "il castello era fiancheggiato da 15 robuste torri e da formidabili spalti: mandava le sue propaggini con le opere di difesa avanzate nella pianura fiancheggiante in modo da includere i contadini vassalli, i loro armenti, le loro messi".
Dal che si può dedurre che non si trattava di un castello rurale qualsiasi, come poteva esser quello della vicina Cremella del quale trovo memoria in documenti del secolo XII, ma quasi di una vera fortezza.
L'accesso al castello, sempre in base alle asserzioni del Mantovani, "veniva reso dall'arte ancor più difficile pei larghi e profondi fossati di cui era circondato. Vi erano doppie porte, la prima con ponte levatoio all'esterno dalla parte di settentrione, e le altre interne che mettevano all'abitazione del castellano" (41). Naturalmente non esistevano allora le attuali strade che attraversano la collinetta oggi coperta di ville e di case.
Orbene, se il castello di Barzanò fu realmente come ce lo hanno prospettato il Mantovani e il Bedoni, o quanto meno non molto dissimile, mi pare che i vescovi di Como non avessero alcun interesse ad erigere così imponenti costruzioni, e forse non lo avesse nemmeno quella famiglia signorile nella quale finì la corte.
Chi potrebbe essere quella famiglia non è possibile accertare in mancanza di elementi chiarificatori, benché il Dozio abbia scritto "che non sarebbe del tutto gratuito credere che in quello stesso secolo undicesimo (la corte di Barzanò) venisse in possesso dei Pirovano" (42). Il modo dubitativo di esprimersi del Dozio fu trasformato senz'altro in certezza da altri che lo seguirono, ma senza recare prove.
Si è pure asserito che l'arcivescovo di Milano, Ariberto da Intimiano, abbia donato la corte di Barzanò al monastero di S. Dionigi in Milano da lui fondato nel 1023, donazione convalidata con diploma dell'imperatore Corrado il 23 marzo 1026, e che da allora sino al 1491 sia rimasta in possesso di detto monastero (43).
In questo ci deve essere un abbaglio.
Ariberto eresse infatti nel 1023 il monastero dotandolo di propri beni situati in Giovigo, Sesto, Quinto, Cucciago, Barzago, Verzago, e il 23 marzo 1026 fece sanzionare con diploma imperiale le prime e le altre donazioni da lui fatte al monastero, ma sia nella carta di fondazione che nel diploma non vi è cenno di Barzanò e sua corte. Neppure dalle pergamene e carte del monastero, conservate nell'Archivio di Stato in Milano, risulta fra i suoi possessi (44).
Per quanto tempo la corte di Barzanò sia rimasta in possesso dei vescovi di Como non ci è dato di conoscere. Si ha una riconferma del 1055 al vescovo comense Bennone da parte di Enrico III, ed un'altra del 1312 di Enrico VII a Leone Lambertenghi, altro vescovo comasco, che riassume in modo formalisticamente generico tutte le donazioni precedenti (45). Comunque sia avvenuto, Barzanò nel secolo XIV apparirebbe già in altre mani.

Resti del castello feudale

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Lasciò scritto il Fiamma che Barzanò era una delle otto città della Insubria della cui soppressione crebbe Milano (46).
Non era certamente una città nell'odierno significato della parola, ma il dire di quel cronista lascerebbe intendere l'importanza di quella fortezza, la quale presupporrebbe signora del luogo una famiglia molto ricca e potente.
Risulta infatti con certezza che nella seconda metà del secolo X un gran signore, il conte Sigifredo, oltre molti beni nel Varesotto e fuori del Milanese, possedeva anche la corte di Barzanò (47). A lui perciò potrebbe risalire l'erezione di un forte castello nel centro della corte, o quanto meno ai suoi due figli, e sia pure con non tutti quei particolari coi quali ce lo presentano il Mantovani e specialmente il Bedoni. Comunque non doveva trattarsi di un castelluccio rurale qualsiasi.
In quegli anni Barzanò non poteva essere priva di un forte castello. Lo richiedevano, a mio avviso, i burrascosi avvenimenti politici e sociali di quel secolo e le feroci scorrerie degli Ungheri che spingevano le popolazioni a fortificare i rispettivi luoghi, e tanto più Barzanò in quanto centro di una corte feudale.
Il nostro Barzanò lo possiamo raffigurare in quel tempo nella forte dimora signorile con annessa la chiesuola di S. Salvatore, dominante il villaggio, e le poche casupole appollaiate lì vicino ed altre sparse nell'ambito territoriale.
Se la popolazione della parrocchia al tempo di S. Carlo non raggiungeva le cinquecento anime, si può ben ritenere che in quei lontani secoli fosse ancor meno, e ciò in relazione alla generale situazione demografica di allora.
Il Dozio inclinerebbe a credere il conte Sigifredo, dal nome germanico, di schiatta franco-borgognona trapiantatasi in Italia dopo la caduta del regno longobardo, e non è alieno dal credere che si possa attribuire a questa famiglia feudale la primitiva costruzione dell'oratorio campestre di San Feriolo, presso il quale col volgere dei secoli si sviluppò la grossa frazione detta appunto San Feriolo (48). Ma non sono che ipotesi.
In quale anno questo gran signore ebbe in possesso la corte, e da chi e per quali motivi, non ci è dato di sapere.
Alla sua morte, avvenuta probabilmente negli ultimi anni del secolo X, gli successero i figli Ugo conte e Berengario prete.
Pur avendo costoro a disposizione molti altri luoghi per tenervi residenza stabile o occasionale, Barzanò godeva il vantaggio di essere più vicina a Milano, sulla quale potevano più facilmente calare come falchi.
Il Fiamma ci narra appunto che Ugo e Berengario tormentavano Milano col ferro e col fuoco (49), il che lascia comprendere che avevano dei contrasti coll'arcivescovo Arnolfo II e forse con altri signori.
Erano dei prepotenti e dei rapaci: sempre secondo il Fiamma, "propter suam potentiam totum nostrum territorium expoliabant, latrones recipiebant, homicidia perpetrabant" (50) ed essendo ricchissimi avevano il mezzo di esserlo.
Tra l'altro, dopo la morte di Ottone III (1002), avevano usurpato non pochi beni, situati in buona parte lungo l'Adda nelle parti di Trezzo, che lo stesso imperatore aveva acquistati da Liutefredo vescovo di Tortona e donati al monastero di S. Salvatore in Pavia il 2 novembre 1001 (51).
Ugo e Berengario, i quali forse già possedevano una metà di quei beni, con la violenza s'impadronirono anche dell'altra parte spettante al monastero.
Nel 1013 l'imperatore Enrico II, sceso in Italia accompagnato dal pontefice Benedetto VIII e dall'arcivescovo di Milano, si recò a Roma dove fu incoronato il 14 febbraio 1014. Nel viaggio di ritorno il 25 aprile si fermò a Pavia, sostandovi parecchio tempo per discutere e decidere cause importanti. La badessa di S. Salvatore, Eufrasia, colse l'occasione per reclamare le proprietà usurpate.
Secondo la prassi del diritto germanico allora vigente in base alle disposizioni ottoniane (52), la vertenza fu definita mediante il duello. Rimasto vincitore il campione delle monache, queste ebbero dal sovrano causa vinta.
La badessa Eufrasia, ben sapendo con chi avesse a che fare, e perciò temendo che, partito l'imperatore, rimettessero in campo nuovi pretesti sopra i possedimenti ch'erano stati obbligati a restituire, inoltrò una seconda istanza perché fossero interrogati e manifestassero se avessero qualche titolo per cui contrastare alle monache il pacifico possesso di quei beni, e qualora non ne avessero dichiarassero apertamente ch'erano proprietà del monastero.
I due fratelli davanti al sovrano e agli altri grandi signori, sedenti in tribunale, dichiararono di riconoscere legittimo il diritto di quelle monache (53).
Ma appena uscito dall'Italia Enrico II e insorto Arduino a rivendicare il regno d'Italia, Ugo e Berengario che sino allora erano rimasti aderenti all'imperatore, abbracciarono il partito di Arduino, certamente spinti dalla sentenza contraria avuta.
Rimasto soccombente Arduino, Enrico II punì quei due ribelli con la confisca di tutti i loro beni che donò ai suoi fedeli. La corte di Barzanò venne donata al vescovo di Como (54).
Nella Dieta di Pavia del 1037, tenuta dall'imperatore Corrado, tra i principali accusatori dell'arcivescovo Ariberto i quali chiedevano giustizia contro di lui, probabilmente per riavere, se non in tutto almeno in parte, le loro proprietà delle quali erano stati spogliati da Arnolfo II suo predecessore, vi era Ugo conte, che il Giulini ritiene verosimilmente il figlio del conte Sigifredo (55).
Che sia di poi avvenuto di Ugo e Berengario, e dei loro discendenti, se pur ne ebbero, la storia tace; nemmeno si può sapere se in seguito abbiano potuto recuperare almeno parte dei loro beni.
Questa famiglia feudale o finì nell'oscurità oppure altrove sotto altro nome (forse i conti di Rothefort?). Comunque sia, più non compare tra le antiche famiglie nobili milanesi.
I grandi signori laici ed ecclesiastici erano più che ad altro intenti a conservare e ad accrescere i loro possedimenti, e quindi facili a ricorrere allo straniero per aumentare in ricchezza e in potenza. Sempre irrequieti e insofferenti di ogni autorità amavano spesso cambiar padrone per ubbidire a nessuno.
A quali avvenimenti andò soggetto il nostro castello durante la sua esistenza? Tutto è avvolto nelle tenebre.
Sappiamo solo che il Fiamma, per il primo in ordine di tempo, afferma che nel 1222 l'esercito popolare milanese, sotto il comando di Ardigotto Marcellino, con altri castelli distrusse anche quello di Barzanò (56).
Lo seguirono il Corio (57), il Sigonio, il Sitoni ed altri. Il Giulini invece si attenne al Calendario di S. Giorgio, pur aggiungendo che il Fiamma nomina altre terre distrutte in quella occasione (58).
Benché nel Calendario di S. Giorgio non si faccia menzione del diroccamento del castello di Barzanò, ma solamente di quelli di Vaprio, Pirovano e Verano, non di meno si può ragionevolmente argomentare che lo scopo della distruzione del castello di Pirovano presso Missaglia doveva altresì ripercuotersi sul non lontano castello signorile di Barzanò, e tanto più qualora fosse stato della casata Pirovano (59), in quanto l'arcivescovo Oberto II Pirovano nel 1211 lo troviamo capo del partito dei nobili.
I moderni cultori di storia briantina come il Redaelli, il Dozio (60), il Mantovani, il Reggiori, il Cappellini, ed altri si attennero alla data del 1222 che pare la meno incerta.
Di parere contrario si dimostrarono i due fratelli Cantù, i quali affermarono che il castello fu distrutto nel 1274 con quello di Pirovano, Cremella, Torrevilla, Sabbioncello e Merate, durante le lotte tra i Torriani e i Visconti, ma senza citare la fonte donde ricavarono tale notizia (61).
Il Giulini, sotto l'anno 1275, ci narra infatti che i Torriani non potendo presidiare i numerosi castelli esistenti nel territorio milanese, ne fecero smantellare molti nel contado di Milano, del Seprio e della Martesana, ma non fa alcun nome delle località (62).
Orbene, se si ammette l'abbattimento del castello nel 1274, si stenta a credere quanto affermano i due Cantù, e cioè che nel 1320-1323 ci fossero in Barzanò i Torrevilla dominanti con un forte castello. A meno che l'abbiano fatto ricostruire questi leggendari Torrevilla, il che non consta. In caso affermativo quando sarebbe stato allora definitivamente distrutto o diroccato o comunque abbandonato? Siamo di fronte a notizie oscure e contrastanti, nelle quali è difficile vederci chiaro.
Solo il vecchio e imponente avanzo di torrione, rimasto nella villa già dei nobili Nava (63), se potesse parlare, potrebbe precisarci come stanno veramente le cose.

Cristo in croce - San Salvatore (inizio secolo XI)


CAPITOLO QUINTO

LA CHIESA DI SAN SALVATORE

L'attuale chiesa di S. Salvatore è, senza alcun dubbio, dopo gli scandagli eseguiti dal Reggiori, sorta su altra precedente della quale ci è rimasta solo l'absidiola con la sottostante piccola cripta. Era di costruzione grossolana, fatta di comune pietrame e senza laterizi, a forma quadrata basilicale.
Il Mantovani, come si è detto, ritenne la chiesa di S. Salvatore nella sua origine un delubro pagano, ridotto a chiesa cristiana contemporaneamente all'erezione del castello da un conte Rothefort nel secolo VIII, ossia poco dopo il 754, durante la dominazione longobarda (64).
Successivamente il Porter la volle una costruzione interamente bizantina, dichiarandola l'unico monumento esistente in Lombardia dello stile architettonico usato durante il dominio dei primi re longobardi, e assegnandola alla fine del secolo VI (590) (65). Vi ricorda in più una tradizione che vorrebbe riallacciare la chiesa alla regina Teodolinda; tradizione, che io sappia non mai esistita in paese, e della quale non vi è traccia nei vecchi storici briantini e neppure nello stesso Mantovani.
Non mancano, è vero, tradizioni e leggende che fanno risalire alla pia e intelligente regina longobarda, la quale molto si adoperò per richiamare alla religione cattolica la sua gente, costruzioni di chiese e monasteri.
Ma se si rimonta alle origini di queste tradizioni leggendarie ci si accorge che, per lo più, non sono sgorgate dalla fantasia popolare, ma da quella degli scrittori (in buona parte della prima metà del secolo XIX influenzati dal romanticismo in voga), i quali per dar loro credito pensarono di assegnarle alla tradizione popolare.
Come che sia, degli edifici che nel passato si vollero attribuire a Teodolinda o ad altri durante il dominio longobardo, neppure uno ce n'è rimasto in Lombardia. La stessa basilica (oraculum) di San Giovan Battista in Monza, fatta erigere dalla pia regina presso il suo palazzo, come narra Paolo Diacono, subì una radicale trasformazione nel secolo XIII e una vasta opera di ingrandimento nel secolo XIV (66). Similmente l'attuale chiesa di S. Pietro in Civate, attribuita un tempo al re longobardo Desiderio, non è che una ricostruzione del secolo XI, o poco prima, di una chiesa preesistente che si vorrebbe far risalire al secolo VIII (67).
Scrisse il Monti: "I longobardi, barbari ancora quando scesero in Italia, non potevano avere né architetti né architettura propria; che se gli antichi cronisti ci dicono la tal chiesa eretta durante la dominazione loro, non c'è ragione di crederla ciecamente quella stessa che vediamo oggidì, ché dalla metà del sesto secolo sino alla metà dell'ottavo, niun'altra architettura si usò in Italia se non quella latina dei precedenti secoli quarto e quinto, e solo guasta dall'imperizia degli edificatori e dall'influenza bizantina" (68).
Il Palestra, dopo aver letto che la plebana di Missaglia in quanto dedicata al martire San Vittore, è prelongobarda, propende a supporre il nostro S. Salvatore, col suo battistero e col suo castello, di origine longobarda. Scrive infatti che "l'antichissima chiesa di S. Salvatore sorgeva dentro il recinto del castello di Barzanò, castello ricordato da documenti del secolo X, e che per la sua caratteristica posizione strategica ha molto probabilmente origini longobarde; la dedicazione della chiesetta a S. Salvatore richiama subito alla mente l'attività dei missionari orientali nell'età longobarda, e il vetusto battistero con grande vasca ottagonale per il rito del battesimo suscita molti problemi intorno alla sua origine ed in rapporto ad altre chiese dedicate al Salvatore, come quella esistente entro il castello di Arona che venne annessa ad un monastero, come quella "in monte" presso Oltrona di San Mamette, come quella dedicata ai santi Salvatore, Michele, Martino e Giorgio a Piazza Deiva, nella zona dei presidii costieri liguri" (69).
Che dire? Purtroppo tutto rimane ancora quanto mai incerto.
Per quello che riguarda particolarmente Barzanò, possiamo affermare che, finora, prima del secolo XIII, nessun documento, nessuna memoria, nessuna fonte accenna ad una chiesa dedicata a S. Salvatore. Di più, pur ammesso che il titolo di S. Salvatore faccia parte del santoriale longobardo, non è detto per questo che il nostro sacro edificio rimonti sicuramente a quell'epoca per la ragione che oratorii o chiese dedicate a S. Salvatore possono essere state erette anche prima e dopo la dominazione longobarda.
In fatto di chiese dedicate a S. Salvatore, il Liber Notitiae ecc., altre volte citato, segnala esistenti nei villaggi della nostra diocesi ben trenta chiese più due altari, ed altre sei in Milano. Si noti poi che al Tornago presso Renate, non molto lontano da Barzanò, sorgeva altra chiesuola in onore di S. Salvatore. Stava là dove i Visconti di Modrone vi eressero l'attuale loro sontuoso sepolcreto di famiglia.

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Per il nostro S. Salvatore gli studiosi presentano diverse ipotesi di datazione: una inclinerebbe a farlo risalire ai tempi della dominazione longobarda sia per una leggendaria, per non dire favolosa, contea eretta da Astolfo in favore di un Rothefort (Mantovani), o in base ad elementi costruttivi (Porter), oppure in forza del santoriale longobardo (Palestra); un'altra lo vorrebbe col fonte battesimale, se non del secolo VI, certamente prima del mille, pur lasciandone imprecisata la data (Cappellini); oppure circa il mille (Dozio); e una terza lo daterebbe dell'ultimo quarto del secolo XII (Reggiori, Arslan).
In mancanza di documenti scritti se ne studia la datazione specialmente in base alla tecnica ed ai particolari murari.
È tuttavia un metodo non sempre sicuro.
Il sacro edificio venne ultimamente fatto oggetto di indagini da parte dell'architetto Ferdinando Reggiori.
Egli dopo aver eliminate le ipotesi del Mantovani e del Porter, pur non rimanendo alieno dal pensare, per quanto inaccertabile, che i Longobardi avessero eretto un fortilizio sulla piccola altura dove si era formata la Barzanò antica, afferma che la campata di mezzo con la volta a cupola e la seguente col suo portale non sarebbero che aggiunte fatte nel 1231, basandosi su di un'iscrizione tuttora esistente sul portale stesso della chiesa. E poiché i manufatti ben poco differiscono da quelli usati nella precedente costruzione rimasta, ne dedusse che tra i due stadi costruttivi non potevano essere intercorsi molti anni, per cui la parte originaria dell'edificio (l'absidiola e la cripta) dovevano rimontare agli ultimi anni del secolo XII, e con quasi certezza ad Algiso Pirovano, arcivescovo di Milano dal 1176 al 1185, come da altra iscrizione scomparsa (70).
Benché si tratti di un'opinione presentata da uno studioso di chiara fama, lascia tuttavia perplessi.
Innanzitutto, per una datazione anteriore ad Algiso, ritengo che non possa fare difficoltà il constatare i manufatti posteriori pressoché simili ai precedenti originari, poiché nell'insieme si tratta di una costruzione muraria dalla tecnica semplice, elementare, di uso comune e che in quanto tale poteva conservarsi per lungo tempo nelle campagne lontane dalle correnti d'arte. Costruzione tanto rozza, per il materiale usato e per la tecnica costruttiva, che il Porter non dubitò di farla rimontare al secolo VI, dichiarandola di stile bizantino.
Meno di così come si poteva fabbricare?
Se l'edificio originario fosse stato fatto erigere da Algiso, si potrebbe anche ben credere che un arcivescovo di Milano, col romanico ormai in pieno sviluppo, avrebbe probabilmente fatto costruire qualche cosa di meglio, e tanto più nel villaggio del quale taluno lo vorrebbe nativo.
Riguardo ai residui di antichi affreschi in esso scoperti, se veramente simili a quelli di S. Pietro in Civate, come suppone il Reggiori, pressoché contemporanei, si dovrebbero piuttosto attribuire, secondo recenti studiosi, non già alla fine del secolo XII, ma al cadere del secolo XI o quanto meno ai primi anni del secolo seguente, e perciò anteriori a Galdino e ad Algiso (71).
Gli altri affreschi sovrapposti che il Reggiori riterrebbe non anteriori al secolo XIV, si potrebbero credere fatti eseguire dai canonici.
D'altro canto è noto che i grandi castelli signorili nell'epoca feudale, e tale doveva essere il nostro di Barzanò, non erano senza un oratorio per il servizio religioso dei loro signori, e tanto più nel nostro caso se si tien conto che Berengario era prete.
Il nostro S. Salvatore si presenta appunto nella cerchia del castello, alquanto al di sotto della cima dell'altura, e il titolo stesso può essere indizio della sua antichità.
Ci ricorda il Mantovani che "nell'anno 1860, allorché il signor Achille Manara fece costruire la serra degli agrumi nell'orto sottoposto alla chiesa di S. Salvatore, si rinvennero gli avanzi delle antiche mura del castello formate di grosse pietre inegualmente unite da fortissimo cemento di calce che aveva la consistenza delle pietre" (72). Avevano lo spessore di braccia 2 e mezzo.
Tutto considerato, non mi pare fuori posto pensare che il sacro edificio possa anche essere stato eretto contemporaneamente al castello, o poco dopo, dal conte Sigifredo nella seconda metà inoltrata del secolo X, o quanto meno dai suoi due figli Ugo e Berengario nel primo quarto del secolo XI; ch'esso sia stato di poi notevolmente ampliato forse da Algiso Pirovano nell'ultimo quarto del secolo XII, e successivamente nel 1231 restaurato ed ornato di un artistico portale.
Tra le diverse ipotesi messe in campo ci potrebbe stare anche questa, naturalmente pur essa con le sue luci e le sue ombre. Tanto si brancola tutti nel buio e nell'incertezza.

Facciata della Canonica di San Salvatore

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Il Reggiori, a sostegno del suo dire, si appoggia inoltre ad una iscrizione riportata dal Bombognini.
Essa dice:
Galdinus. Pirovanus. Archiep. Mediol.
Basilicam. Hanc. Construxit
(73).
Dal modo con cui il Bombognini si esprime, non fu da lui né veduta né letta. Forse l'ha ricavata dai voluminosi manoscritti di Paolo Antonio Sirtori (74), finiti chi sa dove, dei quali si è giovato, com'egli dichiara, per le notizie spettanti alla Brianza.
Non consta se scolpita su pietra o scritta sul muro: ora è scomparsa, e perciò tutti coloro che ne parlano si riferiscono al Bombognini.
Negli atti di visita pastorale del card. Federico Borromeo del 1611, mentre si fa menzione di un'altra iscrizione ivi esistente, non vi è parola di questa.
Essa, se veramente esistita, doveva comunque riferirsi al nostro S. Salvatore. Il dire che si trovava vicino o presso la chiesa lo si può intendere anche nel senso ch'era posta nell'ambito della chiesa. Quando noi diciamo che il tal libro è presso la biblioteca, vogliamo intendere che è nella biblioteca stessa. La stessa parola hanc (questa) lo lascia comprendere.
Il pensare ad un'altra ipotetica e contigua basilica, come pare voglia credere il Reggiori, al tempo di Galdino o di Algiso, alla quale S. Salvatore avrebbe servito da battistero, non è verosimile, sia perché manca una qualsiasi documentazione o indizio della sua esistenza, e sia perché difficilmente si può ammettere la sparizione di una basilica senza lasciare qualche traccia o memoria in luogo.
Il nostro S. Salvatore, a mio avviso, fu semplice chiesa signorile fin dalle origini e non battistero.
Anticamente nelle campagne si dicevano talora basiliche anche le chiese non battesimali dei villaggi, come ad esempio in una carta del 31 maggio 1018 la chiesuola di S. Maria in Robbiate, pieve di Brivio, è detta "basilica sancte Marie sita vico Robiate" (75).
Nei documenti del secolo XIII, nei quali per la prima volta trovo sicura menzione del nostro sacro edificio, S. Salvatore è dichiarato chiesa e non altro, come risulta da un atto del console di giustizia di Milano del 17 ottobre 1213, e perciò prima dei supposti ampliamenti del 1231 (76). Altrettanto ci conferma il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (77).
Dobbiamo scendere ai decreti di visita del 1611 del card. Federico Borromeo per trovare chiamato basilica il nostro San Salvatore, ma senza far parola né in questa né in altre carte da chi, almeno probabilmente, sia stata fatta erigere (78).
Vi si dice soltanto che sarebbe stata costruita da circa 500 anni, basandosi a quanto pare su un'iscrizione del 1231 della quale diremo fra poco.
Ciò premesso, possiamo ora domandarci se l'iscrizione conservataci dal Bombognini sia attendibile. C'è molto da dubitare.
Un autore coevo avrebbe scritto non Pirovanus, ma come di regola de Pirovano, e non avrebbe potuto ignorare che l'arcivescovo Galdino apparteneva ai Sala e non ai Pirovano.
Il Mantovani insinuò pertanto che "vi è tutto il fondamento che non abbia mai esistita", e il Dozio la volle "non contemporanea, fatta dappoi con ignoranza storica, e forse suggerita da ambizione privata" (79). A mio avviso quella tarda epigrafe si potrebbe anche ritenerla scritta in base a qualche corrente diceria locale, e contenere, almeno in parte, un fondo di verità.
Altri ritennero di ravvisare in questa iscrizione Algiso invece di Galdino. Ad ogni modo sia che si tratti di Galdino o di Algiso, non ci soccorrono elementi per conoscere quali rapporti sia l'uno che l'altro arcivescovo potessero aver avuto con Barzanò e con la chiesa di S. Salvatore.

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Benché gli anni che corrono dalla seconda metà del secolo XII al primo decennio del seguente segnino il periodo della maggior grandezza della casata Pirovano col dar ben tre arcivescovi di Milano, - Oberto I (dal 1146 al 1166), Algiso (dal 1176 al 1185), Oberto II (dal 1206 al 1211) - tuttavia non consta che costoro, o altri della medesima stirpe, abbiano avuto in quel tempo una benché minima relazione col castello o con la chiesa di S. Salvatore di Barzanò.
Neppure il Savio, che scrisse diffusamente dei tre arcivescovi Pirovano, mentre ci fa conoscere il giorno della morte e il luogo della loro sepoltura, nulla ci fa sapere del giorno e del luogo dove sono nati o di loro eventuali rapporti con Barzanò (80). Fa eccezione Ignazio Cantù il quale, per il primo ch'io sappia, fa nativo di Barzanò Oberto I (81), e cita il Corio sotto l'anno 1160 (battaglia di Tassera). Senonché il Corio nella sua Storia di Milano, come tutti gli altri, lo dice solamente cittadino di Milano.
Per di più, sempre al dire del Cantù, i Pirovano di Barzanò avrebbero avuto parte in avvenimenti svoltisi verso il 1240 al tempo dell'arcivescovo Leone da Perego (82).
Donde trasse conoscenza di queste novità, di poi ricopiate da altri?... Non lo dice; né saprei dire dove le abbia pescate e che valore abbiano.

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Una famiglia Pirovano di Barzanò non risulta neppure dal noto catalogo delle 188 famiglie nobili della città e campagna di Milano compilato nel 1377, ma redatto, sia pure con aggiunte, su di un altro, ora smarrito, dell'arcivescovo Ottone Visconti (1277): vi si accenna in generale ai Pirovano (probabilmente a quelli della casata residenti in città), ed in particolare soltanto a quelli di Tabiago (83).
A maggiormente offuscare le cose Ignazio Cantù, come si è già osservato, asserisce che dal 1320 al 1323 tiranneggiavano "a Barzanò i Torrevilla che possedevano un forte castello", e Cesare Cantù scrive che sotto il dominio dei Visconti dominavano a Barzanò i Torrevilla e a Tabiago i Pirovano (84).
Che al tempo dell'arcivescovo Ottone Visconti dimorasse a Tabiago una nobile famiglia Pirovano è certo, mentre è altrettanto più che incerto che allora e in seguito primeggiassero a Barzanò i cosiddetti Torrevilla, dei quali non ci è rimasta alcuna traccia.
Ad ogni modo i documenti più antichi ch'ebbi modo di vedere riguardanti i Pirovano, ch'ebbero a che fare con Barzanò, sono dell'ultimo quarto del secolo XIV.
Il 28 novembre 1386 Rizzardino Pirovano, milite, del fu Negro, in unione con i figli Biagio e Marcolo, passa ad una permuta di beni, situati nei territori di Barzanò e di Missaglia, con Provino Pirovano del fu Giovanni (85).
Un Franciscolo Pirovano dona nel 1409 vari beni, posti in Barzanò, alla fabbrica del Duomo di Milano (86).
Inoltre il trovare nel 1398 fra i canonici di S. Salvatore quattro Pirovano, dei quali per altro non conosciamo la provenienza, lascerebbe supporre che i Pirovano fossero probabilmente presenti in paese ancor prima dell'ultimo quarto di quel secolo.
A qualche ascendente dei sopraddetti Pirovano si deve con quasi certezza la fondazione della cappellania di S. Biagio, della quale i discendenti conservarono gelosamente il tradizionale diritto di patronato.
Nonostante che il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani ci faccia conoscere che al suo tempo già esisteva in S. Salvatore un altare a S. Biagio, è soltanto nel 1398 che vi risulta annessa una cappellania (87). Ma in quale anno e da chi eretta non è accertabile; già al tempo di San Carlo e di Federico Borromeo tutte le carte della collegiata erano andate disperse e, nonostante le ingiunzioni dei due arcivescovi visitatori, non fu più possibile rintracciarle.
Per i Pirovano di Barzanò neanche il Dozio, diligente indagatore di memorie briantine, riuscì a trovare documenti anteriori al secolo XIV, accontentandosi di annotare, in forma generica, che nel XIV secolo la stirpe dei Pirovano possedeva beni in Missaglia, Contra, Viganò, Barzanò, ecc. (88)
Qualora si potesse documentare o quanto meno presentare come molto probabile, in base a seri elementi, che una nobile famiglia Pirovano fosse residente in Barzanò o comunque signora del castello nella seconda metà del secolo XII e nel primo ventennio del seguente, si potrebbero elaborare ben altri pensamenti.
Le indagini fatte all'Archivio di Stato in Milano e in altri archivi, non mi diedero alcun risultato.

***

L'originaria chiesuola subì successivamente un notevole ampliamento. E questo è certo perché provato dagli scandagli fatti dal Reggiori.
Quando venne fatto eseguire quell'ampliamento?
Il Reggiori opina nel 1231, deducendolo da altra iscrizione di quel tempo e che Federico Borromeo nel 1611 volle conservata e rinfrescata nei suoi caratteri originari (89).
Essa dice:
Anno dominice incarnationis millesimo
ducentesimo trigesimo primo
.

Senonché questa iscrizione, la quale non è che una semplice datazione situata sotto la cornice della porta, e ancora esistente benché quasi illeggibile per corrosione, non precisa il motivo per il quale fu posta, per cui potrebbe riferirsi al solo portale, segnando l'anno della messa in opera e probabilmente in relazione a riparazioni alla chiesa stessa uscita verosimilmente danneggiata in occasione della demolizione del castello nel 1222.
L'interessante complesso del portale - le cui tre piccole teste umane che sono alla base del semicerchio d'ambo i lati, secondo il Dozio, raffigurerebbero la SS. Trinità, mentre la testa di agnello che sta in cima al semicerchio sarebbe il simbolo del Salvatore al quale è dedicata la chiesa (90) - è da assegnare ad un ignoto Serin Pietro, come da altra iscrizione scolpita nella chiave dell'archivolto, la quale ci fa conoscere che

Qui fecit hoc opus appellatur Serin Petrus.

Le due iscrizioni potrebbero pertanto completarsi a vicenda.
Il dubbio che la sopraddetta iscrizione del 1231 non possa aver attinenza all'ampliamento della chiesa è rafforzato, se vedo bene, da quest'altro motivo.
Il Mantovani ha constatato che il terreno, il quale circondava la chiesa da settentrione e da ponente, era stato notevomente rialzato a causa di macerie venute ad addossarsi alla chiesa stessa durante lo smantellamento del castello e annessi fabbricati.
"È notabile" scrive "che questa chiesa trovasi al di sotto del piano dell'attuale cortile e sagrato che le sta davanti, il quale è ancora più basso di circa 18 once del piano esterno a settentrione: il perché conviene ritenere che la detta chiesa sorgesse in origine verso la metà del colle su cui appoggiava il castello.
Non v'ha poi dubbio che il suolo, che attualmente circonda la chiesa dal lato di settentrione e di ponente, fu notevolmente alzato in causa del diroccamento del castello avvenuto dippoi. Difatti, allorché vennero praticati alcuni scavi per le nuove opere costruite nella casa Mantovani, si sono trovate, un braccio circa sotto il livello attuale del suolo, varie tombe, ossia cellette o fosse formate di pietre irregolari lunghe braccia tre e mezzo, larghe ed alte una all'incirca, contenenti ancora ossa umane; le quali fosse o tombe vedeansi scavate internamente fra i rottami di fabbrica antica, e di essi in miscela altresì con le ossa riempite. Questi rottami si estendevano anche più sotto delle dette tombe ed a molta profondità; ciò che dimostra che fu solo in grazia delle avvenute rovine, che la chiesa si trovò così sepolta al di sotto dell'originale livello del suolo" (91).
Si rileva infatti dagli atti di visita da S. Carlo Borromeo in poi, che dal sagrato si discendeva al piano della chiesa per parecchi gradini.
Anche chi stende questi appunti ricorda che da ragazzetto, quando si andava il 3 febbraio, giorno della festa di S. Biagio, ad assistere alla Messa in canto e a baciare le candele benedette, venendo con altri da S. Feriolo, si imboccava la via che conduceva al castello; ad un dato punto si svoltava a sinistra, e attraverso la villa Mantovani, dal sagrato, dove in quel giorno, se il tempo era favorevole e non troppo rigido, non mancava qualche bancarella con dolciumi, si scendeva in chiesa.
Il sagrato venne di poi abbassato, e l'antico accesso frontale di ponente venne sistemato con uno stretto passaggio, togliendo quello attraverso la villa (92).
Orbene, se si accetta la data del 1222, come la meno incerta, del diroccamento del castello e annesse costruzioni, e che parte delle macerie finirono realmente, come afferma il Mantovani, addossate alla chiesa da ponente e da settentrione, si deve ammettere che le aggiunte, dal Reggiori attribuite al 1231, dovevano esistere già prima. Non si può seminterrare ciò che ancora non esiste. A meno che si ponga la distruzione del castello nel 1274 come scrissero i due Cantù: data che non possiamo controllare non avendo potuto rintracciare donde la ricavarono.
Ma se le cose stanno come veniamo esponendo, a chi allora attribuire quell'ingrandimento anteriore al 1222? Non è possibile accertare.
A Galdino? o forse meglio ad Algiso?... I più propenderebbero per quest'ultimo. E non a torto, qualora si voglia tenere in qualche considerazione quella più che malsicura epigrafe, in mancanza di altri dati disponibili, interpretando il construxit nel senso di una quasi ricostruzione come lo fu in realtà, e che successivamente nel 1231 la chiesa, uscita alquanto danneggiata coll'abbattimento del castello, andò soggetta a riparazioni, e tra l'altro in quella circostanza sia stata sistemata la facciata con un distinto portale, e probabilmente provvista di una robusta torre campanaria.
Il Barelli ha opinato che "probabilmente (quella porta), fu fatta costruire dai canonici quivi stabilitisi dopo la distruzione del castello, nel cui recinto trovasi la chiesa, che fu nel 1222" (93).
Come ognun vede, siamo di fronte a sole supposizioni più o meno persuasive: di veramente certo ben poco o nulla si può asserire.


Portale della Canonica di San Salvatore (secolo XIII)

***

La vetusta chiesa da S. Carlo in poi andò soggetta ad altri ritocchi e piccole aggiunte, le quali, per fortuna, non la sciuparono completamente, in base ai decreti arcivescovili e alle necessità del culto, ed eseguite secondo il gusto d'arte corrente in quei secoli (apertura di nuove finestre rettangolari e chiusura delle romaniche; ossario collocato verso settentrione a ridosso del presbiterio e di poi sgombrato e ridotto a più comoda sagrestia; imbiancamenti alle pareti interne; abbassamento del sagrato, ecc.), come si ricava dagli atti delle visite pastorali, e dagli opportuni schizzi del Reggiori intercalati nel suo scritto.
In tale stato, mal ridotta dal tempo e dagli uomini, giunse fino a noi. Rimane ciò nonostante, nel suo insieme, uno dei monumenti più interessanti della Brianza, e dà rinomanza a Barzanò.
Riferisce il Reggiori che il sacro edificio è proprietà del comune. Dagli atti delle visite pastorali, fin dal tempo di S. Carlo, risulterebbe di proprietà ecclesiastica: tutte le riparazioni dell'edificio, le provviste dei paramenti, ecc., erano a carico dei beneficiati.
In una visita vicariale del 1688 si dice che S. Salvatore necessitava di riparazioni alle quali dovevano concorrere i beneficiati: "Fiat verbum cum D. D. Superioribus de necessariis reparationibus huius Oratorii ad quos concurrere debent omnes beneficiati in hoc Oratorio qui sunt: Alexander Cola, Federicus Pusterla, Io. Battista Isella. Item titulus vacans per obitum Io. Angelo Pirovano qui vivens celebrabat Missas duas in ebdomada nomine suprascripti Alex. Cola". Si trattava di benefici semplici, i cui titolari dimoravano per lo più altrove. E così pure in un atto del 2 luglio 1792 (A. S. M., Fondo Religione, 1265).
La stessa autorità civile durante la successiva dominazione napoleonica la riconobbe sussidiaria della parrocchiale di S. Vito (94).
D'altra parte neppure risulta che i Pirovano od altri avanzassero diritti o pretese di patronato sopra la chiesa. Di antico patronato Pirovano si ha soltanto la cappellania di S. Biagio.


CAPITOLO SESTO

IL FONTE BATTESIMALE

Il rendere, come si è visto, ben più ampia l'originaria chiesuola, con particolare cupola centrale, doveva necessariamente avere uno scopo. E questo, ben osserva il Reggiori, era di ridurla capace ed idonea per collocarvi una vasca battesimale e per sistemarvi una collegiata. Ciò escluderebbe l'esistenza di un anteriore battistero lì vicino. Infatti, di un precedente battistero non vi è rimasta traccia o memoria qualsiasi.
Che siasi prima eretto il fonte battesimale e dopo la collegiata o viceversa, oppure l'uno e l'altra presso a poco nello stesso tempo, lo si ignora.
L'ordinaria amministrazione del battesimo anticamente spettava alla chiesa plebana, e tale diritto vigeva ancora nelle campagne durante la prima metà del secolo XIII.
Le pievi (non i vicariati foranei, eretti assai più tardi, i quali sono un diverso istituto ecclesiastico con altra finalità), furono le primitive parrocchie rurali. L'unico parroco era l'arciprete, detto poi prevosto, coadiuvato dai canonici e dai cappellani, e l'unica chiesa parrocchiale era la plebana, per cui anche Barzanò doveva dipendere da Missaglia.
La personale convinzione che il castello e la chiesa fossero di origine longobarda, e che la presente vasca battesimale risalisse a quell'epoca, indusse il Mantovani ad assegnare a Barzanò l'ufficio di capoluogo plebano, e alla chiesa del castello quello di matrice battesimale della pieve di Barzanò; pieve, ch'io sappia, mai esistita (95).
Similmente il Cappellini non dubitò di affermare che "poiché Barzanò fin dal mille fu sede di una chiesa pievana con fonte battesimale, si pensa che fosse stato capoluogo di un pagus", e che "la prepositurale di Barzanò, con il suo fonte battesimale, sia sorta prima del mille, quando la potenza dei fratelli Ugo e Berengario era ancora temuta" (96).
Io ritengo per certo che unica prepositura era in quei tempi la plebana di Missaglia, e che quella di Barzanò si formò più tardi, allorquando in S. Salvatore venne eretta la collegiata, il cui capo prese il titolo di prevosto, al pari delle altre consimili canoniche collegiate rurali. Sono perciò due prepositure sorte in epoca diversa, e giuridicamente di origini ben diverse.
Quella di Barzanò ebbe il privilegio di battezzare i nati del luogo, per cui sotto questo rapporto venne a godere di una certa quale indipendenza dalla plebana di Missaglia, pur continuando ad essere elencata civilmente ed ecclesiasticamente nella pieve di Missaglia.
Che poi Ugo e Berengario tenessero nel loro castello una chiesuola per il proprio servizio religioso, non vedo difficoltà ad ammetterlo. Ciò era anzi nell'uso delle grandi famiglie signorili di allora.
Meno facile, anche perché non abbiamo tracce o indizi di sorta, il supporvi lì presso in quegli anni un fonte battesimale, e tanto meno nella piccola chiesetta originaria, poiché, tra l'altro, avrebbe notevolmente ridotta la già poca capienza disponibile, trattandosi infatti di un oratorietto a forma quadrata basilicale.
D'altro canto, elementi, benché tuttora incerti, indicherebbero il fonte collocato più tardi. Lo si potrebbe altresì desumere, a parer mio, anche dallo stesso pregevole materiale col quale venne costruita la vasca, a differenza di altri più antichi battisteri.
Più grande, più rozza, più antica si presentava, ad esempio, quella di Missaglia presso la plebana di S. Vittore, situata in apposito edificio dedicato a S. Giovanni Battista. Quel battistero al tempo di S. Carlo aveva un altare con annessa una cappellania Pirovano.
La vasca era formata di piotte, ossia di lastre di pietra ben stuccate, e rialzata da terra circa un braccio con uno scalino nel mezzo; misurava una circonferenza di circa 12 braccia (97), e cioè il doppio di quella di S. Salvatore. Nel 1577 si ha che "Baptisterium novum in antiquo factum est", ossia ridotto secondo le nuove regole prescritte.
Il Leonetto nel 1567 lasciò scritto che nel mezzo della chiesa di S. Salvatore "adest fons seu Baptisterium antiquum prisco more fabricatum marmoris rubri seu porfirii, rotundum tabulis novis coopertum cum veste parva ferrea... Suprascriptum vero Baptisterium quod est in medio ecclesiae non est in usu, sed in eo tamen alias chrismatum fuit per episcopum qui retroacta tempora ad hanc accessit ecclesiam" (98).
Chi poteva essere quel supposto vescovo?... Algiso?... Non è facile precisarlo. Se realmente ci fosse stata qualche tradizione, il Leonetto, così diligente nelle relazioni delle sue visite, si sarebbe probabilmente espresso diversamente, o comunque di essa non sarebbe mancato qualche cenno nelle carte delle visite arcivescovili e vicariali.
Come che sia, non si può fare a meno di richiamare che il privilegio di un battistero in luogo, derogando alla prassi allora vigente, la quale prescriveva l'ordinaria amministrazione del battesimo presso la plebana, indicherebbe l'interessamento o l'intervento personale di un arcivescovo di Milano, ovvero di una graziosa concessione della Santa Sede alla nobile famiglia signora del castello. Chi poteva essere quella famiglia non si conosce. Forse i Pirovano? Potrebbe darsi: per sé non è inverosimile. Non saprei anzi d'altra parte, dati i tempi, il luogo, e le circostanze, indicarne altra più conveniente. Ad ogni modo finora nulla di certo. Si tira ad indovinare.
Il Reggiori lo vorrebbe invece posto non prima del 1231, ossia dopo la morte di Algiso e Oberto Pirovano, sia perché non vi è memoria per i tempi anteriori, e sia perché "un elemento prezioso per la datazione è tuttavia fornito dalla base delle colonnine tuttora in posto: le modanature e la presenza delle caratteristiche unghie agli angoli fanno pensare al secolo XIII.
Sembra quindi verosimile che il fonte stesso venne costruito contemporaneamente alla inserzione della cupola" (99).

Fonte battesimale nella Canonica di San Salvatore (secolo VIII)

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Che il fonte sia stato collocato contemporaneamente, o poco dopo l'erezione della cupola lo riterrei anch'io quasi per certo. Inclino tuttavia a dissentire riguardo al tempo.
La cupola, e di conseguenza la sottostante vasca battesimale, sono infatti da porsi in relazione all'ampliamento della chiesa; ingrandimento fatto sia pure in un anno che non è possibile precisare con certezza, ma ad ogni modo prima del diroccamento del castello che dicesi avvenuto nel 1222.
Riguardo alle unghie delle colonnine nulla si oppone a che possano rimontare all'ultimo quarto del secolo XII oppure al secolo seguente, poiché anche al dire del Cappellini le colonnine non sembrano risultare un tutt'uno col fonte.
Osserva ancora il Reggiori: "È indubbio che il fonte stesso fosse, in origine, posto proprio sotto il sistema cupiliforme, nel mezzo dell'oratorio. La vasca fu poi trasferita più all'innanzi, precisamente sotto l'arco tra la prima e la seconda campata, allorquando ampliandosi il presbiterio sopra elevato, lo spazio utile veniva a mancare.
Il condotto di emissione risulta otturato, riprova dell'avvenuto spostamento" (100).
La ragione di questo successivo prolungamento in avanti del presbiterio, e quindi del fonte, propendo a ravvisarla nel fatto che, essendo aumentato il numero dei canonici per via di lasciti, si impose la necessità di procurare loro uno spazio sufficiente per celebrare in comune le prescritte funzioni canonicali. Quando sia avvenuto questo spostamento non è possibile saperlo. Nel secolo XIV?... Forse. Infatti nel 1398, senza contare il sacerdote addetto alla cappellania di S. Biagio, i canonici col prevosto raggiungevano il numero di dieci (101).
Non è improbabile che, contemporaneamente all'ampliamento del presbiterio o poco dopo, siano stati eseguiti gli affreschi del secondo ciclo, che il Reggiori pensa non anteriori alla seconda metà del secolo XIV.
Il dubbio del Reggiori che la vasca originale possa essere stata rinnovata in epoca più tarda, non ha fondamento in alcuna memoria o indizio; d'altra parte il Leonetto ha precisato che la vasca o fonte era "antiquum prisco more fabricatum".

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I nostri vecchi battisteri plebani (Agliate, Mariano, Missaglia, Oggiono, ecc.) sono stati eretti vicino alla propria chiesa, e ordinariamente dedicati a S. Giovanni Battista (102).
Poiché nei secoli antichi il battesimo veniva ordinariamente amministrato per immersione a persone già di una certa età, sia pure di non molti anni, tranne i casi di necessità, si richiedeva un'ampia vasca per i battezzandi. La vasca di forma rotonda, con i relativi gradini per scendere in essa e risalire, si prestava meglio di ogni altra, per cui si rendeva necessario un apposito edificio a forma circolare od ottagonale, o magari nonagonale come ad Agliate. Invece per Barzanò si è utilizzata la chiesa di S. Salvatore, e veramente chiesa con tanto di campanile, collocando sotto il cupolino una vasca di forma ottagonale, composta di lastre di marmo rosso-scuro venato in bianco e giallo, avente all'ingiro otto colonnette di marmo bianco, le quali (forse posteriormente aggiunte) servivano a sostenere una specie di baldacchino che copriva il fonte. Vi si ascendeva per un gradino e vi si discendeva per due nella vasca stessa. La vasca era sopraelevata dal suolo con un gradino circolare sporgente di servizio (103).
Perché il fonte venne collocato in chiesa e non in un apposito edificio battesimale lì vicino? Forse come ripiego migliore, data la pendenza collinare del terreno?... Difficile leggere nel cervello degli altri.
Comunque, un caso simile al nostro, di chiesa avente nel mezzo il battistero, l'abbiamo nella vetusta chiesa di S. Maria del Tiglio in Gravedona sul lago di Como. Del resto, senza andare tanto lontano, il padre Leonetto, nella sua visita del 21 ottobre 1567 a S. Vittore di Brianza, nota che nella chiesa di Bestetto vi era "quoddam baptisterium antiquum".

Cristo benedicente - San Salvatore (inizio secolo XI)

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La vasca corse pericolo di essere tolta per ordine di S. Carlo, in seguito alla sua visita del 20 agosto 1571.
Concedeva infatti (ma non è difficile comprendere che, anziché di una richiesta fatta, si trattava quasi di un comando) che fosse levata e venduta con intervento del vicario foraneo, non però ad uso profano, ed il ricavo fosse usato per le riparazioni della chiesa; ordine più chiaramente e perentoriamente espresso nei decreti della seconda visita pastorale del 1583: "Locus baptisteri adaequatur pavimento et tollatur vas" (104).
Come non c'è serio motivo per sospettare la costruzione di una nuova basilica presso S. Salvatore, riducendo questo ultimo a semplice battistero, così non c'è ragione di pensare ad un preesistente edificio battesimale presso la chiesa di S. Salvatore e già ridotto in macerie al tempo di S. Carlo, interpretando erroneamente, a mio avviso, un ordine del 1571 del santo arcivescovo (105).
Ed invero, se quel decreto, redatto in modo alquanto oscuro (106), lo raffrontiamo con altri di precedenti e susseguenti visite, comprese le vicariali, troviamo che in essi non solo manca qualsiasi accenno ad un battistero lì vicino ridotto in macerie, ma che il sospettato esterno ipotetico battistero corrisponde al battistero o vasca battesimale situata nella chiesa, e che S. Carlo voleva fosse tolta e venduta, perché inutile, ingombrante, altro ormai che pietre mischie (107).
In una visita vicariale del 1596 si nota che" il luogo del battistero non era ancora demolito ", ossia che il fonte continuava a rimanere al suo posto.
Il Leonetto, e quindi prima della visita di S. Carlo, mentre pone attenzione nella sua accurata visita ad altre minuzie, non fa parola di un antico edifizio battesimale crollato, e ridotto ad un ammasso di pietre mischie. Un oggetto di così notevole importanza non gli sarebbe certamente sfuggito, tanto più che la presenza di quelle supposte pietre non poteva fare a meno di mantenere in luogo qualche ricordo.
Le prescrizioni di S. Carlo riguardanti la vasca battesimale rimasero lettera morta, o perché i canonici non vollero o non si curarono di disfarsene, o fors'anche per mancanza di acquirenti, poiché simili grandi sacre vasche, col nuovo ordinamento parrocchiale imposto dal Concilio di Trento, erano fuori uso. Anche a Barzanò già da tempo si battezzava nella parrocchiale di S. Vito.
Fatto sta che rimase al suo posto, e Federico Borromeo, nei suoi decreti di visita del 1611, volle che fosse rimessa in ordine e conservata quale preziosa testimonianza del passato.
Sfortunatamente ebbe invece esecuzione un altro decreto di S. Carlo, e cioè che si aprissero grandi finestre "alla moderna" nelle pareti della chiesa, in luogo delle antiche, con ferrata e stamigna, così da procurare maggior luce all'interno.
Volle inoltre il santo arcivescovo che fossero otturate le vecchie finestre della facciata, e fosse tolto il palco o tribuna addossata internamente al muro della facciata stessa, sulla quale ascendevano i fedeli per assistere alle funzioni, data la piccolezza della chiesa.

CAPITOLO SETTIMO

LA COLLEGIATA O CANONICA

Il Mantovani dopo aver detto che la collegiata "sembra essere stata istituita dal 1300 al 1400", ossia molti anni dopo la distruzione del castello, più avanti, quasi contraddicendosi soggiunge col Dozio: "Si ignora chi ne fosse il fondatore, ma ben si potrebbe attribuire, senza far onta alla storia, all'arcivescovo Algiso Pirovano verso l'anno 1180". E continua a dire col Dozio: "Certo è che antichissimi ricordi delle carte lo fanno credere (il Capitolo) un patronato della famiglia Pirovano, la quale aveva nella chiesa due sepolcri gentilizi, e fin dal secolo XIV fruiva di un annuo canone livellario di lire imperiali 172 per la celebrazione di una messa festiva; il quale livello era sopra campi dopo la torre (post turrem) e vigne e selve per il totale di cento pertiche circa." (108) (Dozio, manoscr.)
Si vedrà più avanti che c'è di vero o meno in queste asserzioni del Dozio.
Fra coloro che si occuparono delle vicende del nostro S. Salvatore, alcuni attribuirono la fondazione della collegiata all'arcivescovo Algiso, appoggiandosi ad una notizia accennata dal Sirtori nei suoi manoscritti e ricordata dal Dozio, ma della quale non ho trovato traccia in scrittori anteriori (109); altri invece la vorrebbero stabilita, dopo la distruzione del castello, in uno col fonte battesimale (Reggiori ed altri).
In realtà, come non è possibile precisare, in base alle attuali conoscenze documentarie, quando e da chi furono eretti il castello e la chiesa, quando e da chi fu posta la vasca battesimale, è altrettanto impossibile accertare quando e da chi fu fondata la collegiata o canonica. Tutte le carte riguardanti la collegiata e conservate presso di essa andarono disperse, né più fu possibile rintracciarle, nonostante gli ordini di S. Carlo e di Federico Borromeo.
Tuttavia, volendosi attribuire ad Algiso l'ampliamento della chiesa col cupolino, non mi sembra cosa strana l'assegnare ad Algiso stesso l'erezione del fonte battesimale e della collegiata. Si tenga però presente che l'unico elemento sul quale ci si appoggia è la solita malsicura epigrafe del Bombognini. Comunque i canonici ebbero le loro abitazioni presso la chiesa, occupando la parte orientale dell'ampio recinto castellano.

Madonna con Bambino - San Salvatore (inizio secolo XI)

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Il primo sicuro accenno dell'esistenza della nostra collegiata lo si ricava dal più volte citato Liber Notitiae ecc.: nell'elenco delle canoniche foresi vi è numerata quella di Barzanò.
Ma poiché il Liber, di ignoto compilatore vissuto tra lo scorcio del secolo XIII e i primi del seguente, si basa in gran parte su schede, ora smarrite, di Goffredo da Bussero (morto nel 1289) il quale scriveva verso la metà circa del secolo XIII, ci fa ritenere la nostra collegiata già esistente, per lo meno, nella prima metà di quel secolo, e probabilmente eretta nell'ultimo quarto del secolo XII (110).

***

Di quanti canonici constava in origine la nostra collegiata? Non è possibile saperlo. Conosciamo solo che nel 1398 vi erano dieci canonici compreso il prevosto, dei quali quattro della parentela Pirovano, più un cappellano addetto alla cappellania di San Biagio.
Nel 1336 occupava la carica di prevosto un Francesco de Crepa (111), il quale era nel medesimo tempo canonico di S. Vittore in Missaglia.
Il 6 dicembre 1363 venne concessa dall'arcivescovo Pusterla al prevosto di S. Salvatore la facoltà di assolvere dalla scomunica, in cui erano incorse la badessa e le monache del monastero di S. Pietro in Cremella per una sanguinosa baruffa insorta fra di loro (non so dire per quale motivo), e per aver abbandonato il monastero (probabilmente la parte soccombente) (112).
Sul finire del secolo XIV, e precisamente nel 1398, la nostra canonica è così descritta e tassata (113):

"D. Prepositus dicte canonice: L. 2 - S. 15 - D. 11
Pbr. Guglielmus de Pirovano: L. 1 - S. 2 - D. 5
Petrus de Silva: L. 1 - S. 2 - D. 5
Iohannes de Pegiis: L. 1 - S. 13 - D. 7
Antonius de Pirovano: L. - S. 13 - D. 3
Pbr. Guido de Pirovano: L. 1 - S. 2 - D. 5
Pbr. Filippus de Pirovano: L. 1 - S. 2 - D. 5
Pbr. Iacobus Boninus: L. 3 - S. 6 - D. 6
Pbr. Antonius de Aquate: L. 2 - S. 4 - D. 9
Iohannes de Rovagnate: L. 2 - S. 4 - D. 9
Cappellanus S. Blaxi de Barzanore: L. 3 - S. 7 - D. 2"
La lira imperiale si divideva in 20 soldi, ed il soldo equivaleva a 12 denari.
Non tutti i canonici erano sacerdoti, ma alcuni soltanto iniziati agli ordini minori.
I benefici di maggior reddito risulterebbero quello della cappellania di S. Biagio, e l'altro del canonico Bonino.
Benché rechi già in sé i germi della decadenza dell'antico ordinamento ecclesiastico rurale comunitario, germi che andranno sempre più sviluppandosi fino allo sfasciamento totale, tuttavia sono forse questi gli anni in cui la nostra collegiata col suo battistero segna esteriormente il suo maggiore splendore, e che per riflesso doveva dare una certa quale importanza al paese di Barzanò.
Troviamo infatti nel primo quarto del secolo seguente (XV) Barzanò sede del Capitano della Martesana e del suo Vicario, e più tardi talvolta del Vicario del Monte di Brianza.
Nell'Estimo del Monte di Brianza del 1456 si ha (114):

"Prepositura de Barzanore pro bonis que habet in
Barzanore et alibi cum suis massarijs et fictabilibus: L. - S. - D. 6

Presbiter Bernardus de Paravixino pro canonicatu
de Barzanore cum suis ut supra soldum unum
denarios tres: L. - S. 1 - D. 3

Canonicus de Mandrixio pro bonis que habet in
Barzanore et la Zerbina cum suis ut supra soldum
unum denarios tres: L. - S. 1 - D. 3

Presbiter Petrus de Dolzago pro canonicatu de
Barzanore pro bonis que habet in Barzanore et
Torexela cum suis ut supra denarios sex: L. - S. - D. 6

Iacobus de la Canali pro canonicatu de Barzanore
pro bonis que habet in Barzanore et Castelacio
cum suis ut supra soldum unum denarios sex: L. - S. 1 - D. 6

Presbiter Petrus de Madio pro canonicatu de
Barzanore et Torexela cum suis ut supra soldum
unum: L. - S. 1 - D.
D. Prepositus Ugloni pro canonicatu de Barzanore
pro bonis que habet in Barzanore sive Gambareria
cum suis ut supra denarios sex: L. - S. - D. 6

Capela sancti Blaxij de Barzanore pro bonis que
habet in Barzanore, Prebono et Sirturi cum suis
ut supra soldum unum denarios sex: L. - S. 1 - D. 6"

Qui vediamo il prevosto della collegiata plebana di Oggiono il quale fruiva nello stesso tempo di un canonicato in Barzanò. Similmente veniamo a conoscere che il canonico Bernardo de Paravicino era investito di un altro canonicato in Oggiono.
Prevosto di San Salvatore era in quell'anno Bartolomeo Riva del fu Marco, come da un atto rogato in Milano il 20 novembre 1456, col quale si obbligava a pagare per la Pasqua veniente a Raffaele Taverna del fu Francesco di Milano quattro ducati d'oro ricevuti a prestito.
Due anni dopo troviamo prevosto un certo Pietro Riva, rettore di S. Michele della Chiusa in Milano, cappellano dei SS. Cosma e Damiano in S. Lorenzo Maggiore di Milano, mazzacanonico della chiesa maggiore di Milano, canonico delle chiese di S. Giovanni in Asso e di S. Vittore in Missaglia, il quale mette se stesso, i suoi beni ed i suoi benefici sotto la protezione e la difesa della Santa Sede, dovendo recarsi a Roma. Atto rogato in Milano il 20 luglio 1458 (115).
Il cumulo in una stessa persona di benefici canonicali nelle diverse collegiate della diocesi è una prova, tra le molte, del progressivo dissolversi dell'antica vita canonica del clero, e contemporaneamente della grave situazione in cui venivano a trovarsi i beni ecclesiastici, per cui molti finirono ad essere usurpati da privati, né fu possibile in seguito recuperarli, nonostante gli sforzi di San Carlo e di Federico Borromeo.
Siamo in un periodo di continuo generale decadimento chiesastico nei suoi molteplici aspetti, da rendere necessaria una riforma, e lo sarà col Concilio di Trento.
In prosieguo di tempo si ha nel 1509 prevosto un Ambrogio Boltraffio dottore in ambe le leggi.
Nel 1538 un canonico di S. Salvatore, Cristoforo Panigarola, era rettore della chiesa di Dolzago.
L'arcivescovo Gio. Angelo Arcimboldi vi nominava nel 1555 prevosto Guido Biraghi, e nel 1556 il Pontefice Paolo III confermava canonico un Ottavio Cittadino.
Al tempo di S. Carlo la nostra collegiata si era ridotta a cinque canonici più il prevosto, con due cappellanie, e cioè l'antica di S. Biagio e un'altra più recente detta di S. Vittore ossia di S. Salvatore, come dal seguente prospetto.
Nel Liber Seminari Mediolanensis del 1564 compilato per fissare una tassa sui singoli benefici ecclesiastici in favore dell'erigendo seminario diocesano, esclusi quelli inferiori a 50 scudi di valore, alla canonica di Barzanò venne imposto:

"P. P.ra de Barzanore de d.no Guido Birago: L. 1 - S. 13 - D. 3
Canonicato de d.no Francesco da Pirovano: L. 2 - S. 8 - D.
Canonicato de d.no Battista Caponagho: L. 2 - S. 6 - D. 5
Canonicato de d.no Ambrosio da Corte: L. 1 - S. 16 - D.
Canonicato de d.no Franco Bernardino
da Nava: L. 6 - S. - D.
Canonicato de d.no Iulio Simonetta: L. 8 - S. - D.
Capella de Sancto Blasio ut supra de d.no
Io. Antonio Pirovano: L. 5 - S. - D.
Capella de Sancto Vittore seu Salvatore
de d.no Francesco Pirovano: L. 5 - S. 12 - D."

Quest'ultima cappellania era costituita da una rendita di lire 172 imperiali livellate sopra terreni di oltre cento pertiche coll'onere di una messa festiva all'altar maggiore.
Non ho trovato l'atto di fondazione, ma è da ritenersi assai posteriore a quella di S. Biagio. Il Mantovani, tratto in errore da uno scritto del Dozio, la ritenne in atto fino dal secolo XIV (116). Ciò, a mio modo di vedere, non può essere perché non vi è cenno nell'estimo del 1398 e nemmeno in quello del 1456, mentre vi troviamo tassata quella di S. Biagio. La incontreremo invece tassata nel 1564.
Al fisco ben difficilmente si sfugge in tutti i tempi.
Altrettanto non sembra rispondere a verità il dire che antichissimi ricordi delle carte farebbero credere il Capitolo, ossia la Collegiata, un patronato della famiglia Pirovano.
Dagli atti e dalle carte delle visite pastorali non risulta lungo i secoli un patronato qualsiasi, e nemmeno mi fu dato riscontrare che i Pirovano avanzassero diritti o pretese in merito sulla chiesa o sul Capitolo, all'infuori che per la cappellania di S. Biagio.

***

S. Carlo, che visitò la pieve di Missaglia nel 1571 e nel 1583, cercò energicamente di rimettere in sesto la nostra collegiata. Impose contribuzioni e penalità pecunarie ai canonici onde avessero a riparare la chiesa, a farvi residenza, e a celebrare a tempo debito le prescritte funzioni canonicali, ma tutto fu inutile.
Si era ridotta in tale stato che più non fu possibile ripristinarla.
Perciò, anni dopo, Federico Borromeo prese la decisione di assegnare alla parrocchia di Lomagna il beneficio prepositurale (117), ed altri beni canonicali alla collegiata di Santa Maria Pedone in Milano, riducendo gli altri canonicati a semplici benefici personali goduti da titolari per lo più non residenti, detti talora canonicati in carte posteriori per antica consuetudine, ma che in sostanza nulla più avevano a che fare con la collegiata.
Il 17 dicembre 1630, con la morte dell'investito Giovanni Maria Bonomi i beni di quel canonicato furono incorporati nella mensa arcivescovile.
Le canoniche rurali, coll'evolversi dei tempi, erano divenute più di danno che di vantaggio alle popolazioni, per cui non poche furono soppresse da S. Carlo e da Federico Borromeo, e le relative rendite applicate a chiese bisognose.
Rimase la cappellania di S. Biagio della quale non si conosceva l'atto di fondazione, dichiarato smarrito già fin dal 1445. Dotata di un beneficio di circa trecento pertiche, comportava l'obbligo di due messe settimanali e la residenza del titolare.
Questa cappellania durò a lungo sia perché dotata di beni stabili, e sia perché i Pirovano discendenti dal fondatore ci tenevano al loro diritto di patronato e alla loro cappellania. Infatti ancor nel 1833 la nomina del titolare sac. Giuseppe Pirovano venne fatta da parecchi stipiti Pirovano (118).
Non mancavano talora disordini fra i canonici di San Salvatore, come del resto in altre collegiate di allora (119). Così quando, ad esempio, il prete Gaspare Pirovano ed il prete Battista Ripamonti si presero ad archibugiate, rimanendo ucciso il Ripamonti e l'altro condannato alla galera (120). Fatti che si inquadrano nelle condizioni politiche, sociali e religiose di quel tempo.
Ultimo prevosto di San Salvatore sarebbe stato un Claudio Mandello. Costui affermò che la canonica constava di un prevosto e di cinque canonici, che la prepositura era semplice beneficio personale, e non aveva annesso nessun obbligo.
Questa asserzione non ci pare del tutto conforme a verità. La disciplina canonica importava il dovere della residenza e della recita in comune delle ore canoniche. Diversamente bisognerebbe negare che nel passato ci sia stata a Barzanò una vera collegiata. Fondare una canonica senza alcun onere rispettivo non è ecclesiasticamente concepibile. E certamente non era così nell'atto di fondazione.
Che al tempo del Mandello la nostra collegiata fosse totalmente sfasciata e ridotta in ben miserevole stato, basti a confermarlo la lettura di questo monitorio emanato nel 1611 da Federico Borromeo:
"Nella nostra visita pastorale dell'antica Collegiata del Santo Salvatore di Barzanò (121) abbiamo trovato per la negligenza dei popoli e del prevosto, canonici et cappellani di detta chiesa, esser col suo campanile rovinata, le case per l'habitazione dei Beneficiati parte destructe et parte ridotte a usi sordidi et parte occupate; il pavimento poi della chiesa, già fabricato di marmi di vari colori, disfatto, et levate di chiesa le tavole di marmo con i legnami del soffitto et tetto; li beni de quali questa chiesa era competentemente dotata, et loro instrumenti, scritture et ragioni usurpati et occultati; l'istesse terre et beni per mala versatione de fittavoli et massari et lavoratori deteriorate con averne estirpato et condotto fuori le piante di noci, castagne, moroni et altre fruttifere, convertendole in proprio uso; et altri finalmente con l'impedir direttamente con bravarìe et minaccie che non si potesse provare l'identità de beni, et con traspiantare i termini de confini et coherenze haverli congionti ai loro beni laicali, facendoli poi descrivere nelli libri de perticati rurali et civili come propri loro. Il che si è commesso et si commette in danno evidentissimo et ingiuria della chiesa et in perditione delle anime delli usurpatori et occultatori. Et se ben noi per mezzo dei nostri ministri non abbiamo mancato d'ogni diligenza per scuoprire la chiarezza, nondimeno ancora resta oscura.
Né essendovi altro modo né rimedio per aver notizia di questi tali se non col mezzo delle censure ecclesiastiche, habbiamo pensato esser debito dell'officio nostro pastorale, specialmente in questa visita, di fare il presente ordine col quale comandiamo espressamente..." (122).
Ordina che tale monitorio sia letto nella chiesa parrocchiale dal parroco, o da altri in sua vece, durante la messa di maggior concorso per tre feste correnti successive, e copia di esso sia affissa alla porta della chiesa, ed un'altra esposta nella pubblica piazza del paese; e prescrivendo che ciascuno debba fedelmente nel termine di nove giorni, dopo l'ultima pubblicazione restituire o notificare quanto ha usurpato di beni mobili o immobili della collegiata sotto pena di scomunica.
Il decreto, con firma autografa di Federico Borromeo, è datato 19 luglio 1611.
Il parroco eseguì quanto ordinato. Ma quale esito abbia praticamente avuto il monitorio, non so. Che il cardinale sia pienamente riuscito nel suo intento è lecito dubitarne. L'auri sacra fames o il Dio dell'oro del mondo signore, sotto forme diverse, è di tutti i tempi.
Oggi, degli annessi benefici canonicali, cappellanie, e legati non resta che il ricordo. Purtroppo in questo mondo nulla è eterno. Ed anche le pie e benefiche fondazioni, che dovrebbero durare in perpetuo secondo le volontà dei testatori, ad un certo momento, lungo i secoli per circostanze diverse (usurpazioni, soppressioni, trasformazioni, svalutazioni monetarie), cessano di esistere. Tutto è in balìa del tempo: gli astri, gli abissi, i secoli, l'albe e i tramonti, il vivere e il morir.

CAPITOLO OTTAVO

LA PARROCCHIALE DI SAN VITO

Premesso che l'estensione territoriale della parrocchia di Barzanò fu sempre pari a quella del comune (343 ettari), dobbiamo subito osservare che determinare il tempo nel quale vi sorse una prima chiesuola vicana, se nel periodo prelongobardo, ovvero più tardi, non è possibile, per mancanza di documenti.
Il Dozio avrebbe pensato al secolo XI, ma lascia dubbiosi.
Benché infatti la chiesa battesimale plebana sia stata la primitiva parrocchia rurale di tutto il suo distretto e per Barzanò quello di Missaglia, nondimeno dopo che le popolazioni della Brianza abbracciarono il cristianesimo non sarà mancata in Barzanò, prima dell'XI secolo, come avvenne del resto in tanti altri villaggi, qualche chiesuola non battesimale e senza sacerdote stabile nei primi tempi, costruita per privata devozione dagli abitanti del luogo e dedicata ai santi martiri Vito e Modesto, e fors'anche per seppellire lì presso i loro morti. Edificio sacro probabilmente anteriore a quello di S. Salvatore, poiché quest'ultimo accuserebbe un'origine signorile.
Se nei primordi i defunti venivano portati al centro plebano per i funerali e la sepoltura, in seguito, col sorgere di chiesuole vicane si incominciò a seppellirvi lì presso i defunti: solo per eccezione si dava talora la licenza di inumare i cadaveri nella chiesa stessa. Ogni villaggio prese in tal modo ad avere il suo cimitero o sagrato. È un profondo sentimento umano quello di avere vicini i propri defunti. Già nei secoli V e VI si hanno iscrizioni funerarie cristiane in villaggi discosti dal loro centro plebano (Agrate, Cortabio, Vaprio, Velate presso Varese, ecc.).
Qualche documento ci fa conoscere come fin dai secoli VIII e IX si usassero a suffragio dei defunti le luminarie, ossia, a quanto pare, lampade ad olio accese sulla tomba dei morti, e a questo scopo si donavano talvolta alle chiese, con lasciti testamentari, persino degli oliveti (123). Era ferma credenza di allora che il lume acceso valesse a refrigerio dei trapassati. Dal che si vede come l'usanza odierna di accendere lumi intorno ai cadaveri prima della loro sepoltura e sulle loro tombe nei cimiteri, specialmente nell'Ottavario dei defunti, affonda le sue origini in tempi lontanissimi, ancor prima del secolo VIII.
Le chiese vennero talmente moltiplicandosi lungo i secoli, che l'imperatore e re d'Italia Lotario nell'824 comandò che dove fossero più del bisogno si distruggessero. Là dove invece fossero necessarie e non avessero dote, volle che gli uomini liberi, i quali colà dovessero intervenire ai divini uffici, assegnassero un podere, detto manso, con due servi acciò vi potessero stare dei sacerdoti ad officiarle. Decretò inoltre che ciascuna chiesa battesimale plebana avesse i suoi confini ben determinati, e che ad essa fossero assegnati quei villaggi dai quali esigere le decime. Saggio decreto, osserva il Giulini, poiché in tal modo le rese non solo stabilmente sicure, ma ben anche precisate nel loro ambito territoriale e giurisdizionale, così che i governi civili, per comodità di pratica amministrativa, adottarono tale circoscrizione, mentre prima si usavano coi Longobardi le centene e le decanie come suddivisione dei territori e dei contadi.
L'anno prima lo stesso imperatore aveva inoltre, tra l'altro, imposto a ciascun vescovo che prima delle calende di ottobre del seguente anno avesse ad introdurre nel proprio clero, sia della cattedrale che delle pievi, la vita regolare canonica, e che a questo scopo vi si accomodassero le abitazioni. Ogni chiesa plebana doveva essere restaurata a spese del suo popolo. Ma poiché la vita canonica nel clero importava restrizioni, a stento fu qua e là abbracciata, e durò poco.
Dalla distruzione delle chiese ritenute superflue nacquero gravi inconvenienti, ai quali cercò di porre riparo Lodovico il Pio nell'829 (124).

Chiesa parrocchiale di San Vito

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Nell'ampliamento della chiesa eseguito nel 1833-34 non vi si trovarono che "sepolcreti sotterranei, e dal lato della casa parrocchiale, ove si aprì la terza nave, si rinvenne il fondamento di altro campanile, e due campate di navetta preesistente dall'altro lato verso nord, e così in detto anno venne ampliata la chiesa con tre navi e prolungata verso il levante, erigendosi presbiterio, coro, sacrestia di nuovo" (125).
Niente di straordinario in questi reperti: i sepolcreti corrispondono alle sepolture che già prima di S. Carlo si facevano non più nel sagrato ma nella chiesa stessa; i nobili e i ricchi in particolari sepolcri, gli altri nella gran fossa comune. Le due campate di navetta dal lato nord si riferiscono alle antiche cappelle di Maria Assunta e di S. Rocco.
Ignazio Cantù invece ha scritto: "Vuol anche essere notata in Barzanò, la parrocchiale di S. Vito, collocata alle falde della collina verso levante con facciata irregolare. Nella demolizione di una parte di questa chiesa furono trovate muraglie antiche cogli avanzi d'altre più antiche; inoltre muri di straordinaria grossezza sopra colonne di metà diametro. Perciò credesi che la chiesa attuale sia una terza ricostruzione. Anzi, che fosse già un tempio pagano lo farebbe supporre una lapide ivi trovata nel 1821 e dedicata a Giove Summano, dio dei fulmini notturni. Il campanile di questa chiesa pare del 1400 alla guglia piramidale in terracotta, somigliante a quelli di S. Gottardo e di S. Eustorgio in Milano" (126).
Che i ruderi murari riemersi in quella circostanza possano riferirsi a costruzioni precedenti, non c'è difficoltà ad ammetterlo; che poi in origine ci fosse in quel posto un edificio sacro al culto pagano non è inverosimile, ma non si tratta che di una congettura.
Comunque sia, dal fatto che nel 1821, in occasione di restauri alla cappella della Beata Vergine del Rosario, si scoperse un'ara romana la cui iscrizione fu letta per la prima volta dal Morcelli, prevosto di Chiari, che villeggiava in Barzanò col vescovo Nava, si volle dedurre che la chiesa di S. Vito sia stata in origine un delubro pagano, ridotto a culto cristiano. Anni dopo, e probabilmente al tempo del parroco Boldrini, su la facciata interna della chiesa si pose questa iscrizione:

D. O. M.
Templum hoc a prophano cultu olim vindicatum
S. M. Viti tutelari addictum
Anno MDCCCXXXIII amplificatum triplici arcu restitutum
Barzorienses inculae exornari curabant
Ad pietatis incrementum.

Ara di Feliciano Primo

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Il primo sicuro accenno di una chiesa dedicata a S. Vito in Barzanò resta tuttora, ch'io sappia quello del Liber Notitiae ecc. della fine del secolo XIII. Per i secoli precedenti non se ne sa niente. Da osservare che in quel codice, all'infuori di questa e dell'altra di S. Salvatore, non vi sono segnate nell'ambito della parrocchia, ossia nelle frazioni, altre chiesuole od oratori che invece troviamo ricordati nelle visite al tempo di S. Carlo.
Lungo il decorso degli anni gli abitanti dotarono la loro chiesa di lasciti e di legati. Nel 1398 vediamo tassata la "Cappella S. Vitti de Barzanore " in lire 3, soldi 7 e denari 2; e nel 1456 risulta che possedeva fondi in Barzanò, Viganò e Broncio (127).
Allorquando nelle carte dei secoli XIV e XV si trova l'espressione beneficialis et rector, riguardo a sacerdoti investiti di beneficio, si vuole già indicare una certa quale parrocchialità.Il nuovo spirito di libertà che aveva spinto i grandi Comuni L
ombardi a rivendicare la loro autonomia, contro le pretese imperiali germaniche, con la vittoria di Legnano (1176) e la pace di Costanza (1183), dalle città venne a poco a poco diffondendosi fra gli abitanti della campagna i quali si agitarono e pretesero dai loro signori maggiore libertà e diritti.
Dalle cose civili il passo era facile a quelle religiose per la loro stretta connessione che vigeva in quei tempi. A molti sacerdoti non riusciva piacevole il vivere obbligatoriamente in comune: vita restrittiva che cercavano di eludere.
L'autorità religiosa fece del suo meglio per richiamare ed inculcare l'obbligo della vita canonica nelle pievi, ma con scarso risultato.
Ad aggravare la situazione sopraggiunse il periodo rinascimentale che, per un complesso di ragioni politiche, sociali e religiose, produsse uno scadimento generale nella fede, nei costumi, e nella disciplina ecclesiastica.


Nelle nostre pievi prevosti e canonici ormai più non si curavano della residenza e della cura d'anime, preoccupati per lo più di accumulare possibilmente più benefici, mentre l'aumentata popolazione dei villaggi più non si sentiva di recarsi alla propria lontana plebana per il battesimo e le altre funzioni parrocchiali. Si pensi infatti, per citare un esempio, alla grande e scomoda lontananza degli abitanti sul Colle di Brianza e dintorni dalla loro plebana di Missaglia.
Per necessità di cose cappellani e canonici presero, a poco a poco, a risiedere presso le principali chiese dei villaggi e a funzionare parrocchialmente, divenendo rettori ossia praticamente parroci, finché il Concilio di Trento riconobbe anche giuridicamente il fatto compiuto per inarrestabile evoluzione.
E così avvenne anche a Barzanò. Fino a tanto che la collegiata col suo fonte battesimale si mantenne in efficienza, la vita religiosa di Barzanò si svolse presso la chiesa di S. Salvatore, e nel suo sagrato vi si seppellivano pure i morti, così d'avere di poi lì presso il suo ossario.
Col successivo disgregarsi della collegiata la cura d'anime venne a poco a poco esercitandosi presso la chiesa di S. Vito, chiesa vicana comunitaria, che nel 1398 troviamo già dotata di un discreto beneficio con un proprio sacerdote cappellano, forse già rettore, popolarmente eletto.
Il formarsi a poco a poco delle rettorie nei singoli paesi delle nostre pievi ambrosiane probabilmente dal secolo XIV inoltrato in poi, fece sì che, data la comodità e la facilità, si generalizzasse l'uso di amministrare nelle stesse parrocchiali in qualunque tempo e giorno il battesimo ai neonati, con l'immergere leggermente a forma di croce la testa del battezzando, tenuto supino fra le braccia, nell'acqua battesimale raccolta in un vaso di sasso o di metallo più largo che profondo, press'a poco come avviene oggidì, lasciando in abbandono le antiche vasche battesimali adatte per persone per lo meno già grandicelle.

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Quando S. Carlo fu creato arcivescovo di Milano nel 1560, e dal 1565 residente fino alla morte (4 novembre 1584), l'antica organizzazione plebana era ormai disciolta dappertutto lasciando confusione e disordine (128). Si battezzava persino nelle chiese dei monasteri, come a Brugora di Montesiro, Lambrugo, ecc.
Da oltre mezzo secolo la nostra diocesi più non vedeva i suoi arcivescovi: nominati si accontentavano di riscuotere le rendite delegando ad altri prelati, spesso forestieri, il governo della diocesi.
Col mal esempio che scendeva dall'alto, il clero e in modo particolare quello rurale lasciava molto a desiderare per istruzione e zelo, mentre il popolo vegetava nell'ignoranza e nella superstizione.
Molti beni delle chiese enfiteuticamente affittati o concessi in affitto perpetuamente livellati finirono usurpati o danneggiati; le chiese stesse trascurate, e più o meno mancanti del necessario al divin culto.
È peraltro l'epoca dei grandi santi, incominciando dal nostro S. Carlo Borromeo, suscitati da Dio a ristorare la sua Chiesa.

Crocifisso ligneo che la tradizione attribuisce a San Carlo

Nell'antico ordinamento ecclesiastico, chi s'incamminava alla vita ecclesiastica veniva preparato ed istruito presso la canonica plebana collegiata, e dal pievano riceveva non solo la tonsura, ma fino al 1149 anche gli ordini minori.
Nel successivo periodo di transizione tra la vecchia e la nuova disciplina tridentina, il clero nelle campagne si reclutava per lo più fra coloro che ordinariamente prestavano servizio presso le chiese. Donde l'urgenza da parte di S. Carlo di erigere innanzitutto il Seminario Diocesano per la formazione di un clero degno del suo nome.
Le rettorie si formarono pertanto nei villaggi per naturale e necessaria evoluzione in correlazione allo svolgersi della vita sociale e religiosa, dove prima e dove dopo, a seconda dell'importanza dei luoghi, della facilità o meno delle comunicazioni con la plebana, e dei mezzi economici al loro funzionamento.
Lo Stato della Chiesa milanese del 1466, pubblicato dal Mazzucchelli, segna già nella pieve di Missaglia, come nelle altre, l'esistenza di chiese parrocchiali o rettorie, per cui possiamo arguire che ne esistessero qua e là per lo meno fin dal secolo precedente.
La prima a costituirsi nella nostra pieve sembra sia stata quella di S. Vittore sul Colle di Brianza, data la lontananza e le difficoltà delle comunicazioni con Missaglia. Nella chiesa di S. Maria in Bestetto il padre Leonetto Clavone nel 1567 vi osservò infatti un antico battistero.
La chiesa plebana battesimale di S. Vittore in Missaglia e la non battesimale di S. Vittore sul Colle o Monte di Brianza potrebbero essere prelongobarde. La congettura per S. Vittore di Brianza avrebbe infatti del verosimile, se si vuol tener calcolo di una iscrizione reperta presso quella chiesa.
Il 21 ottobre 1567 giunse in Brianza il visitatore padre Leonetto Clavone. Tra l'altro venne fatto consapevole del ritrovamento del sepolcro di Merabaudo o Merobaudo con relativa epigrafe, la quale, secondo il referente, diceva:
"Hic Requiescit Merabaudus Dux qui Vixit in seculo de anno millesimo trigesimo primo".
Chi lo narrò al Leonetto o non seppe leggere bene quella iscrizione oppure riferì la cosa per sentito dire. Orbene, premesso che nella Martesana, e nel restante territorio milanese non è mai esistito né un duca, né un conte, né un signore rurale col nome di Merabaudo e tanto meno nel 1031 (129), possiamo lecitamente supporre che il lettore non deve aver compreso V C = vir clarissimus, né P M = plus minus. Delle due prime lettere fece un Dux, e delle altre due Anno M, forse anche perché la P era in parte corrosa.
Pertanto l'antica iscrizione si potrebbe così ricomporre:

HIC REQVIESCIT
MERABAVDVS
V. C. QVI VIXIT IN
SECVLO ANN. P M
XXXI

Essa ci dà modo di ritrovare qualche linea che l'Alciati non vide più, e corrisponderebbe a quella lasciataci dalla stesso Andrea Alciato e riportata dal Muratori e dal Mommsen (130).
A giudicare dal formulario non può essere anteriore al sec. IV né posteriore alla prima metà del VI. Questa iscrizione, che si riferisce ad un Merobaudo che potrebbe essere il generale romano sconfitto nel 383 dall'usurpatore Massimo e in quell'anno o poco dopo fatto morire dallo stesso Massimo e lassù sepolto, oppure qualche altro illustre personaggio di questa stirpe allora in auge, ci dà la ragione della celebrità che ha sempre circondato quel colle fin da remota antichità.
La primitiva chiesuola di S. Vittore di Brianza potrebbe così rimontare all'ultimo quarto del secolo IV o ai primi anni del seguente, e far sospettare delle interferenze con la lontana plebana di S. Vittore in Missaglia, della quale nonostante la grande lontananza e le non facili comunicazioni fece di poi parte.
Missaglia, o Massalia come si scriveva anticamente, deriva da massa, parola con la quale fin dal IV secolo si designava un latifondo tanto vasto da comprendere più centri abitati. In Missaglia non mancano ricordi romani ed è ritenuta tra le più antiche pievi briantine. Che il Colle di Brianza facesse allora parte del pago o vastissimo latifondo di Missaglia, latifondo forse di proprietà di un Merobaudo?... È una congettura: precisare con certezza non è possibile.

Altare laterale - San Carlo in preghiera

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Quando la chiesa di S. Vito, da semplice oratorio o cappella, divenne rettoria o parrocchia di fatto, non ci è dato di poterlo precisare.
Nel 1516, essendo duca di Milano Francesco I re di Francia, era stato eletto, con votazione popolare, rettore parroco Giovanni Maria Panzeri. Gli contrastò l'esito Pietro Caponago, suo competitore, il quale a mano armata cercò di opporsi a tale nomina, e a pretendere che i coloni del beneficio pagassero a lui l'affitto. La causa fu affidata al Capitano della Martesana e al suo vicario che riconobbe il buon diritto del Panzeri (131).
Perciò, se S. Vito era già rettorìa nel primo quarto del secolo XVI, si può ben ritenere che già lo fosse nel secolo precedente, tenuto calcolo del citato Stato della Chiesa milanese del 1466.
Ci è peraltro completamente ignoto del come la chiesa fosse costruita in origine, e a quali vicende andò soggetta nei secoli anteriori a S. Carlo.
È col padre gesuita Leonetto Clavone che abbiamo le più antiche informazioni. Quattro anni dopo seguiranno quelle di S. Carlo.
Il Leonetto che, come ben ricorderà il lettore, fu a Barzanò il 15 dicembre 1567, scrive che la chiesa, situata fuori dell'abitato, era ad un sol nave. Misurava quindici braccia in lunghezza e altrettante in larghezza. Il braccio equivaleva a metri 0,595: dal che si può arguire che aveva la capienza di un oratorio, del resto più che sufficiente per una popolazione che complessivamente non raggiungeva le 500 anime. Scarsità demografica in quei tempi comune a tutti i nostri paesi.
Conteneva tre altari sotto le rispettive cappelle a volta ed elevate dal pavimento della chiesa mediante un gradino.
L'altar maggiore, con predella, aveva un tabernacolo di legno dipinto nel quale in una pisside-ostensorio si conservava il SS. Sacramento con altre particole, e alla destra dell'altare stava acceso un lumicino rinchiuso in una lanterna che serviva da lampada.
Gli altri due altari minori, quello dell'Assunta e l'altro di S. Rocco, stavano a sinistra entrando in chiesa, ma senza redditi e paramenti.
Nella cappella dell'Assunta, con sarcofago sopra terra, avevano a che fare i nobili Nava, mentre l'altra con finestra per la quale si guardava sul sagrato o cimitero e viceversa, spettava alla confraternita di S. Rocco eretta in quell'anno stesso con 60 iscritti. Era l'unico sodalizio religioso esistente in parrocchia.
Il restante della chiesa non aveva né volta né soffitta, ma coperta di sole tegole, con pavimento in disordine.
La piccola sacrestia, di recente costruita dalla parte del Vangelo, risultava tanto umida che vi marcivano i paramenti. Il battistero consisteva in un semplice vaso di pietra presso l'altar maggiore.
Dal campanile non pendeva che una sola campana, e per di più rotta anche quella.
La casa parrocchiale, come al presente, si addossava alla chiesa verso mezzodì, e ad essa vi si accedeva per una porta che comunicava altresì col campanile. Consisteva in tre locali inferiori e tre superiori, con corte, orto, e ronco contiguo di 45 pertiche.
Vi dimorava il rettore parroco Giovanni Antonio Pirovano nativo di Barzanò, con un fratello e un servo. Avaro, e tanto ignorante da non sapere nemmeno i primi elementi di grammatica, e di condotta non esemplare, non si interessava granché della sua chiesa: il visitatore trovò rotta la predella dell'altar maggiore, e peggio: "corporalia immunda, paramenta lacerata". S. Carlo, venutone a conoscenza, lo privò senz'altro della parrocchia.
A visita ultimata, il Leonetto ritenne necessario imporre al parroco l'erezione della confraternita o Scuola del SS. Sacramento unendovi quella di S. Rocco, e che coi suoi denari avesse a soffittare e imbiancare la chiesa, aggiustare la predella dell'altar maggiore, comperare una pisside e i vasi degli olii sacri, provvedere i necessari paramenti, riparare il pavimento, ripristinare la campana, porre le stamigne (tele) alle finestre, cintare il cimitero, tenere un coadiutore.
Da ultimo impegnò il signor Erasmo Perego di Barzanò, non saprei per quale obbligo, a far defluire l'acqua che, stagnando all'esterno durante le piogge, rendeva umida la sacrestia (132).

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Il 20 agosto 1571 arrivava in visita S. Carlo stesso (133).
La situazione parrocchiale si presentava press'a poco identica a quella rilevata dal precedente visitatore. Dico press'a poco, perché nel frattempo si era, tra l'altro, soffittata la chiesa.
Il santo arcivescovo osservò che il tabernacolo di legno non era secondo la forma prescritta, e ci fa conoscere che la lampada del SS. Sacramento la teneva accesa a sue spese un Francesco Pirovano. L'altar maggiore, con un'icona antica e indorata, stava sotto la relativa cappella costruita in vivo con pietre quadre. L'architrave mancava del Crocifisso.
Le due cappelle minori erette nella parte aquilonare erano tanto vicine l'una all'altra, che una colonna lapidea eretta nel mezzo delle due cappelle ne sosteneva le rispettive volte, in modo da costituire quasi una piccola nave laterale.
S. Carlo trovò in chiesa sei brelle, ma nessun confessionale.
La sacrestia continuava ad essere sprovvista del necessario (guarnerio o armadio, lavabo, ecc.).
Fermi restando i decreti del Leonetto, S. Carlo ne aggiunse altri molti che il lettore, se crede, può leggerli nell'Appendice. Volle, tanto per citarne qualcuno, che si aprisse una finestra moderna nel muro presso l'altar maggiore e si otturassero le due antiche (a strombatura); si ingrandisse la cappella dell'altar maggiore in correlazione alla volta dell'arco; si levasse l'acqua che rendeva umida la sacrestia oppure se ne costruisse un'altra in luogo asciutto; il cav. Nava ponesse in ordine la cappella e l'altare dell'Assunta; si costruisse un battistero presso la colonna delle cappelle minori; si alzasse la finestra della cappella di S. Rocco, ecc... (134).
Di tutto questo nessuna meraviglia; più o meno, nelle identiche condizioni si trovavano allora tutte le chiese parrocchiali e non parrocchiali di campagna. Donde l'opera veramente necessaria esplicata da S. Carlo perché fossero restaurate e mantenute sempre in ordine.
Il 22 dicembre 1579 il santo arcivescovo volle canonicamente eretta la Società o Confraternita del SS. Sacramento, la cui erezione era stata imposta dal Clavone nel 1567, e l'aggregò all'Arciconfraternita di Roma nello stesso anno, come risulta dagli atti di visita dell'arcivescovo Federico Visconti del 1686.
Da una relazione del 1591 si rileva che mancava ancora il pulpito e il battistero.

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All'inizio del secondo decennio del secolo XVII, ossia il 18 luglio 1611, abbiamo a Barzanò l'arcivescovo card. Federico Borromeo.
Dagli atti di visita si rileva che la chiesa, benché lentamente, veniva sistemandosi, perfezionandosi. Quando giunse il card. Federico erano in corso lavori di miglioria, naturalmente eseguiti secondo i bisogni del culto ed il gusto d'arte in voga in quell'epoca (135).
Vi lasciò non pochi decreti, e fra questi, che si acquistassero due reliquari di legno con le relative sante reliquie da esporsi sull'altare nelle feste solenni; si provvedesse un baldacchino di damasco con frange d'oro; si coprisse la mensa dell'altar maggiore con una lastra di marmo di un sol pezzo; si chiudesse con cancello di ferro la cappella dell'Assunta; si costruisse un decoroso battistero secondo le norme prescritte; si riducessero alla forma prescritta le sepolture esistenti in chiesa; si procurasse un secondo confessionale; si collocasse il pulpito dalla parte del Vangelo e vi si ascendesse dalla sacrestia; si costruisse davanti alla porta centrale della chiesa un vestibolo sostenuto da due colonne; si dipingessero sul frontespizio della chiesa le figure della B. Vergine e dei Santi Vito e Modesto; le campane fossero al più presto benedette (136); si provvedesse un secondo vaso per l'acqua santa; si costruisse una nuova sacrestia coi suoi armadi, ecc...
Lodò e volle conservata la pia usanza popolare di offrire la cera, ossia le candele alla chiesa, in occasione della festa annuale di S. Vito.
Da ultimo volle che fosse restaurata la casa parrocchiale, e recintata con un muro di sicurezza, essendo il luogo disabitato "cum sit ab hominum frequentia satis remota". Allora non c'erano case lì vicino come adesso.
Nel carteggio della visita vi si accenna ad un oratorio di S. Riccardo del quale nulla si conosce (137).

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Se non tutti, certamente la maggior parte dei decreti ebbero esecuzione, così che nel 1686 l'arcivescovo card. Federico Visconti nella sua visita pastorale troverà la chiesa, detta di antica struttura, lunga 36 braccia e larga 20. Dal che si vede, se le cifre sono esatte, che la chiesa fu alquanto allungata ed allargata. Infatti, come si è detto più sopra, lavori murari erano in esecuzione quando vi giunse il card. Federico Borromeo.
L'arcivescovo constatò la chiesa nel complesso ben tenuta, con biancheria e paramenti abbastanza sufficienti per il decoro della chiesa.
Vi si nota tuttavia la mancanza di Sacre Reliquie, e di un particolare sepolcro per i parroci e sacerdoti della parrocchia (138).
Nonostante la miseria di quei tempi di spagnolesco dominio, Barzanò sapeva farsi onore.

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Poco oltre la metà del secolo XVIII, Barzanò è di nuovo tutta in movimento per ricevere nel 1757 in forma solenne, con archi trionfali, sparo di mortaretti e suon di musica, il card. Pozzobonelli, arcivescovo di Milano, in visita pastorale.
Gli atti di visita ci dicono che la chiesa era a due navi, lunga circa 27 cubiti e larga 24. La nave centrale era più alta e larga, l'altra più bassa. Quest'ultima, più che una nave vera e propria, era costituita dalle due cappelle aperte nel lato aquilonare della chiesa. L'altar maggiore, con un tabernacolo di legno artisticamente intarsiato con figure ricordanti i misteri della passione di Gesù Cristo "e ligno phidiaca manu ductum", distava dalle pareti 4 cubiti.
Dal pavimento della chiesa si ascendeva al presbiterio mediante due gradini di sasso.
Oltre alle due vecchie cappelle di S. Carlo (già dell'Assunta) e della B. Vergine del Rosario (già di S. Rocco), la prima con un quadro rappresentante il santo, la seconda con un'icona elegante in legno "satis eleganter elaborata, partim auro, partim coloribus variis linita", vi si accenna ad una terza cappella eretta, con offerta del popolo, nel lato meridionale della chiesa e dedicata a S. Francesco da Paola.
Altra novità è la cantoria con organo collocata all'interno della chiesa al di sopra della porta maggiore.
La sacrestia, sempre dalla parte del Vangelo (e i parroci dalla loro casa ci andavano passando per una porta attraverso il coro) è dichiarata abbastanza ampia, provvista di guarneri o armadi elegantemente costruiti "non ineleganter confecta armaria", con biancheria e paramenti abbastanza sufficienti.
Troviamo finalmente eretto un decoroso battistero alla sinistra, entrando in chiesa, sotto la rispettiva cappella alta 8 cubiti, lunga e larga 5, chiusa da cancello di ferro.
In chiesa v'erano 7 sepolture: 6 di private famiglie nobili o distinte, Nava, Origo, Fumagalli, Panzeri, Viganò, Galli, e una per la comunità. Per i parroci e sacerdoti della parrocchia nessuna fossa particolare: continuavano a farsi seppellire con i loro parrocchiani poveri, per finire con essi nei resti dell'ossario che sorgeva nel sagrato verso nord. I defunti venivano ordinariamente calati nella fossa comune ravvolti talora in una tela, senza cassa.
La facciata della chiesa, semplice e disadorna, era rimasta come ce l'ha additata per la prima volta il padre Leonetto: "Frontespicium huius templi ex lapidibus sectis constructum fuit, nullo adito, aut architecturae aut picturae ornamento," (139) e continua tuttora a rimanere tale; e ciò non è un male data la sua antichità. Lì vicino stava l'antico cimitero (eidem adiacet coemeterium), e cioè il sagrato nel quale ormai da secoli non vi si seppelliva più nessuno.
Sulla parrocchiale di S. Vito, che da S. Carlo in poi era venuta sistemandosi sempre in meglio, veniva profilandosi un grave inconveniente, e cioè l'incapacità di contenere la aumentata popolazione. Si imponeva un ampliamento.
Il parroco Ferrario ne avvertirà la necessità, ma chi condurrà in porto l'impresa sarà il suo successore, il parroco Boldrini.
Nel 1833-34, su disegno dell'architetto Biagio Magistretti, e previa autorizzazione ecclesiastica e civile, si iniziarono i lavori di allargamento a tre navi, e prolungandola a levante con altare, coro, e sacrestia nuova a mezzodì. L'interno con le cappelle venne necessariamente rimaneggiato. E poiché la terza nave venne aperta a mezzodì, la casa parrocchiale andò pur essa soggetta a sistemazioni.
Dell'antica chiesa non rimase che una piccola parte. Senonché il lento ma continuo sviluppo del paese indusse, cento anni dopo, il parroco Bedoni ad eseguire un altro ampliamento col trasformare la chiesa alla forma di croce latina, prolungandola verso levante a ridosso della collina, su disegno dell'architetto bergamasco Giovanni Barboglio.
Ingrandimento di ripiego, se si vuole, ma che la rese doppiamente capace, come tutti possiamo constatare.
Nell'ambito della parrocchia le frazioni più consistenti (S. Feriolo, Torrevilla, ecc.), a differenza delle altre, ebbero nel passato un loro antico particolare oratorietto, più o meno ben tenuto, come risulta dagli atti di visita pastorale del padre Leonetto del 1567 e di S. Carlo Borromeo del 1571.
Nessuno di essi, per altro, è ricordato nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani della fine del secolo XIII.
Tuttavia, secondo il Dozio, l'oratorio di S. Feriolo, in base al santo titolare e ad accenni in più carte del medioevo, potrebbe rimontare verosimilmente al secolo X col conte Sigifredo, signore di Barzanò, di famiglia franco-borgognona. Annotava il padre Leonetto che nel giorno di Pasqua vi era un gran concorso di gente per devozione, la quale beveva dell'acqua di una fonte lì vicina, che oggi più non esiste, e ne portava anche a casa, ritenendola miracolosa. All'oratorio di S. Feriolo si veniva in processione il primo giorno delle Rogazioni, come ci fanno conoscere gli atti di visita pastorale del 1611 del cardinale Federico Borromeo.
Gli altri oratorii, dei quali vi è parola negli atti di visita pastorale (intorno al 1630) paiono sorti in tempi più recenti, ed alcuni sono già da tempo scomparsi.

CAPITOLO NONO

RETTORI E PARROCI

(1516...) GIOVANNI MARIA PANZERIO. È il rettore più antico di S. Vito del quale finora abbiamo memoria: non mi fu possibile rintracciarne di precedenti. Come si è accennato, era stato eletto parroco dalla popolazione, dal che si potrebbe arguire che per antica tradizione l'elezione spettasse alla comunità. Suo competitore fu un Gio. Battista Caponago, il quale, rimasto soccombente, pretendeva di soppiantarlo a mano armata. Il Panzerio ricorse a Francesco I re di Francia e duca di Milano, ottenendo giustizia.
Correvano anni disastrosi per il ducato. Dalla caduta di Lodovico il Moro (1500) alla morte dell'ultimo duca Francesco II Sforza (1535), le nostre terre, dove più dove meno, furono percorse da francesi, svizzeri, spagnoli, lanzichenecchi in guerra tra di loro.
Le popolazioni si trovarono non solo gravate dagli alloggiamenti militari e da frequenti richieste di denaro, ma dovettero ben anche subire violenze e saccheggi per dove passavano e stanziavano gli eserciti invasori. E Barzanò ne ebbe un particolare saggio da parte dei francesi (140).

(1528...) GIO. BATTISTA CAPONAGO. Canonico di S. Salvatore e rettore di S. Vito. Di più era titolare del clericato di S. Maurizio in Monza e del beneficio di S. Maria in Torrevilla. In quest'anno una peste tremenda desolò Milano e le terre del ducato. Ci furono, al dir del Burigozzo, dei paesi quasi totalmente distrutti. Non era la prima volta che la peste colpiva la nostra terra. Era un malanno epidemico di antica data. Gli storici ci ricordano come più volte nei secoli precedenti scoppiasse disastrosamente fra di noi (141).

(1532...) GEROLAMO DE CURTE. Barzanò, come tutte le terre del ducato, passa nel 1535 in dominio della Spagna. Dominio che disgraziatamente durò a lungo, segnando un periodo di lenta ma continua decadenza. Nelle campagne si finì col condurre, in generale, una vita misera e stentata. Gli spagnoli tennero il Milanese come regione di sfruttamento (142).

(1558...) FRANCESCO PIROVANO. Nativo di Barzanò. Dallo scorcio del secolo XIV i Pirovano prolificarono talmente in paese da formare non poche famiglie, parecchie delle quali agiate e distinte. Nel catasto del perticato rurale di Barzanò del 1558 abbiamo che predominavano per numero quelle dei Riva e dei Pirovano (143).
Nella Brianza collinare, a differenza della pianura e della bassa milanese, la proprietà terriera era molto frazionata, ciò rendeva i Brianzoli piccoli o medi possidenti: gente non ricca ma fiera e tenace delle sue tradizioni e dei privilegi ottenuti per benemerenza dai Visconti e dagli Sforza.

(1567-1571) GIO. ANTONIO PIROVANO di Barzanò. Nel 1564 lo si incontra investito della cappellania di S. Biagio, e nel 1567, a 40 anni di età, rettore e parroco di S. Vito.
Come si è detto lasciava molto a desiderare per condotta, istruzione, pietà e zelo. S. Carlo non solo lo rimosse, ma lo fece imprigionare. Con S. Carlo non c'era da scherzare. Quando nel 1571 il santo arcivescovo arrivò in visita pastorale, il Pirovano si trovava già in prigione. Funzionava interinalmente da vicario un Manfrino Pirovano rettore di Viganò.

(1571-1574) GIUSEPPE RIVA. Entrò parroco il 22 dicembre 1571, e morì il 13 dicembre 1574. Fu sacerdote e parroco modello, stimato e amato dalla popolazione.

(1575-1589) MICHELE CASPANO. Suo padre era un merciaio che frequentava i mercati (144). Ordinato sacerdote nel 1564, ebbe il possesso del beneficio parrocchiale di Barzanò da Mons. Federico Iacobello, vicario di S. Carlo. Sapeva di musica.
In occasione della peste del 1577 venne costruita una capanna per gli appestati poco fuori del paese verso nord-est; il luogo fu perciò chiamato il Lazzaretto. In Barzanò i morti del contagio furono 9 dal 25 marzo al 6 di maggio. Di costoro qualcuno morì nella propria casa, gli altri nella detta capanna.
Il parroco, ancora sotto l'incubo del contagio, in data 11 giugno 1577 domandò ed ottenne di far costruire sul terreno del Lazzaretto una cappella in onore di S. Sebastiano e di solennizzarne la festa; cappella eretta per voto dai parrocchiani, e che successivamente nel 1864 i Manara otterranno di poter ridurre a sepolcreto di famiglia dove riposerà la salma di Luciano Manara, come si dirà più avanti nelle note (145).

Pieve di Missaglia nel 1611

La peste, osservava il curato, aveva "cresciuto il timore del Signore negli Huomini et mutatione de vita et de costumi".
Dallo Stato del clero della pieve del 1586 il parroco è detto sofferente di podagra (gotta). La visita vicariale del 1588 fa ascendere la popolazione della parrocchia (e quindi anche del Comune) a circa 400 anime: "Animae sunt 400."
Nel 1572 si ha che Barzanò aveva una superficie territoriale di pertiche milanesi 4752, con una imposta di consumo di 40 staia di sale; e pagava per il mensuale 253 scudi.

(1589-1597) GIO. BATTISTA RIPAMONTI (o Rigamonti come erroneamente si trova talora scritto).
Nato a Tegnone (oggi Ravellino) di Nava da Gaspare e Maddalena Ripamonti nel 1558. Ordinato prete il 24 settembre 1583. Si diceva laureato in Teologia. Non teneva i libri richiesti e non sapeva né di musica né di canto. Ottenne il beneficio parrocchiale per via di permuta con Michele Caspano in data ultimo di luglio del 1589, e lo tenne fino al 1597. Aveva presso di sé un nipote, Giuseppe, che vestiva l'abito talare. Costui sarebbe poi diventato il celebre storico Giuseppe Ripamonti, dottore dell'Ambrosiana.

(1597-1625) FRANCESCO ISACCO. Parroco dal 28 settembre 1597 fino alla sua morte avvenuta nel 1625.
Oriundo di Torrevilla, fu ordinato sacerdote nel marzo 1594. Era canonico della plebana di S. Vittore in Missaglia.
Allorquando nel luglio del 1611 accolse in visita pastorale il cardinal Federico Borromeo, contava 42 anni.
Si ha memoria che un Francesco Pirovano di Barzanò, la cui unica figlia Angela Gerolama era andata sposa all'Ill. mo dottor collegiato Pietro Caimo e alla quale aveva lasciato in dote ogni suo avere, dispose con testamento lire otto alla locale confraternita del SS. Sacramento (1614) (146).
Mons. Pietro Giussani, erede del cav. Bernardino Nava, quegli che nel febbraio 1571 aveva fatto murare nella cappella della Madonna Assunta una lapide ricordo della defunta sua giovane moglie Drusiana Giussani "uxori dulcissimae" (147), eresse nella parrocchiale una cappella in onore di S. Carlo, col trasformare la precedente dedicata all'Assunta, già di patronato del sopra detto Bernardino, e la dotò di un pingue beneficio con istrumenti del 27 settembre 1609 a rogito Giacomo Ceruti notaio arcivescovile, e del 14 settembre 1622 a rogito dott. Cesare Porta.
La nomina del cappellano spettava alla famiglia Giussani. Col tempo il patronato passò in altre famiglie per via di successioni ereditarie. Ora non rimane più nulla, come più nulla rimane del beneficio della cappella della B. V. del Rosario della quale si dirà più avanti.
La cappella di S. Carlo finì coll'essere successivamente dedicata a S. Giuseppe, e il quadro di S. Carlo collocato in altro posto.

(1626-1638) GIUSEPPE CEREDA. Fatto parroco il 7 dicembre 1626, entrò in possesso il primo febbraio 1627, e si spense nel 1638.
"Ordinato sotto il card. Borromeo (così si legge nel vol. 29 delle Visite Pastorali della pieve di Missaglia) al titolo della parrocchiale di S. Gottardo fuori Porta Ticinese et poi dallo stesso trasferito a questa chiesa. E buon teologo, peritissimo cronista, di buonissima vita, faticoso et intelligentissimo nell'officio suo et predica dottamente et fruttuosamente. Il cappellano è il Sr. Marc'Antonio Origo residente in Torricella, terra di questa medesima cura, ordinato dal Sr. Card. Borromeo al titolo di patrimonio. Questo uomo è di molte et nette facoltà, gran pratico di negotii d'ogni sorta, giudicioso, pronto et essecutivo et molto inclinato al beneficio della chiesa."
Preceduta da annate di carestia, nel 1630 scoppia la famosa peste magistralmente descrittaci dal Manzoni nel suo romanzo I Promessi Sposi. Non pochi di Barzanò vi lasciarono la vita dal marzo al luglio. Di peste morì pure il sacerdote Gerolamo Trivulzio canonico di S. Tommaso in Milano, e titolare della cappella di S. Carlo in S. Vito.
Da allora non si ha più memoria di peste in Brianza. Vi subentrerà più tardi, nel secolo XIX, il colera.

(1638-1645) GIO. ANTONIO DE CAPITANI. Fu investito della parrocchia il 10 novembre 1638.
Apparteneva agli Oblati di S. Sepolcro. Ottimo sacerdote. Come vice-parroco gli fu di poi assegnato il sac. Carlo Rosati.
Divenuto demente per eccessive penitenze e mania religiosa, trascorrendo settimane senza cibo e bevanda, fu "ad Hospitale stultorum ductus, et diem clausit extremum circa annum 1640".
Sembra invece che sia morto pazzo nel 1645.

(1646-1666) GIOVANNI SPREAFICO. Parroco dall'aprile 1646 fino alla morte, avvenuta nel settembre 1666.
Come viceparroco ebbe il sac. Annibale Nava di Barzanò.
Nel 1661 il parroco contava 61 anni di età: gli abitanti della parrocchia raggiungevano i 459. Se quest'ultima cifra corrisponde al vero, la popolazione non si era ancora ripresa dalla peste del 1630.
Barzanò nel 1650 corse pericolo di essere infeudata al nobile Gerolamo Pozzo, ma i Barzanesi, sempre fieri della loro libertà, si redensero versando alla R. Camera L. 30 per fuoco: i fuochi o famiglie assommavano a 55, delle quali 23 in Barzanò centro, e le altre divise fra le frazioni (Appendice V).

(1667- 1675) FEDERICO SCOLA. Fu eletto parroco nel marzo 1667. Passò a miglior vita nell'ottobre 1675.

(1676-1704) ANTONIO FRANCESCO SANGIORGIO. Nominato parroco dal card. arcivescovo Alfonso Litta l'8 gennaio 1676, vi rimase sino alla morte che lo colpì il 10 gennaio 1704 nell'età di 73 anni.
Il primo dicembre 1681 erigeva la confraternita della B. Vergine del Rosario, appoggiandola alla già cappella di S. Rocco tramutata per la circostanza in quella del Rosario. Col fratello Agostino, parroco di Robecco, vi annetteva un beneficio con obbligo di quattro messe settimanali, e il diritto di iuspatronato. Presso quella cappella volle essere sepolto "et moriens quiesceret".
Dal Vicario Generale ottenne nel 1682 di far costruire un oratorio per i confratelli del SS. Sacramento verso il lato nord della chiesa, utilizzando parte dell'antico cimitero o sagrato presso cui stava l'ossario.
Il card. Federico Visconti nella sua visita pastorale del 1686, a lode del parroco, trovò la chiesa ben tenuta e provvista del necessario, e la parrocchia ben diretta. La popolazione contava 640 anime.
Il beneficio parrocchiale rendeva 707 lire annue, più 100 lire circa di straordinari.

(1705-1720) AMBROGIO CURIONI. Dalla parrocchia di Visino (pieve d'Asso) fu promosso parroco di Barzanò con bolla papale di Clemente XI del 18 dicembre 1704.
Nato e battezzatto a Magreglio il 25 ottobre 1660. Nella visita vicariale del 1709 è detto "Ambrosius Curionus aetatis 46 annorum". Se veramente nato nel 1660, nel 1709 doveva avere 49 anni e non 46.
Dopo 15 anni di parrocchialità si spense lasciando di sé buon ricordo nei parrocchiani.
Prima di morire vide il tramonto della dominazione spagnola, che lasciò i nostri paesi nelle ben note tristi condizioni. Basti ricordare che il Marchese Airoldi in un ricorso inoltrato a Madrid, il 14 gennaio 1690, in nome del Consiglio Segreto, affermava che i poveri sudditi non avevano altro che il fiato esente da carichi, e che il Milanese era ormai giunto alla sua totale distruzione (148).

Monte di Brianza nel 1763

(1720-1762) FRANCESCO AMBROGIO CURIONI. Vallassinese come il precedente e forse parenti tra di loro. Gli fu conferita la parrocchia di Barzanò dall'arcivescovo Odescalchi il 7 agosto 1720 nell'età di anni 30 (149).
La popolazione nel 1727 raggiungeva i 789 abitanti, e il card. arciv. Pozzobonelli nella sua visita pastorale del 31 maggio 1757 trovò in buon ordine chiesa e parrocchia.
Tra gli otto legati che allora si adempivano in S. Vito ce n'era uno della Ven.da Società di S. Stefano in Viganò, la quale era tenuta a far celebrare nella parrocchiale di Barzanò un officio annuale a suffragio del quondam Francesco Pirovano; officio livellato su di una casa in Viganò.
Svolse 42 anni di cura d'anime con esemplarità e zelo: moriva il 5 gennaio 1762, legando alla parrocchia una casa con terreni coll'obbligo ai parroci successori di erogare due doti annue di lire 25 cadauna a nubende povere del paese.
Le condizioni economiche e sociali di Barzanò e degli altri nostri paesi, durante la parrocchialità dei due Curioni, ossia nella prima metà del settecento, durarono a un di presso identiche alle precedenti, nonostante vari tentativi di riforme, per le guerre insorte in quegli anni.
Una prima guerra prese a divampare fra i pretendenti al trono di Spagna alla morte di Carlo II senza eredi legittimi (novembre 1700). Benché il principe Eugenio di Savoia il 24 settembre 1706, entrando in Milano con le vittoriose armate austro-piemontesi, determinasse praticamente la caduta del governo spagnolo fra di noi, è coi trattati di Utrecht e di Rastadt (1713-1714) che la guerra viene chiusa definitivamente: la Lombardia passava in dominio dell'Austria.
Una seconda guerra si sviluppò nel 1733 per la successione al trono della Polonia. L'Austria perde la Lombardia, che passa a Carlo Emanuele III di Savoia, per riaverla col trattato di Vienna del 1738. Rimase naturalmente sospeso il lavorio delle intraprese riforme.
Due anni dopo si ebbe una terza guerra per la successione austriaca che si concluse il 23 ottobre 1748 col trattato di Aquisgrana. Maria Teresa fu riconosciuta imperatrice d'Austria, dando finalmente luogo ad un lungo e fecondo periodo di pace e di opportune riforme.
Tra l'altro i Comuni furono obbligati a redigere ogni anno i loro bilanci di entrata e di uscita, e a tenere ben ordinato il loro rispettivo nuovo archivio.
Con il 1760 entrò in vigore il nuovo e più perfetto catasto prediale, e il primo bilancio del Comune di Barzanò è appunto di quest'anno (150).
In linea generale questi antichi bilanci si presentano striminziti: esigua l'entrata, esigua l'uscita. Né poteva essere altrimenti, data la misera condizione economica delle popolazioni rurali, e la non sentita necessità di altre esigenze civili. L'entrata principale dei Comuni poggiava sulla metà del testatico che colpiva tutti i maschi dai 14 ai 60 anni, esclusi gli ammalati e le famiglie con dodici figli: tassa odiosa e di grave peso per la povera gente, benché fosse stata ridotta in più giusti limiti da Maria Teresa. La tassa su le case forensi e l'altra sul mercimonio rendevano ben poco.
La parsimonia nello spendere per i bisogni della Comunità la si potrebbe fors'anche spiegare, almeno in parte, col fatto che i signori, ossia i maggiori estimati, avendo nelle mani il potere avranno cercato di restringere i loro carichi.
D'altra parte non era ancora sentito il bisogno della pubblica generale istruzione, di ampie ed asfaltate strade, dell'igiene, dell'acqua potabile, dell'illuminazione pubblica, e di tante altre occorrenze familiari e sociali delle quali oggigiorno, una popolazione che voglia dirsi civile non può fare a meno.
L'aumento delle entrate e quindi delle spese nelle amministrazioni comunali di campagna incomincia per lo più con Giuseppe II, specialmente per l'adattamento e manutenzione delle strade provinciali e comunali, continua col governo napoleonico, e via via fino al presente col crescere della prosperità e delle esigenze, così che attualmente, a tanti secoli di distanza, in fatto di esigenze e di pretese sociali e personali si è forse democraticamente passati in non pochi casi all'eccesso opposto.

(1762-1806) AMBROGIO MARIA FERRARIO. Nato a Civate il 16 gennaio 1730 da Isidoro e Orsola Airoldi, famiglia benestante.
Parroco di Barzanò dal 9 ottobre 1762. Fu altresì notaio apostolico.
Nel 1771 aveva divisato di ingrandire la chiesa parrocchiale divenuta ormai insufficiente per una popolazione di oltre 800 anime.
Dall'arcivescovo ottenne senz'altro il benestare, ma la Real Giunta Economale, mediante il cancelliere del censo di Missaglia, concedeva il nulla-osta purché il tutto fosse fatto con denaro appartenente alla chiesa, e non si facessero debiti o questue. La spesa era stata preventivata in L. 4.500, delle quali già disponibili 4 mila più alcune sicure offerte, oltre le condotte e la manualanza gratuita (151).
L'ampliamento non ebbe seguito per difficoltà insorte all'ultimo momento e, a quanto pare, per non urtare la popolazione e specialmente le famiglie nobili e ricche, col togliere dalla chiesa, come pretendeva l'autorità civile, tutte quante le sepolture.
Pensò allora di collocare sul campanile un nuovo concerto di cinque campane. Parroco, fabbricieri, e deputati dell'estimo il 18 febbraio 1773 inoltrarono richiesta alle superiori autorità: la spesa era fatta col denaro già in cassa. Quella civile dava la concessione, ma a patto che prima fossero sistemate fuori dalla chiesa le sepolture in essa esistenti, secondo il tenore delle leggi veglianti (152).
Il progetto rimase sospeso per qualche anno, ma, benché a malincuore, non ci fu altro da fare che eseguire quanto imposto col riattivare provvisoriamente, a quanto sembra, l'antico cimitero ossia la parte del sagrato verso nord. Il nuovo cimitero, lontano dall'abitato, verrà fatto più tardi durante il napoleonico Regno d'Italia.
Si pose quindi mano alla rifusione delle quattro piccole campane parrocchiali con altre appartenenti a S. Maria della Scala in Milano, abbattuta per far luogo al teatro della Scala, ricavandone cinque di maggior suono, così di non capitare come si nota in uno scritto del tempo, che, data la lontananza delle frazioni, si avesse a perdere la Messa nei giorni festivi per non aver sentito il suono delle campane.
Con grande giubilo degli abitanti nel 1777 il nuovo concerto incominciò a far sentire la sonora e larga voce.
Contribuì alla spesa il marchese Castiglioni in ottimi rapporti col parroco (153).
Restaurò inoltre il Ferrario la casa parrocchiale, rendendola più ampia e comoda, e arricchì la chiesa di arredi sacri.
Nel 1786 ci fu nelle parrocchie un certo qual scompiglio per il decreto di Giuseppe II che riduceva, e in certi casi aboliva, pellegrinaggi, novene, tridui, feste, suono delle campane, ecc. Delle processioni furono conservate quelle del Corpus Domini e delle Rogazioni. In quell'anno furono soppressi parecchi monasteri tra cui quello di Cremella. Non per nulla fu soprannominato l'imperatore sagrestano.
Divenuto il parroco ormai vecchio e bisognoso di aiuto, domandò ed ottenne come ausiliario il sac. Giovanni Redaelli di Barzanò, al quale fu concesso l'annuo emolumento di lire 200 sul fondo di Religione (febbraio 1796).
Con testamento rogato l'8 luglio 1800 disponeva di un capitale di lire 35 mila per la fabbrica della chiesa, e per medicinali e viveri ai poveri della parrocchia. L'importanza del lascito sta nel fatto che allora non esistevano mutue popolari sanitarie ed altre provvidenze del genere.
Il governo italo-napoleonico, dopo la sua morte, giudicò i quattro quinti della somma per i poveri e un quinto per la chiesa.
Poco prima di passare a miglior vita eresse in Duomo a Milano un canonicato, facendosi nominare canonico monsignore, ma non poté occuparlo e mettersi la mitra, perché la morte lo colse il 9 giugno 1806.
Il Ferrario ebbe la fortuna di svolgere le sue mansioni parrocchiali in un periodo di lunga pace, quale fu quello della seconda metà del settecento, e di assistere ad un lento ma progressivo generale miglioramento con le riforme, già iniziate da Carlo VI e continuate in meglio da Maria Teresa e da Giuseppe II: riforme giudiziarie, amministrative, tributarie, ecclesiastiche, per quanto nei primi anni le campagne fossero infestate dal malandrinaggio.
L'imperatrice Maria Teresa nel 1765 aveva associato nel governo il figlio Giuseppe II che, morta la madre nel 1780, continuò da solo a governare fino alla sua morte avvenuta dieci anni dopo.
Nel loro complesso le riforme di Maria Teresa furono più prudenti, e diedero migliori frutti, che non quelle di Giuseppe II talora troppo avventate.
Prese a rifiorire l'agricoltura, a intensificarsi l'allevamento del baco da seta, ad aumentare il bestiame bovino.
Per molti e molti anni l'agricoltura continuerà ad essere la base, il fulcro dell'economia lombarda, finché in questo nostro secolo XX inoltrato prenderà il sopravvento l'industria capitalistica, relegando in sott'ordine, quasi negletta, la tradizionale agricoltura. Sparvero perciò i bei vigneti che in passato coronavano le nostre colline e davano buoni vini che si esportavano; sparvero nelle campagne i lunghi filari di gelsi della cui foglia si nutrivano i bachi che rendevano seta rinomata; sparvero le filande con le loro bacinelle e i filatoi che davano lavoro alla mano d'opera femminile; sparvero i telai a mano ed altre industrie casalinghe.
L'evoluzione che, per un complesso di cause, si sta verificando nell'economia agricola, spinge inoltre all'abbandono non solo di terreni poco redditizi di montagna o di collina, ma ben anche di fertili in pianura. A questo ineluttabile fenomeno non poteva sfuggire la Brianza. Dal Monte S. Genesio la frazione di Campsirago, ad esempio, è ormai scomparsa: le famiglie scesero al piano nei centri industriali in cerca di un più facile e maggior guadagno. In generale oggi, specialmente dai giovani, si preferisce la sicura busta paga all'incerta sudata fatica nei campi.
Le industrie, conquistata la bassa Brianza pianeggiante, vanno allungando i loro tentacoli nella zona collinare e dei laghi briantei, con richiamo di mano d'opera non solo del luogo e dei dintorni, ma altresì del meridione d'Italia, sconvolgendo usi e tradizioni e lo stesso paesaggio con non poche costruzioni malamente ambientate.
Basti accennare a quest'ultimo riguardo quanto è avvenuto del colle stesso di Brianza. La cima di quel colle, col famoso campanone che da secoli faceva sentire la sua voce nei villaggi sottostanti per largo giro all'intorno, ricca di antiche memorie e di leggende e che legò il suo nome alla regione circostante, fu sciupata da una presuntuosa villa moderna.
Che le industrie e le relative attività commerciali abbiano migliorato i bilanci familiari non è certamente un male.
Resta nondimeno il grande inconveniente che la Brianza vada man mano perdendo, se non si pensa in tempo ai possibili rimedi, le sue peculiari caratteristiche di paesaggio e di salubrità di aria che la resero celebre nel passato, per divenire sotto la spinta dell'odierna civiltà utilitaria una terra collinare qualunque.
Ma ritorniamo al nostro parroco Ferrario che, negli ultimi anni della sua vita, dev'essere rimasto male alla vista degli sconvolgimenti arrecati dai rivoluzionari francesi scesi in Italia con Napoleone nel 1796, ed entrati vittoriosi in Milano il 15 maggio. Tutto fu dimensionato alla francese: divisioni territoriali, istituti amministrativi, ecc.; aboliti totalmente i feudi, i maggioraschi, ecc.; venduti a privati i beni nazionali ammassati con le soppressioni di enti monastici ed ecclesiastici, ecc...
Dell'antico territorio del Monte di Brianza e dei suoi privilegi non rimase che il ricordo.
Fra le non poche prepotenze ed ingiustizie, si ebbe almeno il vantaggio di essere liberati di tanta parte del vecchiume dei passati secoli, e di aver risvegliato il sopito sentimento nazionale, e l'aspirazione dell'indipendenza.

(1806-1842) PIETRO BOLDRINI. Già coadiutore della prepositurale di Rho. Entrò parroco il 16 ottobre 1806; passò all'eternità l'11 febbraio 1842.
Nel 1810 benedisse il nuovo e primo cimitero comunale, l'attuale, eretto in bella posizione.
Col trapasso della dominazione napoleonica a quella austriaca (1814), un forte partito in Barzanò non voleva più saperne di avere per sindaco Antonio Fumagalli, avversato per il troppo zelo spiegato nell'applicare le leggi e gli ordinamenti del passato regime.
Questione grossa per la Barzanò di allora. Il Boldrini fu tra i pochi che nel 1815 testimoniarono presso il nuovo governo la lealtà e la rettitudine del Fumagalli.
Parroco esemplare e buon moralista (non per nulla proveniva da Rho sede degli Oblati Missionari del padre Martinelli) si adoperò, a quanto pare, affinché i Missionari di Rho avessero a stabilirsi in parrocchia, e precisamente a Villanova, col far lasciare loro da Filippo Giulini nel 1831 fondi e casa da nobile con annesso oratorio. Gli Oblati 69 anni dopo cedettero tutto alla Congregazione delle Suore Preziosine di Monza (154).
Nel 1821 dotò la chiesa di un nuovo organo, opera della ditta Riboldi di Varese, in sostituzione del vecchio settecentesco ormai fuori uso.
Molto si adoperò per alleviare le sofferenze dei suoi parrocchiani durante la carestia nel 1815 e dei due anni seguenti per il fallimento dei raccolti e l'avidità degli incettatori di granaglie, i quali comperando il poco grano disponibile lo rivendevano a prezzi altissimi. In molti luoghi della Brianza i poveri si trovarono costretti a cibarsi di erbe e di crusca macinata. Bande di ladri infestavano le campagne.
Anni dopo intraprese l'ampliamento della parrocchiale, finanziariamente aiutato dal sig. Fabio Pirovano (155), col sistemarla a tre navate, e prolungandola alquanto verso levante e collocandovi due nuovi pulpiti. Fece di poi decorare la volta, indorare i cornicioni e i capitelli (1833-1836) (156).
Gravi apprensioni ebbe per il suo popolo allorquando nel 1836, dallo scorcio del mese di giugno sino al finire di agosto, si diffuse nella Brianza tra lo sgomento generale una grave pestilenza colerica, che colpì 6835 persone delle quali 3703 falciate dalla morte. Barzanò ed altri pochi paesi, per fortunata sorte, sembra rimanessero pressoché immuni (157).
In data 6 dicembre 1839 otteneva dal card. arcivescovo il nulla-osta per la ricostruzione dell'oratorio ad uso della confraternita del SS. Sacramento, essendo stato atterrato nell'ampliamento della chiesa quello eretto dal parroco Sangiorgio (158).
Lasciò un legato per una sacra Missione in parrocchia ogni 7 anni.

(1842-1882) FELICE CRESPI. Da Rescaldina, dove era coadiutore, se ne venne parroco a Barzanò nel 1842. Sua nota caratteristica fu la generosità verso i bisognosi, come nella mia giovinezza seppi dai vecchi del paese, e come si dice nella lapide-ricordo infissa nel muro di cinta del cimitero verso nord.
Mentre in atti del 1845 si parla di una spesa fatta dalla fabbriceria per restauri alla chiesa senza la superiore licenza, nell'anno seguente veniva ricostruito l'oratorio di S. Feriolo.
La ricostruzione venne fatta col fronte a confine della strada comunale, non lasciando sul davanti all'oratorio il necessario spazio libero, e dedicandola arbitrariamente non più a S. Feriolo, suo titolo originario, ma a S. Anna.
Il signor Baldassare Manara, nel suo testamento rogato il 17 luglio 1836, aveva legato alla chiesa parrocchiale lire austriache duemila per la rinnovazione della facciata, col patto che fosse eseguita nel termine di tre anni dalla sua morte; diversamente il legato doveva essere erogato a beneficio delle famiglie povere del comune di Sirtori (159).
Il testatore morì il 2 ottobre 1846. Il parroco e la fabbriceria facevano presente alla Delegazione Provinciale che la costruzione della facciata sarebbe stata molto dispendiosa, e la spesa necessaria avrebbe certamente superato la somma disponibile di lire duemila. E poiché il benefico testatore, durante la malattia aveva espresso all'erede Achille Manara la volontà di lasciare un legato per la sostituzione del vecchio altare di legno con un altro di marmo, la fabbriceria proponeva di assegnare lire trecento ai poveri del comune di Sirtori, e con le rimanenti ricostruire l'altare.
L'erede si dichiarò favorevole a tale compromesso. La Delegazione Provinciale in data 14 gennaio 1848 lo approvò, e altrettanto l'arcivescovo con rescritto del 22 aprile.
Il nuovo altare di marmo in stile neoclassico venne posto nel 1851, e nello stesso anno completato con candelabri, busti di reliquie, croce: un complesso artisticamente molto pregevole, su cui l'occhio si posa con piacere tanto bello e imponente si presenta l'altare, specialmente nelle feste solenni.
Quattro anni dopo il sac. Giovanni Guelfi, obbligava con testamento i suoi eredi a rifornire la chiesa di damaschi per addobbare le lesene e gli archi, ciò ch'ebbe esecuzione nel 1859.
Alle premure del Crespi si deve pure la doppia scalinata di granito che dalla strada mette sul sagrato fatta eseguire nel 1871.
Il Crespi, nella sua lunga parrocchialità, ebbe modo di presenziare ai grandi avvenimenti del nostro Risorgimento, quali l'insurrezione del 1848, le vittorie del 1859, la proclamazione del Regno d'Italia nel 1861 e di Roma capitale nel 1870; avvenimenti nei quali si distinsero parecchi Barzanesi, e tra questi Giacomo Beretta, uno dei Mille che con Garibaldi sbarcarono a Marsala nel 1860, e Glauco Nulli, decorato con medaglia d'oro nella guerra del 1914-1918 (160).
Ma il fatto che più da vicino interessò il paese fu la solenne inaugurazione del tram a vapore Monza-Barzanò, avvenuta il giorno di Pasqua del 1881 al dire del Bedoni (161). Il paese, divenuto capolinea, assurse in quegli anni ad una certa importanza.
La tramvia ebbe una vita piuttosto stentata: si cercò successivamente di prolungarla sino ad Oggiono. Tutto fu inutile: ormai mezzi più facili e rapidi di trasporto le facevano concorrenza; così che dopo la prima guerra mondiale (1914-18) finì coll'essere soppressa.
Non mancarono tuttavia momenti dolorosi. Se nei secoli precedenti la peste era il comune flagello che di tanto in tanto decimava le nostre popolazioni, nell'ottocento vi subentrava il colera o morbo asiatico.
Oltre all'accennata diffusione colerica nella Brianza e terre limitrofe nel 1836, se ne ebbero successivamente altre nella seconda metà del secolo XIX. Non tutte le località furono colpite allo stesso modo, poiché alcune se la cavarono con poche vittime o addirittura col solo spavento.
Nell'estate del 1855 a Barzanò, dal luglio all'agosto compreso, si ebbero una quarantina di morti.
L'epidemia veniva allora combattuta, oltre che con le medicine, con pubbliche e private preghiere raccomandate dalla Curia Arcivescovile, e con regolamenti sanitari imposti dalle autorità civili.
Dopo il 1866-67 non vi è più cenno di colera nella Brianza.

(1882-1902) CESARE RIPAMONTI. Nativo di Oriano Brianza. A lui si deve tra l'altro, la costruzione di una nuova casa d'abitazione per il coadiutore (1882), e la decorazione e dipintura della parrocchiale eseguita dal pittore Luigi Tagliaferri di Pagnona (Valsassina) nel 1886, pitture a tempera e non a fresco, per cui già in parte deperite.
Buon intenditore di musica, eresse in parrocchia una Schola Cantorum.
Chi stende questi appunti lo ricorda con memore affetto, poiché sotto la sua guida crebbe seminarista e vi celebrò la sua prima Messa in S. Vito, chiesa del suo battesimo, il 5 giugno 1898; come non dimentica i coadiutori D. Felice Colombo nativo di Desio, il valsassinese Don Bartolomeo Cameroni.

(1903-1943) CARLO BEDONI. Nato a Monza il 6 gennaio 1865, si laureò a Roma in sacra Filosofia e Teologia. Fu ordinato sacerdote nel 1888, ed i suoi primi anni di ministero li trascorse a Lecco, e poi a Lurago Marinone.
Nel 1903 fu nominato parroco di Barzanò. La sua lunga parrocchialità si svolse per gran parte lungo il periodo fascista.
Colto e attivo si meritò la nomina di Cavaliere della Corona d'Italia.
Si spense l'1 febbraio 1943.
Il suo nome rimase in particolar modo legato all'ampliamento della chiesa parrocchiale.
Coll'aumentare della popolazione, il Bedoni si trovò nella necessità di rendere maggiormente spaziosa la chiesa. Il lavoro venne infatti compiuto, come si è detto, nel 1936-38 con soddisfazione della popolazione, che oggi oltrepassa i quattromila abitanti.
Correvano allora anni di un lento ma continuo sviluppo per Barzanò. Nel 1907 si ebbe l'asilo infantile; nel 1928 l'aggregazione al comune di Barzanò dei comuni viciniori di Sirtori, Viganò e Cremella (162); nel 1931 l'apertura della nuova strada comunale Barzanò-Viganò, e l'inaugurazione del nuovo edificio scolastico per le scuole elementari; nel 1933 la realizzazione della nuova strada provinciale Lecco-Oggiono-Barzanò- Casatenovo-Monza; ecc...
Altro avvenimento degno di nota fu l'apertura della casa di san Giuseppe a Villanova nel 1935 per le novizie della Congregazione delle Preziosine di Monza.
Nelle ultime due grandi guerre, nelle quali per la patria non pochi Barzanesi sacrificarono la vita, il Bedoni seppe assistere i suoi parrocchiani vicini e lontani sotto le armi o prigionieri, raccogliendo stima e amore del suo popolo.

(1943-1973) ANTONIO REDAELLI. Nato il 23 novembre 1888 a Barzago; ordinato sacerdote il 2 giugno 1917, fa le sue prime esperienze pastorali a Ligurno come coadiutore festivo, ma nel novembre dello stesso anno in seguito all'acutizzarsi della malattia che l'aveva colpito in Seminario è già costretto a fermarsi nel paese natale presso i parenti.
Nel settembre 1918 viene ufficialmente nominato Assistente della Gioventù maschile di Barzago, e conserverà questa carica fino alla domenica in Albis del 1926. Anche in seguito, la malattia che ogni tanto lo perseguita, lo costringerà a soggiornare nella casa paterna, con una sola parentesi milanese dal luglio 1934 al giugno 1936 nella parrocchia di S. Gottardo.
Nel 1943 la fiducia del card. Schuster lo chiamava a reggere la parrocchia di Barzanò, della quale fu parroco fino al febbraio 1973 e alla quale rinuncerà con molto rincrescimento, arrendendosi solo al peso degli anni.
Citando direttamente dalle pubblicazioni commemorative del suo 50° di sacerdozio e del suo 30° di parrocchia:
"Don Antonio Redaelli è il parroco che ha promosso e celebrato un Congresso Eucaristico nel 1945; che ha costruito, e nel 1955 inaugurato, un nuovo oratorio; che nel 1962 ha fatto incoronare la statua della Vergine dal card. Montini, già ospite di Barzanò nel 1954 per la visita pastorale. Egli ha restaurato parte della chiesa parrocchiale: anche se incompiuti i suoi mosaici rimangono, più che una espressione d'arte, il luminoso riverbero e la calda voce del suo amore per l'Eucarestia.
In una sua predica ebbe a dire che attorno all'Ostia avrebbe voluto la chiesa quasi un tabernacolo d'oro.
Il parroco don Antonio fu carattere forte e non rifuggente dalle responsabilità. Si preoccupò di scuola e del livello culturale delle nuove generazioni, ebbe tormentata ambizione per le vocazioni della sua parrocchia."
Un sacerdote scrisse: "Personalità forte ed anche un po' difficile ed aggressiva, mista a timidezza e a riservatezza; un'emotività sensibilissima e scattante, ma un cuore grande come un oceano."
Si legge ancora: "È un sacerdote che ha sofferto con Cristo."
Nel giorno di S. Antonio, il 17 gennaio 1978, mentre di persona o per telefono arrivavano gli auguri per il suo onomastico, concludeva il suo lungo cammino.

(1973...) GIULIANO SALA. Ad multos annos...

* * *

Merita di essere ricordato, sebbene non rettore o parroco, il padre Marco da Barzanò, francescano, che nel 1405 eresse il noto convento di S. Salvatore sopra Erba, richiamando nel titolo il patrio S. Salvatore.

APPENDICE

I

Meresburg 4 ottobre 1015 (163)

In nomine Domini Dei et Salvatoris nostri Iesu Christi.

Henricus superna Clementia Romanorum Imperator Augustus. Si peticionibus nostrorum fidelium, nobisque debite famulantium aures nostrae pietatis inclinaverimus, promptiores eos fore in nostro servitio non dubitamus. Universitatem igitur omnium nobis obsequentium, praesentium scilicet, et futurorum nequaquam latere volumus, quod Albericus Sanctae Cumanae Ecclesiae venerabilis, et noster dilectus Episcopus nostrae pietatis Celsitudinem adijt, suppliciter postulans, ut pro sempiterni Retributoris amore, et salute animae nostrae, eiusque collato, et conferendo servitio, nostroque Imperio sublimando, eadem Sanctae Matrici Ecclesiae ad honorem Dei Genitricis, et Virginis Mariae dicatae quamdam Curtem cum omnibus suis pertinentijs, quae dicitur VILLA BARZANORUM, quae fuit haereditas, et proprietas filiorum Comitis Sigifredi, Berengarii, et Ugonis concedere, et donare dignaremur. Quorum quoniam in nos nimis offendentes contra nostrum Imperium male tractaverunt, et periuri, atque rei in nostram Maiestatem publice extiterunt, iure, et legaliter non solum haec, sed et omnia, quae habuerunt, ad nostrum publicum devenerunt, unde sua omnia merita perdunt, qui se ipsos gratis perdiderunt, dum fidei debita obliviscentes in nostra fidelitate minime durarunt, et nostro inimico iurantes adhaeserunt. Hanc ergo postulationem dignam, et ratam prospicentes, et ullo modo negare valentes, ipsius precibus libenter acquievimus. Concedentes, atque confirmantes eidem Cumano venerabili, et dilecto Episcopo, omnibusque suis successoribus supradictam Cortem VILLAM BARZANORUM nominatam cum omnibus suis appenditiis, cum omnibus redditibus, et exhibitionibus, impensionibus, et functionibus, cum servis, et ancillis, aldijs, et aldiabus, tam in montibus, quam quae in planis, terris, cultis, et incultis, vineis, campis, pascuis, sylvis, mansis, massarijsque, aquis, aquarumque decursibus, molendinis, casis, rebus omnibus mobilibus, et immobilibus, et cum omnibus, quae adhuc dici, vel nominari possunt, ad eandem Curtem pertinentibus, atque omnino in integrum largimur, et a nostro iure, et dominio in ius, et dominium, et proprietatem praefatae Sanctae Ecclesiae trasfudimus, et delegamus, ut qui nunc praeest Episcopus, omnesque sui successores potestatem habeant iam dictam Curtem cum omnibus, quae ad eam pertinent, tenere, possidere, commutare, sicut hactenus praelibetis periuris visa sunt pertinere, et ipsi haereditates possiderunt. Et facient idem Episcopi de eadem Curte, et omnibus, quae inde solvi possunt, quicquid sibi placuerit ad laudem honorem Dei, et Sanctae Mariae ex nostra plenissima auctoritate. Iubentes ergo sancimus, ut nostris, vel futuris temporibus nullus Dux, Marchio, Comes, Vicecomes, nullaque magna, vel parva persona, cujuscunque dignitatis, aut ordinis supra memoratum Albericum Episcopum, suosque successores de praefata Curte, et omni sua pertinentia disvestire, inquietare, molestare, vel in aliquo minorare praesumat. Sed liceat illis quiete, et pacifice tenere, firmiterque habere, remota omni contradictione. Si vero, quod minime credimus, contra huius nostri praecepti statuta aliquis violator unquam extiterit, sciat se certissime compositurum auri libras mille, unam partem Camerae nostrae, alteram praenominato Episcopo suisque successoribus. Et ut hoc verius credatur, et in convulsum ab omnibus observetur manu propria confirmantes nostri nominis inscripto caractere im... nostri sigilli impressione.

Signum Domni Heinrici gloriosissimi, atque
invictissimi Imperatoris semper Augusti.
Heinricus Parmensis Episcopus, et Canzellarius
vice Everardi Episcopi, et Archicanzellarij recognovit.

Data quarto Nonas Octobris anno Dominicae Incarnationis MXV. Indictione decima quarta. Regni vero Domini Heinrici Imperatoris Augusti XIIII. Imperii autem eius II. Actum Meresburg feliciter. Amen.

II

Milano, 17 ottobre 1213 (164)

(S M) Anno dominice nativitatis milleximo ducenteximo tertiodecimo, die iovis quintodecimo ante Kalendas novembris, indictione secunda, presentibus Arnaldo de Canturio, Cresceinbene de Nicolao, Zoanardo Confanonerio et Guilielmo Donatto testibus rogatis.
Dominus Dominicus de Picturano consul iustitie Mediolani precepit mihi Iohanni de Canova publico tabellioni quatenus infrascriptum libellum datum a Monacho de Villa Ghezo de Subinago ad partem domini archipresbiteri et capituli et fratrum ecclesie Modoetiensis autenticarem et publicarem et in publicam formam reducerem, ita ut perpetuo valeat tanquam publica scriptura. Cuius libelli tenor talis est: "In nomine Domini. Ego Monachus de Villa peto quatenus dominus Guido Modoetiensis ecclesie archipresbiter et capitulum ipsius ecclesie et fratres eiusdem ecclesie restituant in consuetum statum duas clusas quas fieri feceram in territorio de Barzanore et factas habebam et tenebam ibi ubi dicitur ad Gambarariam, et unam aliam clusam quam fieri feceram et factam habebam iusta campum meum iacentem in territorio de Buzarino ibi ubi dicitur ante Casam, in capite cuiusdam mei fosati, et quas clusas destrui fecerunt. Item peto ut eas clusas me tenere et possidere non impediant et ut vos consules ex offitio vestro me in possesionem vel quasi predictarum trium clusarum defendatis et manuteneatis postulo, et quas clusas violenter et contra rationem et iniuste idem dominus archipresbiter fecit destrui. Item peto ut easdem clusas in eum statum restituant in quo erant antequam eas destrueret et antequam aliquod opus ibi faceret, et ut omnem terram et omnes lapides et omnia ligna que in duobus mei fossatis violenter prohici fecit extra sive foras predicta fossata extrai et exportari faciat in eum statum et locum in quo erant antequam predicta prohici faceret in predictis meis fossatis.
Quorum fossatorum unum iacet in territorio de Barzanore ibi ubi dicitur ad Gambarariam, aliud vero in territorio de Buzarino ibi ubi dicitur in ante Casam. Quoniam predicta omnia violenter et contra rationem et iniuste idem dominus archipresbiter fieri mandavit et fecit. Item peto ut duo fossata que fieri fecit idem dominus archipresbiter in terra quadam ubi dicitur in Carrecto et quod Carrectum est inter Cremellam et Barzanore et cui Carrecto coheret a mane ecclesie Sancti Salvatoris de Barzanore et in parte via, a sero Monachi de Villa et in parte Sancti Iohannis et Sancti Sisinii de Cremella, a monte Sancti Iohannis et in parte via, ex toto ita conplanari faciat, expanari et impleri et ad equalitatem alterius Carrecti reduci, quod quando terra ibi indurata fuerit in predictis fossatis equalis cum alio Carrecto remaneat, et omne opus quod in eo Carrecto fieri fecit everti et destrui faciat ut supra dictum est, et ut vos consules ex offitio vestro prefatum archipresbiterum predicta omnia facere conpellatis et me ab omni eius iniuria, fortia et violentia tam illata quam inferenda et res meas per offitium vestrum penali iuditio seu auctoritate defendatis, omnia in eum statum restitui facientes in quo erant ante illatas violentias, quoniam ex offitio vestro id facere tenemimi. Quoniam predicta fossata violenter et contra rationem et iniuste et post nontiationem novi operis idem dominus archipresbiter fieri fecit, et quoniam predicta fossata mihi nocent et terra illa in qua facta sunt est pasculum et viganum atque comunantia locorum de Barzanore et de Cremella et de Buzarino et ad me pertinet et spectat et mea est pro indiviso pro parte seu rata sive secundum computationem terrarum et districti et honoris quod et quas habeo in territorio de Barzanore. Et si in predictis obtinere non possem in toto vel in parte, peto ut prefatus dominus archipresbiter et capitulum Modoetiense et eius fratres patientiam prestent in omnibus predictis per me faciendis et adimplendis, et me suprascripta omnia facere non impediant. Datum M.CC.XIII. die iovis. XV. Ante Kalendas novembris.
(S M) Ego Iohannes quod dicor de Canova imperialis notarius et missus regis predictum libellum mandato iam dicti consulis autenticavi et publicavi et in publicam formam deduxi ut supra et scripsi".

III

1571 addì 20 agosto

Ordinationi per la Chiesa parrocchiale di S. Vito del logo di Barzanore.

Pieve di Missalia fatta da noi Carlo Borromeo Ar.vo (165)

1. Si faccia la luneta de argento et il fondo con il cerchietto pur d'argento attorno che siano amovibili nel tabernacolo di ottone (ostensorio di quel tempo).
2. Le particole si tengano in un calice fin tanto che si provveda de una pisside de la quale si provveda quanto prima che sia d'argento ben indorata.
3. Si ingiodi (inchiodi) una tela sopra la pietra sacrata dello altare grande, et se inserisca nello Altare.
4. Lo Altar grande si alzi con un tavolato de asse che sia de l'altezza secondo la misura delle Instrutioni generali.
5. Si metta qualche mesola sotto il tabernacolo di legno che lo sostenti et alzi, le quali mesole accompagnino esso tabernacolo.
6. Il trave che è fuori della Niza (nicchia) de lo Altar maggiore si trasporti più verso lo Altare sotto l'Archo della detta Niza et si provveda che uno Crucifisso qual si metta dinanzi et sotto d.o accompagnandolo sopra detto legno.
7. Il pavimento de la Cappella grande si ingrandisca tanto quanto si estende l'arco della volta de l'Altare.
8. Si rifatia la bradella del detto altare tenendola più bassa et che sia secondo la forma delle Istruzioni generali.
9. Si agrandisca la finestra de l'altar grande alla moderna et si stopino (chiudano) le altre due facendoli la ferada et stamegnia di tela. Si faccia le Ante sopra la finestra del lato destro de lo Altare de la quale si serva per Sacrario e si immetta la chiave.
10. Si provveda dei vasi de li olij sacri secondo la forma delle Istruzioni generali.
11. Si faccia la borsa al vaso di olij per gli infermi.
12. Si incrosti la volta della Cappella grande et se Inbiancha.
13. Il Navello de la acqua santa si accomodi per batisterio et si ponga apresso a la Colona che sostiene le 2 volte de gli altari di santo Rocho et quello di S.ta Maria, facendoli il suo Ciborio piramidale, con un solo (suolo) sotto alquanto più elevato del pavimento di la chiesa, circondato da un feratta bassa.
14. Il vaso che era fatto per battisterio serva per navello de l'acqua santa.
15. Si faccia la sacrastia nella Camera che è sopra la camera abbasso quanto sarà bisogno il tassello di la camera per far mancho scalini che sarà possibile per ascendere di chiesa alla d.a. sacrastia per lo uscio che si farà in chiesa, quando però non si trovi forma di levar la terra a torno la sacrastia vecchia talmente che resti senza alcuna humidità.
16. Ne la d.a sacrastia si faccia lo oratorio et lavatorio per li sacerdoti.
17. Li Calici di questa chiesa si faccino accomodare bene et Indorare fra quattro mesi prossimi, cioè uno fra doi mesi et l'altro fra dui altri mesi susseguenti, et perciò diamo facoltà al Vicario foraneo di profanarli per questo effetto.
18. Si faccia un'uscio di tavole con chiave alla porta del campanile.
19. Si faccia un occhio in fronte di la chiesa per dargli chiaro.
20. Si accomodi il pavimento presso alla porta della chiesa.
21. Lo altar di S.ta Maria assuntione si rifatia dal s.r Cavagliere Nava che sia di la misura con la sua Bradella come si è offerto di fare et anche di dotarla per potervi far celebrare due messe la settimana come ne li atti de la visita, et de le infrascripte cosse con sua comodità cominciando dalle più necessarie.
22. Di dui Candileri di ottone, de una croce di ottone, de una pietra sacrata che sia alla misura quale se inserisca ne lo altare, di bradella secondo la forma.
23. De una anchona honorevole.
24. Uno paramento intiero, cioè palio, pianeta, amito, stolla, manipullo, conformi de setta biancha con comodità.
25. Un camiso guarnito dil medemo del paramento.
26. Uno calice con la patena.
27. Corporali para quattro alla sua misura.
28. Una borsa del medemo de paramenti per detti corporali.
29. Purificatori XII con le sue morinelle et croceta in mezo.
30. Tovaglie grandi che cuoprino tutto lo Altare numero 2.
31. Mantini per sc(i)ugar le mani alla messa numero 4.
32. Una scattola per metter le hostie fodrata di dentro.
33. Baccilette per orzoli numero due.
34. Uno para di orzoli di vetro mondi.
35. Uno missale Ambrosiano.
36. Due para di scangelle depinte et ornate.
37. Il sudetto Cavagliere ci essibisca fra un mese il legato per il quale fa celebrare una messa la settimana a questo altare.
38. Si dimolisca et spiani fin a terra il deposito che è dal lato sinistro del detto altare non ben demolito. (Era probabilmente il sarcofago o deposito sopra terra di Drusilla Giussani.)
39. All'altare di San Rocho si inserisca la pietra sacrata. Se gli proveda di bradella secondo la forma.
40. Di uno para di candileri di ottone.
41. La finestra di questo altare si alzi tanto che per difori non si possa guardare in Chiesa.
42. Si levino tutte le bredelle de dona (donna) fora di chiesa né più vi si mettino.
43. Si proveda un Confessionale secondo la forma.
44. Si proveda in questa chiesa parocchiale di li infrascritti paramenti.
45. Si faccia uno paramento intiero rosso, cioè pallio, pianeta, amito, manipolo, et stolla conformi.
46. Corporali para uno.
47. Borse due per mettervi dentro detti corporali del colore di paramenti.
48. Purificatori numero 12 con le sue Crocete in mezo et morinelle.
49. Uno vaso per lavar detti purificatori che non serva ad altro.
50. Si guarniscano li camisi del color di paramenti.
51. Tovaglie picole numero 3 per gli altari.
52. Mantili per sc(i)ugare le mani alla messa numero 4.
53. Uno vello anchora per il calice.
54. Una scatola per metter le ostie fodrata di dentro.
55. Due bacilette per metter gli orzoli.
56. Due para di orzoli di vetro netti.
57. Una continenza grande per portar il S.mo Sacramento.
58. Un aspersorio ornato per accompagniare col sidelino, quale però non sia di spongia.
59. Un thuribulo, navicella, et cugiaro (cucchiaio) per incensare.
60. Serviette numero 2 per adoperare alli Battesimi.
61. Un altro paramento rosso come di sopra per tutto l'anno che vene.
62. Il Curato pro tempore mantengi un chierico in habito che serva alla Chiesa con la cotta.
63. M. Ambrosio Pirovano monstri in termine di due mesi al Vicario nostro generale la investitura livellaria per la quale gode 50 pertiche di terra nel luogo di Viganor nella chiesa di S.to Vitto fatta da prette Antonio Pirovano suo nepote sotto penna della perdita delle sue ragioni, et il Vicario generale veda se la investitura non è licitamente fatta o si in essa è lesa la Chiesa, ne li quali casi proceda alla restitutione somariamente, secondo che sarà di giustizia, senza processo in vigore di questa nostra visita.
64. Si metta fuori quanto prima l'editto per provedere d'uno Curato a questa parochiale Chiesa vacante per la suspensione propria fatta di prè Antonio Pirovano.
65. Il Curato faccia sapere al Curato da Renate, pieve di Aliate dove da Pasqua in qua è andato ad habitare Giacomo de la Donna inconfesso di questa Pasqua passata che lo pubblichi interdetto dal quale non lo liberi senza le debite penitenze pubbliche et facoltà del nostro Vicario generale.
66. Battista Pirovano perseveri nel avenire fin tanto in lui durerano le forze del infrascripto legato di far la distribuzione a poveri di stara 12 formento in pane ogni anno in questo modo, cioè pani 2 per chiascuna persona de la famiglia de Pirovani in Barzanore et lo avanzo alli poveri del logo. Come è tenuto per pezza di terra prato et vigna posta nel teritorio di Cremella dove si dice alla Castillana de pertiche 40, lasciate per legato da la già Madona Castella Pirovano al più antico sempre di detta famiglia pro tempore col d.o. carico, et hora goduta dal d.o m. Battista in virtù di detto legato.
67. Et rispetto di moza 15 et mezo restate da san Martino dil anno 1570 passato indietro, esso m. Battista le distribuisca in anni cinque prossimi, cioè la ratta parte ogni anno et in tutto et per tutto come ha promesso et ne ha dato sigurtà per publico instromento rogato dall'infrascritto Nottaro di la visita.
68. Prima che si faccia la sudetta annuale distribuzione il pane si pesi sempre ogni anno alla presenza del Curato et del Priore di la Scola dil Corpus Domini, et fori di quella parte che per la forma del legato si ha da distribuire a quelli di la famiglia di Pirovani non si faccia distributione ad alcuno che non sia veramente povero et habia prima una fede di povertà firmata di mano dil Curato et tutto quello distribuisca, non servata la forma di questo nostro decretto non si li faccia a bono come si non lo havesse distribuito (166).
69. Il Vicario nostro generale chiami a sé Gio. Andrea Gallo tessitore di drappi di setta et Aluigi orefice, fratelli de Galli in Milano, perché essibiscano in sua mano il legato fatto per il già Giacomo Gallo suo avo che si dice rogato per il già Lantellmo Pirovano da Barzanore o per M. Nic.a Mariano notaro di Milano o per Battista Rosso notaro di Milano con carico di far ogni anno perpetuamente sette sotane di lana o fustanio a sette povere putte dil Comune di Barzanore, nello atto quando si maritano, il qual è stato esseguito qualche volta da suo patre, et essi costringa a sotisfare a detto legato anchora per tutto il tempo che hano mancato (167).
70. Li eredi del già Donato de Pancerij del detto luogo tenuti per obbligo de soi maggiori a far celebrare certe messe et distribuire certa elemosina, fra termine de X giorni et sotto penna ad arbitrio nostro produchino negli atti della visita tutte quelle fede et scriture che possono dar instrutione del origine del detto obbligo et giurando di non poter monstrare maggior chiarezza di quel che si cava dallo uso continuato de suoi magiori giurino in mano del nostro Vicario foraneo di haver sodisfato per il passato conforme al d.o uso, et perseverino di farlo per l'avenire sin tanto che secondo la notitia che ne haveremo magior col tempo gli ordinaremo altro et pretendendo di ciò restar gravati fra il termine predetto deduchino avanti a noi o a nostro Vicario generale ogni sua ragione et eccetione.
71. Prete Manfrino Pirovano fra 15 giorni (consegni) lire 67 e soldi 7 nelle mani di prè Gioseffo de Riva, quali gli sono restati in mano de le spese et riceuti de gli frutti della Capella di san Blasio et della parochia di San Vito de Barzanò come apare per conto fatto con lui de le quali ce ne sono lire 42 soldi 10 a conto della Capella di san Blasio et il resto a conto della parochia di san Vito.
72. Il sudetto prette Manfrino non riscota più né danari né roba di dette chiese, et se si trovarà haverne scosso doppo il conto overo più di quello che ne ha dato in lista lo consegni al sudetto prete Gioseffo.
73. Li scossi inanti il conto sono li infrascritti, cioè per la cappella:

Formento mogia 1 stara 1
segale " 5
orzo " 5
vena " 4 1/2
ciceri " 1 1/2
fave " 1 1/2

Per la parochia sono:

Formento moza 4 stara 6
segale " 2 " 4
ciceri " 3
fave " 3
ljinosa " 1
fieno centenara 8 (168)
74. Il sudetto prè Gioseffo riscotta il restante de detti frutti per spendere in benefitio di dette chiese overo per dargli al successore come da noi sarà ordinato.
75. Darà anchora delli sudetti frutti lire 40 a prete N. da Bulciago per le sue fatiche che ha fatto in servitio della parochia di Barzanò overo che da noi sarà ordinato di qua a due mesi.