home

Opera omnia

LIBRI

Porto d'Adda

Consuetudini... Valtravaglia

Robbiano Brianza

Misura... di Vimercate

Cornate d'Adda

Appunti storici

Il congresso di Pontida...

Barzanò

Agliate e la sua basilica

Pagine di storia briantina

Absidi della basilica e del battistero.

APPUNTI STORICI SU ALCUNI MONASTERI E LOCALITÀ DELLA BRIANZA

SECONDA EDIZIONE AMPLIATA - SCUOLE GRAFICHE ARTIGIANELLI PAVONIANI - MONZA 1966

Il fortilizio Visconteo-Sforzesco di Santa Maria della Rocchetta sopra Trezzo

Presso Porto d'Adda, là dove il naviglio di Paderno sta per confluire nell'Adda, s'innalza tra questa e quello, in mezzo alla valle, l'altura della Rocchetta. Su quest'altura rocciosa, la quale scende a picco sul fiume e guarda i confini di tre provincie, la comasca, la milanese e la bergamasca, un dì sorgeva un piccolo convento dedicato alla Madonna, trasformato poi in fortilizio visconteo-sforzesco e detto perciò di Santa Maria, od anche « supra Abduam », « supra Tricium », «fortezza de Sancta Maria de Trezo ». Lassù, in alto, oggi vi domina ancora, quasi reliquia del passato, la chiesina di S. Maria, le cui origini ci ricordano uno dei momenti più interessanti della vita milanese: l'erezione del Duomo di Milano.
Beltrando o Beltramo « de Cornate », dottor fisico e cittadino milanese (1), non contento di concorrere con offerte alla costruzione del magnifico tempio di Milano, volle ancora, desiderando di cambiare in doni celesti i beni di questa terra, poco prima del 1389 far erigere « de novo » nei suoi possessi della Rocchetta un conventino con annesso un oratorietto, o chiesina dedicata a S. Maria, col suo campaniletto con campana. Dotatolo con una parte dei suoi beni, lo donò ai frati eremitani di S. Agostino (2)
All'accettazione di quel pio dono ostava la bolla di Bonifacio VIII, per la quale si vietava agli ordini mendicanti di assumere nuovi luoghi. Il padre Bartolomeo da Venezia, generale dell'ordine, inoltrò supplica a Bonifacio IX, perché volesse concedere ai frati eremiti Agostiniani di Milano di poter raccogliere la pia donazione.
Il Papa, derogando ai decreti di Bonifacio VIII, annuì con bolla del 1389, salvi sempre i diritti parrocchiali.
*

Il piccolo convento prese tosto a prosperare. Il 26 ottobre 1397 i padri, al suono della campana, si raccolsero in capitolo nel refettorio della casa per deliberare sul mezzo migliore di affittare i loro beni donati da Beltrando. Si diede il mandato al priore del convento, frate Marco da Merate, e a Giovannino de Pusterla, Andreolo da Soma, Bartolomeo de Marco, tutti frati professi costituenti la « maior et sanior pars... et etiam tres partes ex quatuor partibus omnium fratrum et totius capituli et conventus dicte domus ».
Sette anni più tardi, nel luglio del 1404, le porte della chiesa di Santa Maria della Rocchetta si apersero per raccogliere nella pace del sepolcro le mortali spoglie di Lodovico Visconti, figlio legittimo di Bernabò, morto vittima della ragion di stato nel castello di Trezzo nell'età di quarantasei anni, dove dalla morte di suo padre, era stato tenuto prigioniero dal cugino Gian Galeazzo (3).
Senonché il convento, benché situato nella boscosa e deserta valle dell'Adda, non doveva a lungo godere della mistica quiete, né i frati salmodiare in pace.
Nella prima metà del secolo XV su queste sponde fu un infuriare di lotte tra guelfi e ghibellini, tra veneti e ducali. Il convento della Rocchetta andò travolto da quegli avvenimenti. I padri per le continue violenze ed oppressioni dei soldati che militavano in quelle parti, dovettero abbandonare il convento, che tuttavia continuò a sussistere canonicamente, disperdendosi per i paesi circonvicini e aiutando le chiese secolari.
Il luogo, divenuta l'Adda nel 1428 confine tra la Signoria veneta e il Ducato milanese, si prestava molto bene alla sorveglianza dei diversi guadi lungo la costiera del fiume (4). Filippo Maria Visconti fece occupare e ridurre a fortilizio il piccolo convento ponendovi di guardia un castellano con alcuni soldati.
La chiesa fu risparmiata, come risulta da un'ispezione ducale del 1458 (5)
Per la lontananza dei frati molti beni del convento andarono perduti o incolti.
*

Nel decreto del generale dell'ordine Ambrogio Coriolano del 20 ottobre 1484, per il quale s'imponeva la soppressione e l'incorporazione, con tutte le sue ragioni e pertinenze, del convento della Rocchetta con quello di S. Marco in Milano, è detto come « iam fere annis quinquaginta et ultra a nostris fratribus destitutus et derelictus et per duces Mediolani occupatus, et in fortalitium deductus ob conservationem et custodiam fluminis Abduae atque castellano et custodibus traditus, ita ut longissimis temporibus fratres ibidem stare non potuerunt neque possunt, et licet ibidem per Provincialem sit deputatus Prior cum solutione collectae et oneribus Provinciae, attamen hoc fuit et est potius in scandalum Religionis quam ad honestatem, cum hujusmodi Priores habitent in domibus saecularium, et magis deserviant Ecclesiis saecularium et utilitati propriae quam conventui et religioni, ac etiam multa bona ipsius conventus sunt admissa et perdita ac etiam transeunt inculta propter absentiam ipsorum fratrum; nos igitur... » ecc. Il decreto del padre Coriolano rimase lettera morta, finché il generale padre Ambrogio da Viterbo lo richiamò in vigore nel 1513, curandone l'esecuzione. Papa Leone X confermò tale unione con bolla del 30 ottobre 1514. Ma l'incorporazione non divenne effettiva che nel 1517, come da istromento del 3 marzo, e ciò per l'opposizione fatta, nell'interesse della sua provincia, dal padre Lazzaro di Novara, provinciale di Lombardia. Nel 544 gli Agostiniani di S. Marco incominciarono a comperar fondi anche in Porto, e man mano gli aumentarono così che al momento della loro soppressione (1797) erano divenuti proprietari di oltre due terzi del territorio di Porto.
Con istromento 7 luglio 1544 avevano acquistato in Porto Inferiore dal milanese Gerolamo Porta della parrocchia di S. Vito in Milano la casa da nobile e da massaro con 156 pertiche di terra situate in Porto e coltivate a campi, vigne e boschi, sborsando imperiali lire 2583. I padri aggiunsero alla casa da nobile un oratorio dedicato a S. Nicola. L'affresco, di scuola luinesca, della Madonna col bambino, avente ai lati S. Agostino e S. Nicola, che tuttora si ammira nell'oratorio, venne da alcuni attribuito a Bernardino Luini, il quale lo avrebbe dipinto allorché, si dice, quivi eludeva le ricerche governative, ospitando presso i frati di S. Marco. (6) Ma questo non puo essere se il Luini è morto non dopo il 1533, mentre gli Agostiniani comperarono la casa e vi apersero l'oratorio non prima del 1544 (7) Chi sia l'autore non saprei, né mi fu dato rintracciarlo dalle carte del convento.

*

Morto il 13 d'agosto 1447 Filippo Maria e proclamata dai milanesi la repubblica ambrosiana, il 15 novembre 1448 venne emanata una grida contro quei cittadini che non volevano pagare il tributo al tesoro della città. Tra questi c'erano Luigi Carpani e fratelli castellani di Santa Maria sopra l'Adda.
Caduta la repubblica ambrosiana, Francesco Sforza entrò signore in Milano il 26 febbraio 1450. Tuttavia la guerra tra il nuovo duca e lo stato di Venezia durò ancora per quattro anni. Il fortilizio della Rocchetta, per quanto non avesse l'unportanza dei castelli di Brivio e di Trezzo, situato com'era sui confini dei due Stati, era tenuto dallo Sforza in una certa considerazione. Per tanto il 25 marzo 1450 mandò, castellano alla Rocchetta, Francesco de Cotignola con dodici paghe, metà balestrieri e metà pavesari, una morta computata, col salario di tre fiorini per paga.
Né, a quanto pare, fu lasciata senza presidio la torre di Porto, poiché nel 1452 vi era castellano un Giacomo Scotto di Monza, la cui famiglia venne a stabilirsi in Cornate. La torre rimonta pur essa al tempo di Filippo Maria Visconti.
I documenti ducali ci porgono due lettere del Cotignola, datate dalla Rocchetta il 15 marzo 1452, indirizzata l'una a Cecco Simonetta, l'altra allo stesso duca Francesco Sforza. Col Simonetta il castellano si lamenta che « Bertrando d'ada et uno Raynino », addetti alla provvisione ducale, i quali stavano in « Cornà qui presso a la Rocheta » e facevano « ogni dì mille ribalderie et barratarie, robando questo et quello soto pretexto di esser provisionati » non solo non gli volevano riconoscere la licenza di poter condurre vettovaglie e biade alla Rocchetta per sé e per i suoi compagni, ma gli avevano anche sequestrato una bella cavalla, carica di grano, quasi fosse un ribelle, e che non potè riavere cavalla e grano se non sborsando un ducato.
Più franco e rude, per quanto dica di farlo « cum reverentia et perdonanza », scrive a Francesco Sforza che, nonostante la lettera patente a lui concessa di poter rifornire di vettovaglie e biade la fortezza, giacchè non poteva « viver de Spirito Santo », Bertrando e Raynino osavano contrastargli il permesso. Lo prega di fargli restituire il ducato da lui sborsato e di rifirmargli la licenza per aver vettovaglie; diversamente, conchiude, « se degni levarmi di qui dovo stento ad modo d'un cane cum li miei compagni et per non haltra ragion d'intrare in magior desperatione chel loro così m'induce ».
Francesco de Cotignola ottenne infatti di essere esonerato dalla castellania di Santa Maria della Rocchetta, e col 1° aprile subentrò Alberto de Berzano con le stesse paghe e con lo stesso salario. Le patenti del nuovo castellano erano state firmate fin dall'8 di marzo; dal che è lecito arguire che già Francesco Sforza pensava di levare dalla Rocchetta il Cotignola, forse spinto da altre lettere precedenti del castellano di volersene andare da quel luogo.
Alberto de Berzano esercitò per breve tempo la sua carica, giacchè la duchessa Bianca Maria il 26 ottobre lo fece sostituire da Bartolomeo de Terzago. Questi ebbe quindici paghe, una morta computata. Del Terzago abbiamo parecchie lettere. In una di queste, del 30 dicembre 1452, informava il duca della presenza di nemici « in la valle de sancto martino et in ysola del pregamascho », i quali andavano cercando i guadi dell'Adda per passarla. Gli ricordava che stavano vicini « a un miliaro e mezzo trey guadi, in i qualli ne sono duy si pono aguazare, el nome de l'uno è il guato de zorloto, et l'altro è il guato de peterlino, qualli non è anche facta provixione niuna, per li qualli si poterebbe danezare grandementi il paese che tempore de la bona memoria de lo Ill. quondam vostro patre, sempre in ital tempi suspecti, gli faceva fare la guarda da quaranta iìomeni ogni note, gli qualli continuamente parte di loro discoreveno la rivera, et parte stavano in la tore de porto per refrescharsi di hora in hora, a le quali guarde contribuyveno tute le tere de qua da Lamboro su questa banda. Vi facio anche un altro recordo il qualle cumsona con questo, zioè la tore de porto serà anche cum mancho pericullo et mellio guardata et più utili al stato de la Ill. S. vostra, per questi respecti che il castellano dessa tore non gli è dentro che homo sia se non luy et uno suo fliòlo et la più parte del tempo luy sollo ».
La vita che si conduceva lassù nel forte della Rocchetta, sperduto in mezzo a solitarie boscaglie e come tale più adatto ad un eremo di frati che ad una guarnigione di soldati, non doveva essere certamente piacevole. Infatti il 26 gennaio 1453 il Terzago scriveva al duca, lamentandosi della poca paga che riceveva, e che i soldati a stento rimanevano in quel luogo deserto, dove bisognava « comperare perfino a lo solle ». Ma più di tutto si lamentava dei provvisionati ducali, i quali, ribaldi e contrabbandieri, accusavano il castellano della Rocchetta di far del contrabbando per coprire le loro furfanterie. Questi lo spiavano, e la notte del 17 gennaio avevano mandato quaranta fanti sotto il forte « a morir de fredo », credendo che in quella notte il castellano facesse condur del grano.
I suoi nemici lo avevano accusato presso il duca di non attendere come si doveva alla guardia della fortezza. Alle osservazioni del duca rispose con lettera del 17 settembre 1453 com'egli facesse del dì la notte e della notte dì, e che quando gli accadeva di allontanarsi curava si facesse buona guardia, lasciandovi suo fratello assai più abile di lui. Gli ricordò infine che dopo tutto lassù stentava come un cane. Ma in seguito fu ridotto a sei paghe, una morta computata e anni dopo non mancherà di ricordare l'affronto ricevuto in sua lettera al duca del 27 ottobre 1458, scrivendo: «ho avuto notitia... che molta gente d'arme... siano nella notte venuti in la vale de Sancto Martino... aziò quella fortezza (di Santa Maria) non sinistrasse per manchamento, replicarò recordi facti alla S. V. nel ano 1454, videlicet ternpore quo la cecha de S. V. me fece la detratione de le paghe, recordando alla Ill. S. V. essa forteza zoè la Rocheta da Sancta Maria essere devixa, et che non era possibile guardarla nixi cum paghe quindeci ala più streta provixione, al che la S. V, per li collaterali V. me fu facta resposta, che non dubitassi che la S.V. aveva tal fraternità cum la S. de Venetia non aveva dubitare, et che quando la V. S. avesse uno suspecto farebbe tal provisione », ecc.

*

Non poche seccature ebbero il castellano della Rocchetta e Giacomo Scotto della torre di Porto, riguardo al contrabbando di grani e di sale verso il territorio veneto, che avveniva attraverso i guadi dell'Adda da Trezzo su fino a Paderno. Anzi più che sospettati era stati accusati presso il duca di aver mano in quelle frodi e ricavarne illeciti guadagni; i « quali dui volendo esser valenthuomini non si poria froxare per quelli passi ». In una lettera del 13 giugno 1455 Marcolo de Marliano, Giovannino Barbato e Gaspare Santo, residenti nel castello di Trezzo, pensano di deputare delle persone di fiducia, due o tre con le loro famiglie, in modo che Iacomo Scotto se torni a Cornate con la sua famiglia, ma che per la Rocheta nulla essi potevano fare perché il castellano non avrebbe accettato senza lettera ducale.
E cinque giorni dopo i sopradetti tornavano ad avvertire il duca come qualmente il contrabbando si commette « per mani del castellano de la Rocchetta di Sancta Maria, et per mano dun Iacomo Scotto da Cornate habitante in la torre de Porto qual fece cassare la S. V. ad questo anno novo proximo », e che perciò hanno deliberato di mettere insieme a detto Iacomo una persona di fiducia.
« Ma tale Iacomo, che non può fare i guadagni che vorrebbe, specialmente ora che i prezzi dei grani sono rincarati, verrà dalla S. V. per ottenere di rimanere da solo nella guardia della torre ».
Come se la cavassero il Terzago e lo Scotto non mi risulta. Il castellano della Rocchetta continuò nella sua carica, segno evidente che avrà trovato modo di giustificarsi presso il duca di quelle accuse.
Impedire il contrabbando fu sempre un impegnativo per tutti i governi: naturalmente non mancavano talora manutengoli e interessati al contrabbando tra coloro stessi che dovevano impedirlo.
Il fortino della Rocchetta e la torre di Porto non erano in realtà che posti di guardia per sorvegliare eventuali movimenti nemici sull'altra sponda veneta, e impedire gli sfrosi dal milanese nella Signoria veneta.

*

Sotto Medolago, sulla riva del fiume di fronte alla Rocchetta vi stava un molino per il quale, sul finire del 1455, si era costruita una nuova chiusa.
Il 28 gennaio dell'anno seguente il podestà di Trezzo Ambrogio Convoldo, e Zanino Barbato ne informarono il duca, avvertendo innanzitutto che molti uomini della Serenissima passavano nel milanese. E aggiunsero: « Item iuxta Medolago da Bergamascha, qual è per mezo la Rocheta de Sancta Maria sopra Ada, è uno zapello per il quale passa nave quale sono del canto de là », e conducono legname e biade. «Et lì ad quello luoco è facta una palificata nova in Adda de palle XXIIII, più del usato ad uno molino del canto de là, quale piglia quaxi più del terzo del fiume Adda, quale non fuy più basso sete anni fa, et prova questa talle palificata ad tempo per uno guado poter passar » ecc.
In merito a questa chiusa abbiamo del 28 febbraio 1459 un'altra lettera da Trezzo di Marco Marliano (8) nella quale si dice... « et certo me meravigliai, et meraviglio che el castellano de la Rocheta de Sancta Maria, quale stando in la Rocheta pò vedere la dicta chiusa, gli habia consentito lui, et non lhabia notificato ad la S. V... Et è la dicta chiusa larga brazi doa et mezo facta con palli et fassine et talmente forte che gli andarà pur su uno cavallo caricho, como el faria per terra ferma. Et è longa braza cento vinti. Et viene tanto nel Ada che per doi canaletti se poteria passare dal canto de qua. Et forte in modo che duraria cento anni, ne laqua punto potria guastare ne menar via » ecc.
Come siasi risolta la cosa non mi consta. Sembrerebbe una quisquiglia questo della chiusa, ma allora aveva la sua importanza, in quanto il letto del fiume spettava al ducato di Milano, in base ai capitoli tra i due stati confinanti. E appunto nel marzo del 1498 sorse una controversia per ragione di confini tra Milano e Venezia, allorquanto sudditi veneziani presero ad edificare un molino sull'Adda di fronte ad Imbersago.

*

Da un'ispezione d'ordine ducale del 1458 per la nostra Rocchetta venne stabilito, come già si è accennato, di rimettere in piena efficienza il fortilizio col far eseguire al più presto quanto fosse necessario (una cisterna, una saracinesca, alcuni merli, riparare le coperture del fabbricato, ecc.), e nello stesso tempo restaurare anche la chiesuola che, abbandonata a se stessa, minacciava di sfasciarsi completamente.
L'8 marzo 1466 moriva il duca Francesco I Sforza, e la duchessa, assente il figlio, ne assumeva provvisoriamente la reggenza. In vista di eventuali complicazioni per il ducato, il capitano della Martesana Ottaviano Turco ebbe senz'altro l'incarico di ispezionare e rimettere subito in assetto la Rocchetta di Santa Maria, la torre di Porto, e il castello di Brivio. Nella sua relazione del 10 marzo abbiamo che fece rifornire la nostra Rocchetta di 5 mogia di grano, e che vi spedì un carro di assi per fare «mantelletti » (una specie di parapetto). Il castellano non trovò necessario per il momento un aumento del presidio.
Per la torre di Porto scrive: « Ho facto fortificar anzi me sia prescritto da la Imprixia la tore de Porto, et li ho ordinato che die noctuque li stiano homini XXIIIJ del paexe sì per la guardia de la tore, come etiam pur trascorrere per la rippa d'Adda per lì de torno a ziò che periculo non li possa cadere ».
A Francesco Sforza successe nel ducato il figlio Galeazzo Maria. Tra le prime cure del giovane duca e di sua madre Bianca Maria, fu di ben vigilare i confini dello stato e che vi si facesse buona guardia. Perciò il duca, dopo aver confermato il 15 aprile 1467 Marco Marliano castellano di Trezzo, e mandato il 1 luglio castellano a Brivio Stefano de Marliano con dieci paghe, due morte computate, pensò di provvedere anche al forte di Santa Maria della Rocchetta che ne aveva maggior bisogno. E poiché il castellano della Rocchetta lasciava a desiderare nel disimpegno della sua carica, il duca lo surrogò con Antonio Mirani de Vailate, allora connestabile della torre di Como, con lettere patenti dell'ultimo giorno di settembre del 1467.

*

Al nuovo castellano vennero fissate dodici paghe, una morta computata, metà balestrieri e metà pavesari, con lo stipendio di tre fiorini di paga, ma coll'obbligo di tenere compagno il figlio Cesare. A questi si doveva sborsare mezza paga morta. Alla torre di Como mise Antonello de Santo Cristoforo che stava alla guardia della bastia e del ponte sul Po a Piacenza, e quivi mandò Domenichino da Pietrasanta caporale dei provvisionati nel castello di porta Giovia. Di questi cambiamenti da lui fatti il duca informò la madre con lettera del 3 ottobre 1468, pregandola specialmente a voler confermare la nuova elezione di Antonio Mirani, « che è persona da bene et fidato, et sempre li suoi sono stati servitori delli nostri predecessori s. Visconti, incominciando dal duca Zohanne et poi della felice memoria del s. vostro padre et mio avo, et successive esso Antonio dell'Ill.mo quon. s. mio patre ». Antonio Mirani, riconfermato dalla Duchessa Bianca Maria, se ne venne alla Rocchetta munito delle seguenti rigorose istruzioni:
« Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani etc.
Antonio de Vailate. Volimo et te comandiamo che per quello tempo staray alla guardia della forteza de sancta maria de trezo, de la quale te havemo ellecto castellano, debii servare li ordeni infrascripti et ad quilli non contrafaray may ne consentirai ad chi li contrafacessi o tentasse contrafare per dricto ne per indirecto per alcuna casone o rasone quale dire o imaginare se potesse, sub pena amputationis capitis tui et perditionis fidei, anime et corporis, et de perdere tutti li toy beni presenti et da venire, overo ogni altra pena che ad noy parirà.
Primo. Volimo che con singulare fede et diligente guardia in ogni tempo guardi tegni et conservi dicta forteza ad nostro nome, instancia et peticione, et de quello delli nostri figlioli legitimi che serà successore in questo nostro ducato et dominio; et quella, per ambassate et comandamenti te fosseno facti, né per lettere te fossero scripte per chi se sia, non consigneray may ad homo se non ad chi nuy te diremo de nostra propria bocha aut ad chi te scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, signata de mano de uno delli nostri segretari, et sigillata del nostro ducale sigillo in cera biancha et te portarà el contrasegno havemo con ti, et precipue quello te havemo dato de nostra propria mano, senza el quale se ben havessi tutti li altri contrasegni non consigneray dicta forteza. Ma se te lo scrivemo per lettere sottoscripte de nostra propria mano con el contrasigno te havemo dato de nostra propria mano, alhora la conconsigneray secondo te scriveremo se ben non havessi li altri contrasegni, perché volimo che quello solo senza l'altri basta, ma l'altri senza quello, non.
Secondo. A ciò che per trovarte fora della rocha non te occoresse manchamento, como già è intervenuto ad atri, non volemo che, per lettere te fossero scripte ne per ambassate o comandamenti te fossero facti per chi se sia, debii may ne de dì ne de nocte uscire de dicta forteza se non haveray licentia da nuy ad bocha o inscripta et sottoscripta de nostra propria mano, signata de mano de uno de nostri secretarii, sigillata del nostro ducale sigillo in cera biancha et ancora sigillata dentro della nostra corniola che impreme uno arboro et uno pino, et in pede d'esso pino uno cane in cera rossa, como serà qui de capo, et lo contrasegnio te havemo dato de nostra propria mano, senza el qual non usceray ancora che havesse tutti li altri contrasegni. Ma se te daremo licentia sottoscripta de nostra mano con lo contrasegno te havemo dato de nostra propria mano, alhora usciray, se ben non havesse l'altri, contrasegni, perché volimo che quello solo vaglia senza l'altri, ma l'altri senza quello, nò.
Tertio. A ciò che per acceptare gra numero de zente in la forteza non ne fosse cacciato fora ti, como già è intervenuto ad altri, non volimo che per lettere te fossero scripte, né per ambassate o comandamenti te fossero facti per chi se voglia, debii acceptare in dicta forteza più de due persone ad uno tracto, et quelle intrate non lasserai intrare altre se le prime intrate non serano uscite. Et quando noi vorimo che per guardia d'essa forteza o per altra casone, salvo nel caso del consignare la rocha nel quale volimo servi e! primo capitulo ad litteram como sta, lassi intrare maior numero de due persone o te lo diremo de propria bocha aut tello scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, signata de mano d'uno delli nostri secretarii sigillata del nostro ducale sigillo con cera biancha et sigillata dentro della nostra corniola, che impreme uno homo et una bissa in cera verde, como serà qui de capo, et el contrasegnio te havemo dato de nostra propria mano senza e! quale non accepterai alcuno dentro et che avesse tutti gli altri contrasegni. Ma quando tello scriveremo per lettere sottoscripte de nostra mano et te manderemo dicto contrasegnio te havemo dato de propria mano, exeguiray quello te scriveremo et che non havessi l'altri contrasegni perché volimo che quello, che quello solo, vaglia senza l'altri, ma l'altn senza quello, nò.
Quarto. Volimo che tucte le nostre munitione troveray in dicta forteza, aut li faremo mettere per l'advenire, le guardi et conservi molto bene, et de quelle, per lettere te fossero scripte né per cosa te fosse dicta per chi se sia, non ne consumaray ne daray cosa piccola né grande ad homo del mondo, se non haveray licentia da nuy ad bocha aut inscripto et sottoscripta de nostra propria mano.
Quinto. Volimo che, oltra dicte nostre munitione, habii et tenghi in dicta forteza tante victualie de le tue che bastano per ti e per li toy per un anno, videlicet; moza tre de formento, stara quattro de farina de formento, brente sei de vino, bnenta uno de aceto, peso uno de olio, peso uno de carne salata, peso uno de formagio, libre doe de candele de sevo, staro uno de sale, paro uno de calze et duy de scarpe, et carro uno de legna per cadauno compagno, tucti alla mesura et peso milanese.
Sesto. Semo contenti che in dicta forteza possi vendere pane, vino, et carne senza dacio alli toy tanto, et in quella non volemo lassi zugare ad zogo niuno dishonesto ne presti né lassi prestare ad usura, né fare arte de lanificio, né fare altre arte dove concora multitudine de zente, né patiray che per questa se fraudano li nostri dacii. Imo ali datiani prestaray ogni aiuto et favor honesto.
Septimo. Volimo che continuamente tenghi tucte le tue paghe, per mità balestreri et l'altra mità pavesani, apte, fidate, et apparisente, che non siano de quella Terra ne de loco presso mancho venti miglia né del Dominio de Venetiani, né li habiano patre, matre, fratelli, figlioli, né sorelle, né parenti, et dessi non ne lasseray uscire fora alcuno né de dì né de nocte senza licentia nostra, salvo che de dì siamo contenti ne lassi andare per toy et loro bisogni fora uno o duy, con questo che la sera alle XXIII hore se trovano tutti alla sua guardia. Semo ancora contenti che, per fare tue rasone et per mandare per victualie, possi mandare uno delli toy che stia absente per uno mese, l'andare, stare et retornare computati. Item te concedemo licentia che alli toy possi lassare tenere le mogliere fino in tre, dummodo non siano de loco presso quella rocha mancho de venti miglia, et non li abiano patre, matre, fratelli, sorelle, né parenti, et non siano del dominio de Venetiani, et tu né alcuno delli toy non farete parentado senza nostra licentia. Alla porta de dicta forteza teneray tal guardia che niuno li possa intrare, se non con tua licentia et secondo questi nostri ordeni.
Octavo. Non volimo che in quella forteza accepti persona alcuna senza nostra licentia, aut se non te serano consignati da nostri officiali per rasone de stato o altre cose importante, et quelli accepteray per qual se sia de dicte casone. Non li lasseray senza nostra licentia sottoscripta de nostra propria mano.
Nono. Accadendo te sentire cosa alcuna sia contra e! stato o persona nostra o delli nostri figlioli, volimo con ogni tuo potere et sapere lo deveti non sortisca effecto, et subito per tue lettere et messi ne avisi in ogni loco dovo saremo. Et questi nostri ordeni et tutte l'altre cose te serano commesse le teneray secrete et le exequiray con fede et diligentia, et cossi faray tutte le altre cose è obligato et debe fare cadauno Castellano et Servitor verso e! suo signore.
Ex castris nostris apud Caresanam XX oct. 1467.
Galeaz Maria Sfortia Vicecomes manu propria.
Cichus (9)
Si noti che quando un castellano lasciava la carica, consegnava al nuovo entrante, dietro contrassegno ducale, il forte con tutte le sue munizioni, e se ne stendeva regolare istrumento, del quale se ne mandava copia autentica al duca stesso.
Il nuovo castellano seppe corrispondere alla fiducia del duca, poiché attese con impegno alla custodia del forte dove lo colse la morte sui primi d'aprile del 1479.
La duchessa Bona, che aveva assunto la reggenza per il figlio Giovanni Galeazzo, dopo che il duca Galeazzo Maria era caduto pugnalato nel 1476, affidò l'officio di castellano della Rocchetta a Giovanni, figlio di Antonio Mirani, 1'8 aprile 1479, in considerazione dei meriti del padre. Gli aggiunse per aiutante il Contino da Robiate. Al nuovo castellano furono assegnate dodici paghe, una morta computata, metà balestrieri e metà pavesari, col mensuale stipendio di tre fiorini, agguagliato il fiorino a trentadue soldi. Il Contino doveva percepire, oltre la sua, altra mezza paga morta.
Il Contino, un antenato dei viventi baroni Airoldi di Robiate, pochi anni prima aveva sborsato cento fiorin per avere la podestaria di Mandello, la quale invece fu concessa ai conti Rusconi. Pare che, invece di restituirgli il denaro del quale egli ne reclamava la restituzione, gli si fosse promessa la castellania della Rocchetta. Caduto gravemente ammalato Antonio Mirani, il Contino, in una supplica agli eccellentissimi principi, ricordò la promessa fattagli, facendo presente anche « la sua fede et devotione verso e! stato et chel ha quatro tra fioli et abiatici in bona etate ». Gli venne allora richiesto uno stato di servizio della famiglia verso la casa ducale, che il Contino presentò alla duchessa Bona (10). Così ottenne di essere associato nella castellania della Rocchetta con Giovanni Mirani. Questi, poco dopo, lasciò la carica di castellano. Vi rimase solo il Contino, al quale nel marzo del 1481, veniva concesso di potersi assentare dalla fortezza, qualora gli occorresse per bisogni a patto che lasciasse a custodia della medesima il figlio Desiderio.
Il Contino, divenuto vecchio ed ammalato non potendo piu attendere con la necessaria diligenza all'officio suo, domandò di essere esonerato. Il duca, o meglio il reggente zio Lodovico il Moro, con lettera del 27 agosto 1489, gli concesse l'esonero e, considerando la sua fedeltà alla casa ducale, pose in suo luogo il figlio Gio. Ambrogio, nella certezza che questi non avrebbe degenerato dai lodevoli costumi del padre.
A Gio. Ambrogio veniva concesso due giorni dopo (29 agosto) di potersi assentare per bisogni dal forte, a patto che in sua assenza lasciasse alla custodia della rocca il padre suo insieme a Pedrino Airoldi. Qualora poi il padre avesse a riacquistare la sanità, e volesse perciò stare alla guardia della fortezza, gli si concedeva di potersi assentare, senza che gli venisse ritenuta alcuna parte del salario.
Lodovico il Moro, morto Gian Galeazzo nel 1494, divenuto duca anche di nome, il 27 gennaio 1495, confermò a tempo indeterminato Gio. Ambrogio « vir nobilis » nella carica di castellano. Se non che Gio. Ambrogio si annoiava lassù nel forte.
Pertanto nel 1496 e nel 1497 domandò ed ottenne frequenti licenze di assentarsi, lasciando al suo posto Gio. Antonio Airoldi. Naturalmente ne veniva a scapitare il buon governo della fortezza. Infatti da una visita d'ispezione fatta da Alessandro Simonetta il 22 novembre 1497 si trovò che « Jo. Ambrosio de li Airoldi castellano de la Rocheta de S.ta M.a ha paghe dodece, computata una morta; ha ad tenere homini dece; ne ha quattro contro li ordini, et li altri sei sono tristi ». Per questo Gio. Ambrogio ebbe il 24 marzo 1498 una riduzione di paga. Di questa riduzione il castellano si sarà facilmente consolato, giacché con testamento del 22 febbraio 1498 il fratello Don Desiderio, prevosto della collegiata di S. Pietro in Beolco, lo aveva lasciato erede de' suoi beni.

*

Giovanni Ambrogio Airòldi chiude la serie dei castellani della Rocchetta di Santa Maria. Copriva ancora la carica di castellano, quando il ducato di Milano, per l'avventurosa politica del Moro, la quale aperse il varco alle invasioni straniere all'inizio del 1500, fu travolto dai noti calamitosi avvenimenti che portarono nel 1535, con la morte senza eredi dell'ultimo duca Francesco Il Sforza, al definitivo dominio della Spagna su le nostre terre.
Che avvenne del forte della Rocchetta nello svolgersi di quei gravi eventi? Nulla mi fu dato di rinvenire né dai cronisti del tempo né da altre fonti documentarie.
Da questo si potrebbe arguire che il fortilizio, al pari della torre di Porto, sia stato abbandonato. Il perfezionarsi dell'arte militare e il mutarsi delle condizioni politiche, condusse nella prima metà del secolo XVI, alla scomparsa di forti o castelli, i quali erano venuti man mano perdendo della loro primitiva importanza.
Lo stesso castello di Brivio passò in possesso della famiglia Brebbia. (11)
Lungo il tratto dell'Adda, che ci interessa, non rimasero in piena efficienza che quelli di Lecco e di Trezzo.
Negli Atti di visita pastorale di Federico Borromeo del 1610, riguardanti la pieve di Brivio, si dice che la Rocchetta, divenuta ricettacolo di banditi e di ladroni, fu distrutta al tempo del valoroso milite Gian Giacomo Medici, non lasciando intatta che la chiesa.
Ma che il fiero castellano di Musso e di Monguzzo, intento a ben altro nella sua audace ambizione, se la prendesse coi banditi e coi ladroni, si stenta a crederlo.
Il Medici, al dire del Cantù, nelle sue arrischiate imprese su queste sponde, avrebbe più volte assalito, e con prospero successo, i presidii spagnoli dei castelli di Brivio e di Trezzo. (12)
Se così, potrebbe darsi che il forte della Rocchetta sia stato distrutto in qualcuna di queste fazioni.
Comunque sia, di quel forte più nulla oggi rimane. Soltanto la solitaria e devota chiesina, attraverso i secoli, continua il suo dolce richiamo alla Vergine Madre.

* * * * * *


Il Priorato Cluniacense di S. Nicolao

in Figina di Villa Vergano


Quasi a mezzo cammino tra Ravellino e Villa Vergano, e cioè tra il monte Crocione (877 s. m.) e il monte Baravello (820 s. m.), si insinua sul versante meridionale una valletta in cui si annida a 627 m. d'altezza la frazione di Figina. La pietà e lo spirito di solitudine del medioevo non poteva scegliere nella Brianza luogo più tranquillo e adatto alle contemplazioni della vita monastica.
Una nobile signora, chiamata Contessa, vedova del milanese Azzone Grassi, con atto del 16 agosto 1107 lasciò in iure et proprietate all'abbazia di S. Pietro di Cluny i suoi beni, i quali si stendevano in quella zona montuosa dal luogo di Brianza fino ad Infigina, coll'obbligo di erigervi in quest'ultima località, una cella con la relativa chiesa dedicata a S. Nicola, così che beni, cenobio e chiesa rimasero sempre sub cura et regimine seu potestate et defensione dell'abbazia di Cluny. Con questo, però, che i futuri monaci di Figina avessero a godere liberamente delle sostanze sopra lasciate e a versare ogni anno, pro benedictione pro ipsis rebus, cinque soldi d'argento di moneta milanese a S. Pietro di Cluny in rimedio dell'anima sua e di quella del suo defunto consorte. (13).
Nel catalogo di Cencio Savelli, compilato l'anno 1192, fra i monasteri della diocesi milanese direttamente protetti dalla Santa Sede trovasi annoverato quello di S. Nicolao, che pagava l'annuo censo di dodici denari: monasteri sancti Nicolai duodecim denarios. Non è fatto cenno della località dove sorgeva, ossia di Figina, ma sembra doversi intendere il nostro monastero, perché nella nostra diocesi, al dire del Giulini, non si trova che ce ne fosse un altro in quei tempi dedicato a S. Nicola (14) Altri monasteri in Brianza, come quelli delle benedettine di Brugora, presso Montesiro, e di Lambrugo, pagavano allora il medesimo censo.
Oltre il monastero colla chiesa di S. Nicola, la quale aveva due altari minori uno dedicato a S. Martino e l'altro a S. Maria, vi era pure sul finir del secolo XIII un'altra chiesuola o cappella dedicata a S. Sigismondo. (15)
Fiorente era in quei tempi il nostro piccolo cenobio, e nel 1289 Comollo de Nava, priore di Figina, fu tra i firmatari dei patti convenuti il 23 febbraio fra la città di Como e i Cluniacensi di Lombardia a riguardo del risarcimento dei danni causati dai Comaschi colla distruzione del Priorato di Vertemate avvenuta nel 1287. (16). E, a salvaguardia dei beni dei Cluniacensi, Papa Clemente VI il 13 aprile 1344 dirigeva un Breve all'arcivescovo di Milano e ai vescovi di Pavia e di Como onde vigilassero alla conservazione dei beni dei Monasteri e Priorati dell'Ordine Cluniacense. (17)
Un catalogo delle case dell'Ordine di Cluny in Lombardia del 1367 dice che dovevano esserci in quella di Figina tre monaci, computato il Priore, quantunque in passato ve ne fosse un numero maggiore, e che i monaci distribuivano elemosine a quanti la chiedevano. (18)
Non è il caso di narrare le vicende di questo vetusto cenobio briantino delle quali si è già occupato il Santambrogio. Qui vogliamo solamente affermare che quel priorato non passò mai in possesso degli Umiliati.
Il redattore degli Atti della visita pastorale del card. Pozzobonelli (1759), parlando di Figina, scrisse: « Si dice che un tempo questa chiesa appartenne agli Umiliati sotto i quali fu anche chiesa parrocchiale, del che rimane testimonio un vaso battesimale nel coro della cappella maggiore. Dopo l'estinzione di quell'Ordine la cura d'anime fu asegnata al parroco di Villa Vergano da Federico Borromeo ». Che valore abbiano queste asserzioni si vedrà più avanti.
Ma chi per primo insinuò al pubblico questa opinione fu il Redaelli nelle sue Aggiunte all'Antiquario della Diocesi milanese del Bombognini. (19) . Lo seguirono poi Giacinto Longoni, Cesare Cantù ed altri. (20)
Anche il Santambrogio si accostò a questa opinione, e, precisando, scrisse nel 1906 che « verso la fine del XIV o nei primi del XV venuta a cessare ogni influenza dei Cluniacensi in Lombardia, passò S. Nicola di Figina a far parte dell'Ordine degli Umiliati... Dagli Umiliati seguì poi il trapasso nei primordi del XVI secolo di Figina e suo territorio alla pingue abbazia di S. Dionigi di Milano, negli atti della quale l'originaria regolare investitura appare in data dell'anno 1527
Nello scritto successivo del 1909 afferma la stessa cosa, benché in modo dubitativo, e cioè: « venuta verso la fine del secolo XIV o nei primi anni del XV a mancare ogni influenza dei Cluniacensi in Lombardia, sembra sia passato San Nicolò di Figina a far parte dell'ordine degli Umiliati.. Ed è dagli Umiliati, se pur l'ebbero fugacemente, che seguì il trapasso sui primordi del secolo XVI di Figina e suo territorio alla pingue abbazia di San Dionigi in Milano ».
L'errore probabilmente trae la sua origine dal Tiraboschi, il quale accenna infatti all'esistenza di una « Domus figino. (21)
Ma se bene si osserva, non si tratta del nostro Figina, situato nel contado della Martesana, ma di una casa nel contado del Seprio e probabilmente nel gallaratese. Ed invero quando l'autore passa a numerare le case degli Umiliati nella Martesana non vi ricorre Figina, mentre, p. es., vi è citata una casa in Bestetto (frazione di Nava), non molto lontano da Figina.
Risulta inoltre che sul finire del secolo XIV e sin quasi alla fine del seguente il nostro priorato era ancora in efficienza.
Nel 1426 il duca Filippo Maria Visconti, per le dispendiose guerre nelle quali si trovava impegnato, aveva imposto al clero milanese una grossa taglia in proporzione delle rendite. Frassino Canali (22) priore di Figina, era stato tassato in quattordici fiorini d'oro. Si rifiutò di pagare, ma per evitare rappresaglie, mandò il padre suo Benedetto a Milano da Sperone Pietrasanta, consigliere ducale, protestando che il priorato di Figina fu sempre esente da qualsiasi contribuzione. Il Pietrasanta, con lettera del 22 gennaio 1427, interessò della cosa l'amico suo Virgilio Vimercati, esattore generale della Camera ducale.
Quale sindaco e procuratore del priore di Figina si presentò quindi Leonardo d'Angera, il quale dichiarò che tale mensuale tassa non poteva di diritto essere applicata al priore di Figina, essendo tale monastero esente da quaranta e più anni, per il fatto che i redditi di detto priorato non erano che elemosine che si distribuivano ai poveri ed ai pellegrini. E presentò a conferma vari testimoni di riguardo. Fra questi un Lorenzo Vimercati testificò che il priore Guarisco Canali, morto or sono circa trent'anni, il quale ebbe poi a successore Antonio Canali che vi rimase priore per circa ventiquattro anni, ebbe un giorno a dirgli, e cioè circa trent'otto anni or sono, che quando Marco Visconti, figlio di Bernabò, impose una taglia al clero milanese, egli si recò a Milano e ottenne di esserne esente. (23) Confermò che le rendite si distribuivan in elemosine ai poveri, e che nel giorno solenne della Commemorazione di tutti i defunti, si elargivano da quel monastero grandi elemosine di pane, vino e legumi a più di cinquecento persone che vi accorrevano dalle pievi di Garlate, Oggiono e Missaglia.
Il ricorso ebbe buon esito, poiché al priore di Figina fu riconosciuta l'esenzione.
E' da ricordare che i Cluniacensi per i primi introdussero la pia costumanza della solenne Commemorazione dei defunti nel giorno 2 novembre, divenuta poi di osservanza generale nella Chiesa. Naturale perciò che anche i nostri di Figina distinguessero quel giorno con straordinaria distribuzione di elemosine.
Tale consuetudine durò anche dopo che il priorato di Figina fu unito alla commenda di S. Dionigi. Nei contratti d'affitto si imponeva ai fittabili, oltre la manutenzione della chiesa e la celebrazione della festa di S. Nicolao, la distribuzione di pane, vino, castagne, ecc. nella festa dei morti oppure di tutti i santi e nel giovedì santo. Scomparsi i monaci nella prima metà del secolo XVI, la chiesa veniva officiata più o meno regolarmente da qualche cappellano a spese dei commendatari. (24)
In base pertanto ai dati della sopradetta pergamena, che fu nelle mani del Dozio e della quale ce ne lasciò un largo regesto, troviamo priore un Guarisco Canali (altra pergamena ce lo presenta priore fin dal 1362 (25) al quale successe intorno al 1369 Antonio Canali, e quindi verso il 1420 Frassino o Traffeo Canali. (26) Da altre carte raccolgo che questi verso il 1450 venne eletto abate del monastero di Civate, e che nel priorato gli subentrò Antonio Pellizzoni. Questi nel 1457 rivendicava al priorato terreni in Pollerano usurpati dai Nava; nel 1471 acquistava degli appezzamenti di terreno situati nel territorio di Toscio; e nel 1488 una casa in Figina.
Era nondimeno, a quanto sembra, nel secolo XV un priorato monasticamente in decadenza, perché non vi è mai accennato altro monaco che il priore, e nel solo nome di lui sono conclusi i contratti. Che anzi in un atto del 5 maggio 1488 si afferma che il Pellizzoni, pur essendo priore cluniacense di Figina, era rettore della chiesa di S. Giovanni delle quattro facce in Milano ed ivi residente.
Il Pellizzoni venne a morte sul finire del marzo 1491. Ma durante gli ultimi giorni della sua grave malattia, la corte di Milano aveva preso a brigare a Roma per mezzo del cardinal legato Ascanio, perché il pontefice, in caso di decesso, volesse concedere il priorato al rev.do messer Maffeo da Treviglio, cancelliere ducale. Ciò che infatti fu ottenuto. (27)
Da un istrumento del 30 giugno 1491, nel quale Maffeo riconosce le investiture nei fratelli Ceppi dei beni di Bolenzano, spettanti al priorato di Figina, è dichiarato commendatario perpetuo. Se non forse vero commendatario, in quanto negli atti si parla di successione nel priorato e non di commenda, ebbe per altro in godimento quel beneficio sua vita durante, il che sostanzialmente press'a poco fa lo stesso.
Comunque sia, in questa faccenda l'Ordine degli Umiliati non ha nulla a che vedere.
Il 7 dicembre 1497 moriva il card. di Parma (Gian Giacomo Sclafinati) commendatario dell'abbazia di Morimondo e del monastero di S. Dionigi. Quest'ultimo fu quindi assegnato in commenda al card. Alessandrino (Gio. Antonio di S. Giorgio). (28) Ma poiché l'ospedale maggiore di Milano godeva alcuni beni del monastero di S. Dionigi, per compensare detto monastero, si ottenne dal pontefice che ad esso fosse incorporato il priorato di Figina. Tale unione doveva nondimeno avere il suo effettivo valore soltanto alla morte di Maffeo da Treviglio.
Il trevigliese venne a morire nella notte dal 16 al 17 luglio 1498. Il priorato di Figina rimase perciò stesso anche agli effetti del godimento riunito alla commenda di S. Dionigi, e come tale, ne seguì le sue vicende sino alla soppressione avvenuta nel 1797. Da istrumento del 10 giugno 1499 i sopraddetti beni sono affittati in nome del card. Alessandrino, e nell'atto si afferma che per autorità apostolica restava unito, annesso ed incorporato al detto monastero di S. Dionigi il monastero di S. Nicolao di Figina dell'ordine Cluniacense con tutti i diritti e pertinenze.
Non ho trovato il breve pontificio di unione, ma ad ogni modo resta provato che questa unione avvenne, non già dagli Umiliati ma dai Cluniacénsi, con un apporto di quattromila e più pertiche di fondi, per cui la commenda abbaziale di S. Dionigi, il cui centro fondiario era a Merate, veniva a costituire una prebenda di oltre ottomila pertiche, le quali, tranne i pochi beni di Bolenzano e Pollerano nel lodigiano, erano tutte situate nella Brianza. (29)
Al card. Alessandrino morto il 24 marzo 1509 successe nella commenda il francese card. Francesco di Chiaramonte. A Figina duravano ancora i monaci. Infatti l'11 luglio di quell'anno il cardinale per mezzo del suo procuratore, affittava i beni spettanti al monastero di S. Dionigi compresi quelli di Figina. Gli affittuari, tra l'altro, erano tenuti a versare ogni anno lire imperiali 220 ai due monaci di Figina ed altre lire 240 al priore del monastero di S. Dionigi, più lire 120 a ciascuno degli altri monaci del monastero stesso. Nel monastero di S. Dionigi vi dimoravano allora sette monaci.

*

La Commenda nel 1532 subì una modificazione, ossia venne ridotta in semplice beneficio.
Il governatore dello stato di Milano, generale Antonio de Leyva, vedendo avvicinarsi Francesco di Borbone con grosso esercito, e trovandosi a lui inferiore di forze, deliberò di raccogliersi a difesa con tutte le sue milizie in Milano. Perciò fuori delle mura fece demolire tutti quelli edifici che potevano essere di vantaggio ai francesi nell'espugnare Milano.
Fra questi fu atterrato il convento e la chiesa di S. Maria del Paradiso dei Padri Serviti fuori Porta Romana, i quali rimasero così senza casa e dovettero vagare qua e là per alquanto tempo. Il De Leyva, il quale nutriva affetto verso quei padri tanto da voler essere poi sepolto nella loro chiesa, pose gli occhi sul monastero di S. Dionigi nel quale vi erano allora soltanto tre monaci, per darlo in compenso ai Serviti. Il commendatario card. Giovanni Salviati accettò la proposta a patto che i tre monaci superstiti potessero a loro arbitrio dimorare nel convento e chiudere in pace i loro giorni.
Papa Clemente VII, supplicato di questa cessione, annuì di buon grado, e con decreto del 17 gennaio 1532, datato da Bologna, non solo abolì il titolo abbaziale e tutto ciò che ad esso ed ai suoi monaci si riferisse, ma dichiarò che per l'innanzi quel monastero si chiamasse casa dell'ordine dei Servi osservanti di Maria; e coi redditi delle tenute della soppressa abbazia costituì un beneficio semplice col titolo di prepositura di S. Dionigi.
Del pingue beneficio, che fu sempre conferito a distinti prelati o a cardinali, rimase investito come di diritto lo stesso Salviati. A Figina l'ultimo monaco residente, di cui ho trovato memoria, fu D. Filippo Sormani ivi officiante fino al 1540 e, a quanto sembra, in qualità di cappellano.
Il Breve pontificio che annullava tutto quanto avesse rapporto coll'Ordine Benedettino, non riuscì tuttavia a togliere l'uso di chiamare quei possedimenti col titolo di beni dell'Abbazia di S. Dionigi.
Negli Atti di visita pastorale del 1608 si dice che davano un reddito annuo di circa 38 mila lire imperiali, somma assai rilevante per quei tempi.
Da quanto abbiamo fin qui narrato mostrasi evidente che il cenobio cluniacense di Figina non fu mai in possesso degli Umiliati. Se lo fosse stato, sia pure per breve tempo, ce ne sarebbe pur. rimasta memoria nel Tiraboschi o nelle carte di San Dionigi.
L'antica chiesuola di S. Nicola, già a tre navi ed ora ridotta alla sola centrale, è oggi chiamata di S. Sigismondo nella Guida ufficiale del clero milanese, ma lo è impropriamente. (30)
Come sopra si è accennato, dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani risulta che in Figina, oltre la chiesa monastica di San Nicola, ce n'era un'altra dedicata a S. Sigismondo, santo molto venerato in Francia: « In plebe ogiono, loco figina monasterio, ecclesia sancti sigismundi ». Questa chiesa doveva essere distinta da quella di S. Nicola, perché se fosse stata una piccola cappella o altare nella chiesa di S. Nicola il compilatore l'avrebbe nominata come facente parte di detta chiesa, precisamente come ha fatto per altri altari allora in essa esistenti (S. Maria e S. Martino). (31) D'altra parte è certo che la chiesa monastica dall'atto di fondazione, e sempre sotto i monaci, ebbe un solo titolo, quello di S. Nicola.
Come avvenne che secoli dopo fu invece chiamata di San Sigismondo?
Davanti alla chiesa secondo l'uso medioevale, si stendeva un piccolo cimitero che si prolungava lungo un lato della medesima, ed in fondo ad esso stava una cappelletta con altare dedicata a S. Sigismondo. Demolito al tempo di S. Carlo quell'altare perché indecente, ne venne eretto un altro sotto lo stesso titolo in capo ad una nave nella chiesa di S. Nicola. Alcune reliquie di santi, guaste dal tempo e dall'umidità rinvenute nella demolizione, furono poi fatte abbruciare nel 1608.
Da questo fatto probabilmente, almeno io ritengo, s'introdusse l'uso volgare di chiamare talora la chiesa di S. Nicola altresì col titolo di S. Sigismondo, tanto più che nel 1615, al dire del Santambrogio, venne posta sull'altar maggiore una pala colla Vergine in trono nel mezzo e avente ai lati S. Nicola e S. Sigismondo. Dico l'uso volgare, perché gli Atti di visita del tempo di S. Carlo, e quelli di Federico Borromeo e del card. Pozzobonelli, quando parlano della chiesa di Figina, la specificano sempre col titolo di S. Nicola (32). Il Milano Sacro dal 1761 al 1796 non indica il nome delle sussidiarie e degli oratorii. La pubblicazione, rimasta sospesa colla venuta dei francesi, riapparve nel 1807 con le necessarie aggiunte, ma nella parrocchia di Villa Vergano troviamo solamente nominato l'oratorio di S. Rocco. Col 1813 compare in essa, e per la prima volta, anche « S. Sigismondo in Figina », officiata dal cappellano Dionigi Santino, e così negli anni successivi, cambiamento forse voluto dai nuovi proprietari che riapersero al pubblico la chiesa di S. Nicola.
Il cambiamento ufficiale del titolo è quindi avvenuto in tempi da noi non molto lontani.
Ma che la chiesa attuale sia l'antica di S. Nicola è provato altresì dalla pianta planimetrica della stessa, avente il chiostro a destra con cortile quadrato a colonne.
Perciò, a mio avviso, quella chiesa si dovrebbe ancora chiamare col titolo originario di S. Nicola, o quanto meno di S. Nicola e S. Sigismondo, poichè quest'ultimo venne ad aggiungersi molto posteriormente quale altro titolare.
Il priorato di Figina non ebbe certamente l'importanza del monastero benedettino di S. Pietro al Monte sopra Civate, la cui chiesa rimane fra i monumenti più insigni della Brianza, nondimeno svolse nel periodo della sua esistenza, e in tempi d'aspre lotte e di miseria, una missione di preghiera e di carità fra le popolazioni del Monte di Brianza.

DOCUMENTI
1.
1491 marzo 24 - Roma
Ill.me Princeps et Ex.me domine, Nepos et pater honorande. Hauto le lettere de la V. Ex. continente la grave egritudine del priore de Figina, non potendo io andare a palazo per la indispositione mia, mandai Stefano (33) qual non havendo posuto havere audientia, mandali uno de li miei, che simelmente non poté havere adito ala Sua B.ne Veduto questo fece una police ala p.ta s.tà che li fe sporgere per il vesco di Mondevì qual respose in nome de N. S.re essere contenta, accadendo el caso, (34) volere observare la reserva facta, et havere ordinato al datario non lassi passare supplicatione alcuna per questo priorato, essendo sua intenzione provederne secondo la mente de quella, et non essere altramente necessario el breve rechede la V. Ex. per esser abastanza quanto haveva ordinato con lo datario. A la Ill.. S. V. me raccomando. Rome 24 martii 1491.
Patruus filius et servitor Ascanius Maria
Car.is Sfortia Vicemomes Bononie etc. legatus
(a tergo) ... Principi et ex.mo domino
et patri honorando D.
Mediolani etc. ASM., Archivio Sforzesco - Roma


2..
1491 aprile 1 - Roma

Ill.me Princeps et Ex.e Domine Nepos et Pater honorande. Immediate che hebbe ricevute le lettere de la Ex. V. per le quale significa la vacantia del Priorato de Figina, et il desiderio sii conferito in Mapheo da Trivilio, mandai Stefano a Palatio, il quale, se bene Nostro S.re si è molto ristrecto questi giorni sancti, non di meno hebbe modo col vescovo di Mondovì che la sua B.ne fece la segnatura del beneficio, la quale benché finora non sii venuta al Datario, non di meno la cosa pare in termini ben securi. Et ala Ex. V.me ricomando. Rome primo aprilis 1491.
As. M.a S.... Car.lis
Sf. Vice..... legatus
(a tergo) Ill.mo Principi et Ex.mo Nepoti et
patri hon.do domino Duci Mediolani etc.
ASM., Archivio Sforzesco - Roma

3.
1491 aprile 2 - Roma
Ill.mo et Ex.mo Sig.or. mio. Scrivendosi per il Rev.mo et Ill.mo Mons. vostro Barba de la colatione del Priorato de Figina facta in lo Ven. Mess. Mapheo da Trivilio, et cosi de la absolutione obtenuta per il passato de lo augumento del pretio del sale, a nuj non occurre significare altro, rimettendoce a quello che per la sua Rev.ma Sig.ria è scripto. A la Ex. V. continuamente ne ricomandiamo. Rome 2 aprilis 1491
ser. la. episcopus Derthonensis
Stephanus Taberna
(a tergo indirizzo al Duca)
ASM , Archivio Sforzesco - Roma

4.
1491 aprile 10 - Milano
Mediolani X aprilis
D.Car.li Vicecomiti.

Essendo facta la signatura del priorato de Figina in Mess. Mapheo de Trivilio nostro Cancellero, como ce scrive la R.S.V. per la sua del primo de questo, si persuademo che licet non fosse la supplicatione fin a quella hora portata al datario, epsa V. S. debia però havere proveduto che la cosa fosse in sicuro, et che d'alhora in qua havere operato che la expeditione si facia como desideramo. Et però confidandose de questo de la sapientia de la S. V. R., non la scaldaremo altramente expectando de hora in hora havere aviso che la cosa sia ben expedita, et che per lei non sia manchato de portare remedio opportuno, se alcuno avesse voluto interponerli impedimento, et similiter de ringratiare la S.tà del pontefice de la promptitudine sua quando sia perseverata in epsa como speramo che per summa bontà sua debia havere
facto... Minuta ducale
ASM., Archivio Sforzesco - Roma

5.
1491 20 aprile - Roma
Il.me Pninceps et Ex.me domine Nepos et pater honorande. La supplicatione de Mafeo da Triviglio per el prionato da Figina non sollo hè expedita dal datario, ma le bolle ala ricevuta di questa spero li serano mandate, che m'è parso darline aviso, aciò la sapia che a tuti li desideri soi non sonno per mancharli per quanto specta a me...
Rome XX apnilis 1491 Patruus filius et ser.or As. M.a
Car. Sf. Vicecomes Bon. etc. legatus
(a tergo indirizzo al Duca)
ASM., Archivio Sforzesco - Roma

6.
1498 luglio 15 - Roma
Ill.me Pninceps et Ex.me d. d. mi Col.me. Per una de V. Ex. de dì 5 del passato quella me scripse non lassassemo molestare li deputati de lo hospitale grande de Milano sopra le possessione tengono de San Dionisio per lo hospitale de la Sanità, affirmando quella che la unione del Priorato de Figina era per ricompensa de dicte possessione ocurente vacatione, come anche dicono le bolle apostoliche impetrate iamdedum nomine dé V. Ex. Hora se dubita ne occurrat vacatio, perchè Mess. Maffeo sta molto male, et quale ha dicto Priorato unito in commenda. Prego la Ex. V. che occurrente casu sia contenta che la unione habia suo effecto et nomine predicti Monasterii Sancti Dionisii se possa pigliare la possessione; et a quella humiliter me ricomando. Rome. Ex Palatio apostolico XV julii 1498.
E. V. Ex. humilis servitor Io. Ant. Card.lis
Alexandrini
(a tergo indirizzo del Duca)
ASM., Autografi.. Cardinali

7.
1498 luglio 17 - Roma
Lettera del Saliceto al duca di Milano. In fine alla lettera aggiunge: «La peste qui fa danno assai, et de homini de cuncto mancano non pochi. Questa nocte passata mess. Maffeo de Tnivilio è morto de apoplesia cum molto poco spacio de possere acconciare le cose sue, et temporale et spirituale, et cum exemplo de far stare altri provisto et ben cum Dio, né fidarse in lo extremo puncto ».
ASM., Archivio Sforzesco - Roma

8.
1498 agosto 3 - Roma
Ill. pninceps et excell. D. frater, et pater honorande. Non mancharò de fare omne opera possibile col Rev.mo Card.le Sanseverino atio che la Rev.ma Sig. sua compiatia la Ex. V. de la capella de S.ta Maria de Calvarià per Paulo Lanterio suo servitore, et il medesimo farò per confortarla ad essere contenta che la unione del Priorato de Figina, quale possedeva il quondam mess. Mapheo da Triviglio habia lo effecto suo, come la Ex. V. scrive desiderare; et de quello se farà la Ex. V. sarà avisata, alla quale sempre mi raccomando. Rome 3 augusti 1498.
frater et filius et servitor
As. Ma. Car.lis Sfor. Vicec.
S. R. E. Vicecancellarius
(a tergo indirizzo al Duca)
ASM., Archivio Sforzesco - Roma


9.
1498 agosto 6 - Roma

Mag.ce et clar.me vir. Per Ioseph nostro Cancelliero il quale tenemo costi habiamo inteso quanto V. Mag. se sia adoperata in favore del nostro Monastero de Sancto Dionisio et nostro che la unione del Priorato de Figina habia effecto, et così li ha concesso le lettere ducale de licentia de andare ala possessione. Questo licet non ne sia novo, perché sapemo quanto V. M. ne ha sempre amato, et quanto sole favorire le cose honeste, tamen del tuto per fare nostro debito molto vi ne regratiamo, offerendoci paratissimi ad ogni vostro apiacere et de li vostri. Recomendandovi de continuo le cose nostre. Rome, ex palatio apostolico VI augusti 14
Mg.co et clar.mo equiti au rato d. Bartholomeo Chalco
(a tergo) Ducali Secretario amico nobis precipuo
Io. Ant. tituli Sanctorum Nerei
et Achillei presb. Car.lis Alex
.ASM., Archivio Sforzesco. Carteggio Generale


10.
1498 agosto 17 - Roma
Ill.me Pninceps et Excell. Domine, Domine mi col.me humillima commend. etc. La Ex. V. per una sua de 3 de questo me richiede voglia fare un dono de li fructi de questo anno del priorato de Figina ad quelli del hospitale de la Sanità. Io sono tanto obbligato ad quella, che meritamente doveria exequire quanto me scrivete. Ma perché son certo che V. Ex. intesa la necessità mia et del Monastero de S.to Dionisio sarà contenta supplisca a magiori bisogni de epso. Mon.ro, se dignare haverme per excusato, se non concedo li dicti fructi ali suprascripti del hospitale de la Sanità, come quella me scrive. Sapia V. Ill. Sig. che io ho trovato le possessione del Monastero de S.to Dionisio impegnate per grande summa de denari; et questo anno me bisogna pagare lib. 5000 monete Mediolani o circa a mess. Michele Sclafinate, el quale tene la possessione de Merate, miglior membro che habia el p.to Monastero mio. Et bisognando pagar dicte lib. 5000, como non posso de mancho se voglio redimere la possessione, non solo me fanno bisogno tuti li fructi de epso Monastero de S.to Dionisio, ma anchora li andarano quelli fructi del Priorato, ita che questo anno io restarò senza haver fructo alcuno de dicti Monastero et priorato. Per tanto prego V. Ex. me habia per excusato se non li posso compiacere de dicti fructi del priorato, perché per me fanno bisogno per suplire ale necessitate del Mon.ro de S.to Dionisio, perché me fanno bisogno per supplire a tal bisogno. Confesso essere molto obligato et mi et li successori mei a V. Ex. que voluit imitari agros fertiles, qui longe plus reddunt quam acceperint, concedendo per sua liberalità al mio Monastero questo priorato, el quale è de magiore entrata che li beni quali hanno havuti questi del hospitale da S.to Dionisio. Tamen quelli del hospitale ne fanno guadagno prima de li beni quali sono belle possessione et bone, et insuper de ficti recevuti per tempi passati, più de mille ducati, et anche erano sub eventu de poterli tenere più de trenta anni, che serria possuto vivere messer Mapheo; .et sic el mio Monastero non haveria havuto né lo effecto de la unione, né la entrata de li beni quali tengano. Se hora è piaciuto a Dio che la unione habia avuto effecto così presto, non hè che loro non guadagnino con el mio Monastero et li dicti beni et li fructi passati, se non fussino a resigho de guadagnare anchora molti fructi del avenire. Io del tuto rengratio Dio et V. Ex., ma li supplico sia contenta possa la ventura che a mandata mess. Dominodio al mio Mon.no convertirla in utilitade de epso, altramente me bisognaria far debito per riscotere dicta possessione, o lassarla così occupata con danno del Monastero. Il che non credo sia mente de V. Ex. ala quale humilmente raccomando mi et le cose mie. Rome XVI augusti 1498.
E. V. Ill.me D humilis servitor Io. Ant.
Car. Alex.
(a tergo indirizzo al Duca) ASM., Autografi. Cardinali

11.
1498 settembre 1 - Roma
Ill.me Princeps et Ex.me Domine mi colendissime. Per lo Rev.mo et Ill.mo Mons. mio il Card.le Vicecancellario vostro fratello me è notifichata una lettera de V. Ex. per la quale quella li scrive voglia lassare el Priorato de Figina a lo Rev.mo Mons. mio Cand.le de Sancto Severino, perché mi serà risposto tanto de intrata quanto dano le terre de Sancto Dionisio, quale tengono quelli delo hospitale de la Sanità per sino a tanto me sarà data conveniente ricompensa per la valuta de dicte terre. A sua S.ria Rev.ma ho risposto quello che anche responderò in questa a V. Ex. Quella se debe arecordare che essendo possedute queste terre per quelli de lo hospitale predicto più de anni X, et havendovi el Monasterio de Sancto Dionisio perso li fructi de dicte terre, che ascendono a più de 100 ducati l'anno quando siano bene locate, parse a dicta V. Ex. che el Monasterio fusse gravato, et pro liberalitate sua volse che se facesse questa unione, per la quale il Monasterio, licet la intrata del Priorato sia magiore, tamen perdeva li fructi passati, quali ascendono a più de 1000 ducati, et anche stava sub dubio eventu de perdere in futurum li fructi per sino a tanto che vivea Mss. Mapheo, el quale era apto a vivere più de 30 anni, et perdeva le terre, quale sono belle proprietate et vicine e comode al Monasterio. Da poi la V. 111. Sig. non volse se dimandassero li fructi de dicti beni a quelli de lo hospitale, perché accadendo el Monasterio haveria la ricompensa per la unione predicta. È piaciuto a Dio che el caso de la unione è venuto ad effecto, et il Priorato cum bonis suis è incorporato al Monasterio de Sancto Dionisio; et così V. Ex. sua clementia è stata contenta se sia presa la possessione del dicto Priorato nomine Monastenii de Sancto Dionisio; et così cum bona gratia de quella la tengo et godo. Hora per qualche mala informatione V. Ex. me ha fatto intendere quello se recercha. Io ho lassato molti beneficii, et precipue novissime lo episcopato de Parma el quale la S.tà de N. S. me volse dare quando morì lo Rev.mo Card.le de Parma, per intendere che Ex. havea altro penzero. Poi ad mandato de quella ho lassato la Abbatia de Arona et de Sancto Tomase de Cremona, perché in illis non versabatur se non la utilità mia, et me parea prestare ad usura in tutto quello che facea per reverentia de V. Ex., come lo evento ha dimostrato che me ne è successo bene. Verum de presente lassare questo Priorato respicit più il danno del Monasterio de Sancto Dionisio, cui bona sunt incorporata et appropriata, che non fa el mio. Né me pare pure potere cum bona coscientia refutare tanto aquisto facto per gratia de Dio et de V. Ex. al dicto Monasterio. Che se dica la unione non valere non credo sia de mente de V. Ex. che una concessione facta per epsa, et similiter impetratione obtenuta nomine suo dala S.tà del N. S. in recompensam bonorum ab uno pio loco ablatorum et in alium pium conversorum, se debia poy quando se retrova messa ad effecto impugnare ex capite nullitatis; dil che tamen in rasone non ne ho dubio alcuno, como devanti alla S.tà del N. S. demostrai quando questo per alcuni fu opposito, li quali conabantur impedire effectum unionis. E quando commpanirà chi li ha megliore rasone che mi o el mio Monasterio, alhora V. Ex. me tenga per falace. Ne anche è persona che possa per suo interesse allegare questa nullità, nisi la S.tà del N. S., el quale non meno è stato contento che la mia unione habia effecto, che sia stata V. Ex. Prego adonque quella dignetur conservare al mio Monasterio et a me la concessione che già me ha facto et exequita, et havere anchora respecto alo honore de uno suo devoto servitore quale sono io, che post captam possessionem havesse poi de lassane el Priorato. Non mancharà a V. Ex. el modo de satisfare in magiore cosa a questi li quali desiderano questo priorato. Ala quale humiliter recomando mi et le cose mie. Rome ex Palacio apostolico primo septembris 1498.
E. V. Ex. humilis servitor Io. Ant. Card.lis
(a tergo indirizzo al Duca) Alex.
ASM., Autografi. Cardinali

* * * * * *



La Rocca e il Convento di Montebarro

Chi dei milanesi, che amano villeggiare in Brianza, non conosce il Montebarro? Alto 965 metri sul livello del mare esso domina un vasto orizzonte, ed è, perciò, meta di piacevoli passeggiate.
Dalla misteriosa città di Barra che lassù dicesi sorgesse in tempi lontanissimi fondata dagli Orobij; al re longobardo Autari che sotto il monte avrebbe battuto i Franchi; a Desiderio, ultimo re longobardo, il quale vi avrebbe eretto alcune fortificazioni per difendersi dai suoi nemici, e sul pendio verso Lecco innalzasse la chiesa di S. Michele, e presso Civate un monastero in rendimento di grazie per la vista miracolosamente riacquistata dal figlio Adelchi, è un fiorire di leggende intorno a quell'altura.
Cosa ci sia di vero non è attualmente possibile accertare, in mancanza di scritti attendibili e di ruderi coevi dai quali poter arguire qualche cosa di sicuro.
Quanto inchiostro hanno fatto versare ai nostri vecchi storici e cronisti gli Orobii
dei quali si ha specialmente memoria nel noto passo di Plinio! (35)
Catone il Censore ne parlò per il primo nell'opera sua, ora perduta, Sulle origini
delle città italiche
, ma senza precisare chi fossero o donde provenissero. Cornelio Alessandro, un grammatico greco vissuto ai tempi di Silla e liberto di Cornelio Lentulo, li disse senz'altro di origine greca, affermazione ritenuta corrispondente a verità da tanti scrittori, e ultimamente dal prof. Giambelli, il quale vuole provengano dall'Eubea, ma facendo etimologicamente derivare il nome greco non già da viventi nei monti, ma bensì da un legume detto ervo, orobo.
In realtà nulla di certo si può dire intorno a questo popolo, sia perché Cornelio Alessandro è uno scrittore che non merita fede al dire di Plutarco, di Servio, e dello stesso Plinio, sia perché i reperti archeologi sono muti in proposito.
Perciò oggi non si dubita di asserire, con maggior fondamento, che i così detti Orobii altri non fossero che i Liguri o i Celti abitatori dei nostri monti e delle nostre colline.
Similmente nulla sappiamo della città di Barra o Parra. Il Redaelli ed altri che lo seguirono pretesero di ravvisarne gli avanzi in alcuni ruderi sul Montebarro (da ascriversi invece al fortilizio Sforzesco), mentre i Bergamaschi vollero la città situata nei pressi di Bergamo. Egli sacrificò non poche pagine nelle sue Notizie istoriche della Brianza per sostenere a tutt'uomo il suo assunto. Cesare Cantù diede un giudizio forse troppo duro, su quanto scrisse il Redaelli, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, vol. III p. 997, dichiarandola « opera scarsa d'intelligenza storica ».
È da osservare che in studi siffatti, pur lavorando ognuno secondo la propria competenza e diligenza, nessuno più o meno, sfugge talvolta a sviste, a lacune, ed a congetture errate, non escluso nemmeno lo stesso Cesare Cantù. Noi rettifichiamo gli altri, altri rettificheranno noi. (36).
Ad ogni modo quello che è certo si è che lassù fu eretto un fortilizio sforzesco, e poi un convento francescano.
Già dal 1447 al 1450 fazioni guerresche ruppero l'alta quiete montana del Montebarro e delle alture circostanti, prima tra veneziani e ducali, (37) poi tra Francesco Sforza e le truppe alleate veneto-milanesi.
Francesco Sforza entrò signore in Milano il 26 febbraio 1450, ed i veneziani si ritirarono al di là dell'Adda, ritenendo Brivio in loro possesso come testa di ponte in caso di nuove operazioni militari nel territorio milanese. Perdurando lo stato di guerra, lo Sforza giudicò opportuno di munire il Montebarro con una rocca, anche per il fatto che il Colleoni aveva tentato di assalire gli sforzeschi alle spalle, penetrando nella Vallassina, e presidiando dicono alcuni lo stesso Montebarro. I lavori incominciarono tosto in quello stesso anno, e precisamente al disopra dell'attuale sanatorio, come si ricava dalle vecchie mappe catastali.
Una carta del 18 febbraio 1451 ci dà notizia di quanto si era eseguito fino a quella data.
"1451 die 18 februarij
pro laborerio Montisbarij videlicet pro Rocha

Primo. A cantono destri usque ad pontam speroniin
In numero ..............................................quadreti m. d. XV
Secunda mensura.....................................quadreti d. LXXVJ
Tertia mensura.........................................quadreti CCCLX
Quarta mensura.......................................quadreti CCCXXXVIIJ
Quinta mensura.......................................quadreti d. CCCC°XXXIJ
Sexta mensura.........................................quadreti d. CCIIIJ°
Octava mensura.......................................quadreti CCLXXXVIIJ
pro rizeto
Prima mensura.........................................quadreti CLVI
Secunda mensura ....................................quadreti C
Tertia mensura ........................................quadreti CLVIIJ
Quarta mensura.......................................quadreti CLXXX
Soma sumarum in numero........................ Brachia V.m CCXLVIIJ
1451 die 18 februarij
Magister Amezius de mandello et magister bianchus de olzinate mexuraverunt Rocham Montisbarij, asendit in soma quaderniti V.m CCXLVIIJ ad computum de solidis duodecim pro quolibet quadreto asendit in soma libr. III.m CXLVIIJ imperalium.
Item pro cavamento citerne caxamento et pro feramento in faciendo lapides libr. c. » (38)
Nel luglio del 1451 vi attendeva ai lavori Rizzardo de Avignone, al quale il Simonetta scriveva da Cremona il 9 dello stesso mese sollecitandolo di fare in modo che anche « gli sia stantie per lhabitatione del castellano et non gli lassati mancare cossa alcuna, per che fornita che la sia gli farimo subito debita provisione de munitione et de quanto bisognarà ».
Il castellano, per altro, era già stato scelto fin dall'anno prima, e vi fu deputato, in data 4 agosto 1450, Filippino de Castellaccio con 15 paghe, computata una morta, metà balestrieri e l'altra pavesari, col salario di tre fiorini per paga. Ma 1'8 maggio del 1455 veniva ridotto a sei paghe, una morta computata: riduzione che durò poi sempre. La pace conchiusa il 9 aprile 1454 fra lo Sforza e i Veneziani aveva ridotto l'importanza militare della posizione del Montebarro: di qui la diminuzione del presidio.
Col primo di agosto del 1465, in luogo del Filippino, veniva provvisoriamente delegato alla custodia della rocca Antonio Trotti, suo nipote, con tre soci, fino a tanto che si fosse altrimenti provvisto, incominciando dal 10 di agosto. Infatti il 10 ottobre 1468 veniva nominato castellano Pellegrino de Landriano, finché il 4 ottobre 1479 gli subentrava Teseo Marcellino coll'annuo salario di 25 ducati del valore di lire quattro imperiali per ducato, oltre gli annessi emolumenti spettanti a detta castellania. L'11 maggio 1482 la carica di castellano passava a Iopino de Ripa. Il 16 gennaio 1484 veniva assegnata a Giovanni da Milano, detto podestà, con la mensuale paga di 3 fiorini di 32 soldi imperiali, e il 23 dello stesso mese si ingiungeva ad Abbondio de Ripa di rimetterla a detto castellano. L'ultimo dei castellani di Montebarro, dei quali ho trovato menzione, è Andrea de Ripa, elettovi il 1 febbraio del 1487.
Di solito ai castellani ducali venivano impartiti degli ordini da osservarsi strettamente sotto pena della vita e della confisca dei beni. Per i castellani del Montebarro erano del tenore seguente:
« Primo volemo che la guardi ad nome et instantia nostra et de li figlioli nostri legitimi et quella non consignarai mai ad homo del mondo sia che si voglia, se non ad chi te diremo noi de propria bocha o in scripto et sottoscripte de nostra propria mano signata per mano de uno di nostri secretarij et sigillata del nostro ducale sigillo et chi te portera il contrasigno havemo cum ti.
Secundo volemo che mai per commandamento lettere o Ambassate che te fossero facte per chi se sia tu non accepti in essa roca persone più forte de ti se non te lo diremo nuy de propria bocha o scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano signate et sigilate ut supra et te mandarem il dicto contrasigno.
Tertio volemo che quelle munitione che li sonno drentro et quelle più che li faremo mettere conservi, non ne consumando pocho ne assai senza nostra licentia in scripto.
Quarto non volemo che may lassi dicta rocha che sij guardata o per ti o per uno de li tuoi ben fidato, et cum tal compagni che non la ti possi esser tolta ne per forza ne per inganno ne mala guardia.
Quinto volemo che quando tu intendesti cosa alcuna che fossi contra la persona stato et honore nostro tu ne lo debij significare o per lettere o per messi fidati et fare tutto quello che è obbligato de fare caduno fidele servitore et castellano verso il suo Signore. Mediolani die XI maij 1482.
Io. Galeaz M. Dux Mediolani supscripsit
P. Io. Fran. Olivam. B. Calchus » (39)
La vita che il piccolo presidio conduceva lassù non era certamente delle più facili. E perciò, nonostante gli ordini superiori, castellano e soldati cercavano di cavarsela alla meglio che potevano. Donde da parte dei commissari ducali parecchie lamentele, alle quali qualche castellano dovette la sua revoca.
La rocca di Montebarro, venuto meno lo scopo per il quale fu eretta, finì coll'essere rasa al suolo nel 1507 dai francesi, i quali erano divenuti padroni del ducato milanese.
Infatti da un'imbreviatura di Martino Amati si ha: « 1507 die dominicho 8 augusti. - Io Monsignor Brixai castelano et gubernatore dil castelo da Leucho per vigore di letere de Monsignore gran maestro locotenente generale citra montes, locotenente de la sacra Maiestade Regia son trasferto al castelo de Montebaro del Monte Brianza per distrutione di quelo, fato citare prima li anziani de le plebe et squadre di esso Monte de Brianza una cum lo bombardere regale, magistri et inginerii per mancho spexa de li homeni per quelo destrulo. Et ho posto alo incanto cum la candela aprexa chi lo vole destrure de tore de dentro da lo castelo in suxo. Et tandem lo ho deliberato ad magistro Io. Petro Isacho et a magistro Dionixio dito il Fra da Herba magistri de muro, presenti et aceptanti per libre cento imperiali da essere pagate per le plebe de Garlate, Uglono, Massalia, Alyate de Lambro in qua, et le squadre de Maveri et de Nibiono in sopra li loro extimi achaduno la rata sua. Et questo castelo se distruga solum modo dentro dalo castelo da terra in suxo. Et che tuti li anziani et consoli di esse plebe, squadre et loci posano far fare ognia executione reale et personale contra li renitenti in forma camere azò che diti dinari subito se schodeno. Et una plebe et squadra pagando le loro portione non sia obligata per l'altra né molestata. La quale destrutione de esso castelo sia fato infra dieci zorni prosimi advenire, et il pagamento suo sia fato infra cinque zorni prosimi advenire. Et hec omnia presentibus pro testibus Stefano de Scharena f. q. felipi Porte Comacine Parrocchie S. Simpliziani Mediolani, Gasparino de Agudis f. q. D. Iohannis in Malgrate plebis Garlate ducatus Mediolani, et Domino fratri Damiano de Augustinonibus (?) f. q. D. Io. Petri habitator Galbiate plebis Garlate ducatus Mediolani, omnibus idoneis, vocatis et rogatis. Et predicta facta fuerunt in ecclesia sancte Marie Montis Barri. - De Bryzay » (firma autografa).
Va poi unito il seguente atto: « 1507 die 8 augusti. -- Ad voy anziani, consoli et homeni de la plebe de Garlate, Ogiono, Masalia, Aliate et squadre de Maveris et de Nibiono, io monsignore Brixay castelano et gubernatore dii castelo de Lecho per vigore de littere de monsignore gran maiestro de Giamono ve comando a la penna de la desgratia de la maiestade regia cha infra duy giorni prosimi advenire habiate portato a magistro Isacho et magistro Dionixio dicto el Frà da Herba la vostra contingente portione de libre cento imperiali, ultra le spexe fate et che se fano sopra lo extimo vostro per distructione del castelo de Monte Barro, aliter etc. Ex ecclesia Sancte Maria Montis Barri. - De Bryxay » (firma autogra fa).
Le pievi di Garlate, Oggiono, Missaglia, Brivio, Agliate ultra Lambrum, e le squadre dei Mauri e di Nibionno costituivano il territorio briantino propriamente detto, e priviiegiato da Filippo M. Visconti e dagli Sforza.
La demolizione della piccola fortezza segnò d'altra parte il fiorire di un convento di Francescani.
Si narra che in un pianerottolo, il quale si stendeva poco sotto il fortilizio e alquanto al di sopra di vecchie muraglie che si dicevano fatte costruire da re Desiderio o da altro dei re longobardi, sorgeva una cappelletta o chiesuola dedicata a S. Vittore (40) nella quale si conservava un simulacro in legno della B. Vergine, che si voleva collocato per ordine di S. Ambrogio. Un giorno corse la voce di un avvenimento straordinario, e cioè che alcuni, mentre tentavano di trafugare il venerato simulacro, erano rimasti ciechi, e che ricuperata la vista per intercessione della Vergine la statua era stata riportata nel luogo di prima. I nobili di Galbiate, spinti da tanto miracolo, verso il 1480 si diedero ad ampliare l'antica chiesuola di S. Vittore in onore della B. Vergine, vi fabbricarono alcune stanze con sopra un piccolo dormitorio, e tra di loro organizzarono una confraternita secolare, i cui statuti furono quindi approvati, oltre che dall'arcivescovo, dal duca Galeazzo Maria Sforza il 22 agosto 1488. Era una specie di eremitorio. E poiché il luogo era molto frequentato dai divoti, chiamarono dal convento di S. Giacomo Apostolo di Lecco (demolito nel 1529 da Gian Giacomo de Medici per necessità militari e fatto ricostruire a Castello) alcuni padri Osservanti per le messe e le confessioni, ai quali poi finirono col cedere tutto in dono, dando quindi origine al convento di Santa Maria del Montebarro. In quale anno avvenne questo trapasso non mi risulta.
Ora avvenne che Papa Clemente VII, con bolla dei 16 novembre 1532, aveva ordinato che in quelle provincie dove si trovassero frati francescani desiderosi di osservare ancor più strettamente la loro regola, fossero loro assegnati alcuni conventi vicini il più possibile l'uno dall'altro. Infatti non mancando nella provincia di Milano dei religiosi francescani amanti di una maggior perfezione, il padre provinciale in esecuzione della sopradetta bolla assegnò loro nel 1533 o 1534, al dire del P. Subaglio, l'alpestre convento di Montebarro, povero e angusto, nel quale si radunarono in numero di dodici, sotto la guida del venerabile padre Tornielli da Novara. Coll'aumentare dei riformati fu loro successivamente concesso il convento di S. Giacomo di Castello sopra Lecco, e poi quello dell'Annunciata in Treviglio. Ecc. (41)
Altri dicono che la prima origine dei Francescani Riformati in Lombardia sia avvenuta nel convento di Montebarro sino dal 1514. .(42).
Come ogni convento regolarmente eretto, ebbe quindi il suo guardianato.
Negli atti di visita del padre Leonetto Clavono si nota come nel 1570 vi erano pure in Galbiate « moniales tercii ordinis S. Francisci quamquam divise et disperse per terras et vagantur quotidie per domos seculares ut auditum est », e che una di esse faceva da tesoriera dei frati di Montebarro, servendo spesse volte « dictis fratribus lavando pannos et alia facendo et sepe per totam diem permaneat ad dictum monasterium ». Queste monache possedevano fondi come risulta da un quinternetto catastale di Galbiate del 20 ottobre 1562.
Nel 1610 venne ampliato il fabbricato in modo da contenervi una quindicina e più di frati. Alcuni anni prima, e precisamente nel 1604, con solennissima processione da Galbiate si trasportarono alla chiesa di Montebarro alcune reliquie, tratte dalle Catacombe, che il padre commissario della Riforma aveva portato da Roma.
Durante la terribile peste del 1630 parecchi padri incontrarono la morte assistendo gli appestati. (43)
Un gruppo di padri francescani del convento di Montebarro, dei quali parecchi nativi di Galbiate, si distinsero nei primi decenni del secolo XVII zelando la riforma minoritica in Baviera, Tirolo, Boemia, Austria, Ungheria, e Polonia da meritarsi le lodi dei Pontefici. Primo fra tutti va ricordato il P. Antonio Arrigoni di illustre casato, il quale, in premio de' suoi meriti, venne da Urbano VIII creato vescovo di Ripatransorìe nei 1634, e vi morì due anni dopo in concetto di santità nell'età di 68 anni. Coll'Arrigoni faticarono ad estendere la riforma nei sopradetti Stati il P. Ambrogio Spreafico, creato poi vescovo di Vigevano da Urbano VIII, ma che non poté occupare la sede premorendo nel convento dell'Annunciata in Treviglio; il P. Prospero Manzocchi; il P. Giovanni Riva,; il P. Cherubino Riva, e il P. Ambrogio Spreafico di Beverate.
Altri padri illustri per meriti e cariche occupate furono il nob. P. Paolo Brioschi da Piecastello presso Nava, il P. Marco Riva da Oggiono celebre predicatore, il P. Carlo Spreafico, il P. Eletto da Villa Vergano il quale condusse nel convento di Montebarro vita esemplarissima da morire in concetto di santità nel 1683, ed altri.
Se si toglie qualche lieve contesa con qualche curato di Galbiate per offesi diritti di sepoltura o di giurisdizione e 1'apprensione nella quale vennero a trovarsi coll' essersi stabiliti a Valmadrera nel 1754 dei frati spagnuoli d'un nuovo ordine francescano più austero e viventi di sola questua, apprensione che durò poco perché quei frati ben presto si allontanarono, si può dire che i padri di Montebarro trascorsero vita tranquilla e onorata come religiosi di buon esempio ed operosi nel giovare alle anime.
Non solamente l'umile gente del popolo, ma ben anche molti signori e nobili, specialmente in tempo di vacanza, ascendevano a visitare divotamente la chiesa e il convento. Vi salì pure il card. arcivescovo Pozzobonelli, il quale si compiacque assai della buona libreria dei padri, accresciuta di recente, scrive fra Benvenuto, con le fatiche dell'ex padre provinciale Fulgenzo Riva di Galbiate. L'avere una scelta e ricca biblioteca fu sempre l'ambizione di quei religiosi, tanto che nel 1667 avevano ottenuto una bolla da Clemente IX, per la quale veniva scomunicato chi osasse asportare dal convento per qualsiasi motivo libri e manoscritti, salvo il diritto agli stessi padri dimoranti nell'ospizio di S. Bernardino in Galbiate, ma coll'obbligo di restituirli appena terminato di usarne. (44)
Annesse all'ospizio del convento vi erano altresì alcune stanze appartate in occorrenza di dover trattenervisi delle donne. E infatti la marchesa Carpani sorpresa colà improvvisamente dai dolori di parto si sgravò del marchese Bartolomeo in una di quelle stanze. Il marchese finì poi ucciso in Milano con un'archibugiata sparatagli da un artigliere all'Ospedaletto di contro a S. Celso il 14 febbraio 1720.
La dominazione francese, inziatasi con la vittoriosa entrata in Milano di Napoleone il 15 maggio 1796, doveva segnare la fine del nostro convento.

La prima soppressione avvenne il 7 agosto 1798 con atto rogato dal notaio Francesco Ticozzi figlio dei fu medico Ambrogio abitante in S. Giovanni della Castagna. Montebarro faceva parte del Dipartimento della Montagna con capoluogo Lecco.
Erano allora presenti nel convento cinque padri più un'altro assente per malattia, e due laici dei quali uno non presente. A tal numero si erano man mano ridotti da dieci padri, tre laici, un professo del Terz'Ordine e due servienti ivi dimoranti nel 1791.
Commissario incaricato dal Direttorio Esecutivo della Cisalpina fu il cittadino Staurenghi assistito dall'agente dipartimentale Minetti. L'estinzione del convento avveniva per impossessarsi dei beni, onde far fronte ai bisogni della Repubblica. Tale era lo scopo della legge emanata il 19 fiorile (18 maggio), in base alla quale il Direttorio Esecutivo nella seduta del 22 messidoro (10 luglio) decretava la soppressione di un certo numero di conventi e monasteri, dei quali per taluni ordinava la secolarizzazione dei personale con annua pensione, e per altri la concentrazione in altri conventi e monasteri.
I padri del Montebarro vennero trasferiti nei convento di Castello sopra Lecco.
In quell'occasione si inventariarono le argenterie del convento, e cioè quattro calici con patene, una pisside, un ostensono, due corone della B. Vergine (di queste però si dubitava che fossero di argento), due tavolette di legno con piccoli voti di argento, una medaglia di fiiograna, e una piccola croce.
Contro un passivo di L. 38.17.6 per carichi e riparazioni stava un attivo: 1° di pertiche 136 circa di boschi montuosi e ceppi nudi contigui al convento, il cui reddito era calcolato in L. 150; 2° di un orto annesso al convento e di un po' di terreno a prato, e altre sette pertiche circa a prato in Galbiate del reddito di circa L. 130; 30 di un legato del 1617 di Andrea Manzocchi di L. 25 per fornire olio alla lampada del SS. Sacramento, e di un altro per olio, cera, medicinali ed altre cose ad arbitrio del guardiano pro tempore che fruttava L. 60, e che veniva pagato dalla scuola dei SS. Sacramento di Galbiate, lasciato da Francesco Spreafico con testamento del 4 agosto 1682. Con le questue, funzioni, messe, e predicazioni i padri ricavavano il rimanente loro necessario per condurre lassù la loro vita frugale. Si mantenevano inoltre un cavallo per i trasporti e allevavano un maiale per ricavarne lardo da condire i cibi.
Il 25 settembre di quell'anno il fabbricato e annessi di Montebarro, nonché l'ospizio e la chiesa di S. Bernardino in Galbiate, come pure una stalla con fienile in Lecco proveniente dal canonicato Pagani, passarono per via di vendita ad Angelo Bolis di Vercurago, ma residente in Milano per affari.
L'ospizio di S. Bernardino si diceva lasciato da un romito ai padri di Montebarro, i quali poi lo ampliarono in forma di convento con clausura, giardino, brolo, ecc., comodo per l'abitazione di dieci o dodici religiosi, e con chiesa grande in cui si predicava al popolo in tempo di quaresima nei giorni feriali. In detta chiesa si ascoltavano le confessioni dei fedeli di Galbiate e di quelli che vi accorrevano da altri paesi, e vi si celebravano in diverse circostanze funzioni solenni, come ad esempio i funerali di quei signori che vi tenevano la sepoltura, oppure che volevano essere sepolti nella chiesa di Montebarro. L'ospizio serviva inoltre per farvi più comodamente curare i religiosi del monte quando si infermavano, e per riposo dei frati cercatori e di altri religiosi provenienti da lontano.
I terrieri di Galbiate, Annone, Ello, Brianzola, Dolzago, Civate, Oggiono, Sala, Valmadrera e Bartesate avevano tentato di scongiurare la soppressione del convento, domandando al governo, con supplica presentata dal notaio Mantica loro procuratore, che fossero continuati i Minori riformati, sia per la povertà del convento sia per l'aiuto spirituale e assistenza all'antico santuario della Madonna.
Il Direttorio accolse il voto solo in parte, e cioè che restasse aperta la chiesa dei convento, e che il custode fosse pure uno degli ex padri, ma a patto che non vestisse l'abito dell'Ordine e senza alcun emolumento da parte del governo. Ma si finì col conchiudere nulla di positivo, perché i terrieri vennero meno alle loro promesse di procurare i mezzi di sostentamento al padre custode del santuario, e più ancora perché, mentre erano tuttora pendenti le pratiche, il Bolis, l'ultimo di ottobre 1798, aveva senz'altro intimato ai padri di lasciare il convento entro 24 ore, dichiarando che, se un cappellano dovesse fermarvisi, si dovesse prima intendersi con lui per l'affitto della chiesa, paramenti, abitazione, ecc.
Il 16 gennaio dell'anno seguente Pietro Beretta, fu Giovanni, mecellaio abitante in Galbiate, comperava dal Bolis per lire 8 mila di Milano, da pagarsi in determinate rate, il convento di Montebarro con chiesa e caseggiati annessi, i paramenti e mobili del convento, e tutti i beni che i padri possedevano sul monte, tranne i boschi detti la Cercaina, il bosco della Madonna, il Chiarè, il prato detto de Barri con la casa annessa, perché già venduti in parte a Giuseppe Antonio di Camporeso ed in parte a Giuseppe Antonio Corti di Galbiate.
L'ospizio di s. Bernardino e annessi veniva venduto il I aprile dai Bolis ad Angelo Monticelli per 4 mila lire di Milano. Il governo si era però riservato il dipinto della Pietà, conservato nella chiesa dell'ospizio, quale opera d'arte.
Dell'archivio e della biblioteca non v'è cenno negli atti di soppressione. Evidentemente passarono come una cosa qualunque, nelle mani del compratore. Il Pozzi narra, desumendolo dalla relazione di uno dei padri di Montebarro, che nei 1633 gli Osservanti, dopo aver ceduto il convento ai Riformati, si trasferirono a Lugano recando seco l'antico archivio. (45) La data del 1633 dev'essere forse un errore di stampa; probabilmente doveva trattarsi del 1533. Che gli Osservanti trasportassero seco l'antico archivio non ho trovato. Ad ogni modo, da quell'anno in avanti l'archivio doveva essersi pure arricchito di carte e manoscritti diversi riguardanti il convento, come si desume dallo stesso Pozzi. Ora tutte queste carte andarono disperse dopo il 1810. L'archivio di Stato di Milano non ci ha conservato che gli atti di soppressione, e due registri di entrata e uscita dal 1759 al 1798, e dal 1799 al 1810. Gli ultimi resti invece della biblioteca furono salvati anni or sono dai sig. Carlo Vercelloni, conservatore del museo di Lecco, mentre venivano trasportati ai macero.
Il Beretta, che aveva servito di carne negli anni passati il convento ai quale era
molto affezionato, il 4 settembre ridonava liberamente ai padri cappuccini quanto
aveva comperato perché fosse ripristinato il convento di Montebarro, salvo il diritto
in caso di nuova soppressione che tutto ritornasse a lui o ai suoi eredi. Il convento
ritornava infatti a nuova vita il 26 novembre 1799 con atto a rogito Dr. Reina, ma per
breve tempo. Con altri conventi spariva definitivamente soppresso nel 1810.
La Chiesa, in stile monastico, rimane tuttora a ricordarci il passato. Invece il caseggiato del convento, dopo esser passato in dominio a diversi proprietari e tra questi al barone Pietro Custodi, finì coll'essere trasformato in albergo ed oggi in sanatorio.
Vasto e incantevole è il panorama che si gode dal Montebarro.
« Al basso sorride dintorno ed invita tutta la Brianza verdeggiante; sotto, la conca di Valmadrera, il duplice laghetto di Annone, quelli del piano d'Erba; dall'altro lato il vasto specchio azzurro del lago, che s'incastra tra le solenni creste montuose dominanti Lecco, i meandri dell'Adda e l'ondeggiare delle valli e delle alture della Bergamasca. Poi, più lontano, i monti verso Como, fino alle colline ed al Sacro Monte di Varese; e nella serenità della pianura che sfuma in un oceano di luce, le macchie più chiare di Monza, Milano, Pavia, Novara » (46)

* * * * * *



Agostiniani e Camaldolesi sul S. Genesio

Nella catena montuosa che da Beverate si stende fino a Valmadrera emerge una cima, alta 857 metri sul mare, che offre una visione panoramica veramente meravigliosa nella sua vastità e varietà.
Quella cima ab immemorabili è intitolata al martire S. Genesio, per una chiesetta che ivi fu eretta ed a lui dedicata, e della quale vi è memoria fino dal secolo X'. (47) Pensò qualcuno che quella vetta fosse durante il paganesimo sacra a Giove Summano, deducendolo dal nome di Giovenzana, paesello presso la sommità del monte, ma è più verosimile che Giovenzana, allo stesso modo di tant'altri nostri nomi locali, derivi dal gentilizio romano Iuventius, come il vicino Cagliano da Callius.
Il parroco di S. Vittore di Brianza saliva talora fin lassù a celebrare, massime nella seconda festa di Pasqua e nel giorno 23 di agosto, sacro a S. Genesio. Ma poichè il parroco non poteva che qualche rara volta fra l'anno recarsi a quella chiesetta, né agli abitanti di Cagliano e Campsirago, lontani dalla parrocchiale, veniva fatto di avere alle loro chiesuole un sacerdote che celebrasse la messa nei dì festivi, così essi nel 1591, a ciò spinti da un fra' Martino da Lucca, agostiniano, che si era annidato a Cagliano chiamatovi probabilmente dagli stessi abitanti, proposero ai padri eremitani di S. Agostino della Congregazione di Lombardia di cedere loro in proprietà la chiesa di S. Genesio con terreno annesso, e di concorrere alla costruzione di un piccolo convento.
*

Conclusa la cosa, gli interessati ricorsero a Roma ed ottennero, in data 18 luglio di quello stesso anno, un Breve di Gregorio XIV col quale la cessione della chiesa di S. Genesio fatta agli Agostiniani veniva pienamente approvata.
Se non che il parroco di S. Vittore, D. Martino Ponzoni, uomo energico, a cui quelle trattative e quel ricorso erano stati tenuti nascosti, come ebbe notizia di quel Breve pontificio, protestò solennemente innanzi al Vicario generale della Curia Arcivéscovile di Milano per la violata sua giurisdizione. lnterpostesi alcune autorevoli persone, si venne il 19 novembre 1592 ad un accordo amichevole mediante istrumento di transazione tra le parti: istrumento confermato poi dalla Santa Sede.
Le principali condizioni poste ed accettate furono: che il parroco assentiva che agli Agostiniani restasse la chiesa di S. Genesio e le elemosine che ivi sarebbero state offerte; che fosse dagli Agostiniani compiuto nello spazio di quattro anni il convento già incominciato e che in esso abitassero sei religiosi; che costoro ogni anno in perpetuo al 23 di agosto pagassero ai parroci di 8. Vittore di Brianza (48) lire 40 imperiali; che i parroci medesimi avessero facoltà di celebrare in quella chiesa, usando i paramenti stessi dei frati, secondo il rito ambrosiano ed esercitarvi all'occorrenza le funzioni parrocchiali.
Composte in tal modo le cose, si diede mano con grande animo ad avanzare l'opera del convento. E quel frà Martino da Lucca, che soggiornava a Cagliano, aggiungeva stimoli a quelle genti, così che in capo a cinque anni, anche con denaro degli Agostiniani, il convento fu compiuto e riuscì abbastanza comodo e capace di sei religiosi, quattro padri e due laici, destinati ad abitarlo e ad officiare la chiesa. Opera non grande, ma di qualche conto per quei tempi, quando si consideri che fu eretto in gran parte con sassi oblunghi e quadrati, tagliati con lo scalpello, e sul vertice di quel monte ove a spalle d'uomo o a dorso di muli era necessario recare presso che tutto il materiale della fabbrica.
Quei di Cagliano erano talmente infatuati del loro frà Martino da opporsi nel settembre 1609 a che il loro paesello divenisse centro, come saggiamente voleva il card. Federico Borromeo, di una nuova parrocchia smembrata da quella vastissima di Brianza, e come nel 1571 aveva già pensato di fare S. Carlo. Il card. Federico non tralasciò per questo di erigere la nuova parrocchia, e fece centro Giovenzana, che stava all'estremo lembo occidentale dei nuovo distretto parrocchiale, ed alla quale furono assegnati Cagliano, Campsirago, Pàu, Mirabella ed altri cascinali circonvicini, escluso il S. Genesio. Alle spese per la sistemazione della parrocchia dovevano concorrere tutti gli abitanti. (49) Il dettaglio di questa faccenda si trova negli Atti di visita, e rivela come quei montanari fossero contro il loro manifesto vantaggio.
I padri Agostiniani non furono tardi a porre in venerazione presso le popolazioni della Brianza un illustre santo, che era stato una delle più belle glorie del loro Ordine, voglio dire S. Nicola da Tolentino. E però ogni anno il 10 settembre, sacro a questo santo, la chiesa e il convento di S. Genesio, il dorso del monte, i tortuosi viottoli che vi conducevano formìcolavano di gente venuta dai dintorni e da lontano alla festa ed alla fiera. Il luogo elevato e di amplissimo e vario orizzonte, la dolce stagione, il gran concorso di popolo doveva lasciare nell'animo di quei brianzoli lieta e durevole impressione.
La vita che vi conducevano lassù gli Agostiniani non era delle più facili. Per la scarsità dei mezzi, di solito non vi dimoravano che tre o quattro religiosi, e per vivere dovevano arrabattarsi alla meglio che potevano. Perciò molto attendevano alla caccia specialmente nell'autunno e nell'inverno cogli archetti, coi lacci e con armi da fuoco, ed è rimasta fama che facessero grandi prede: oppure cercavano di collocarsi in qualità di cappellani presso questa o quella chiesa delle vicine pievi.
In atti di visita del 1610 si ha che un frate professo di San Genesio risiedeva a Beverate come cappellano dell'abate commendatario. Il card. Federico, venuto in visita pastorale l'anno seguente, gli intimò di ritornare al convento entro 24 ore, e similmente fece con un altro Agostiniano di S. Genesio cappellano a Montebello nella parrocchia di S. Marcellino.
Gravoso pertanto riusciva a quei padri il pagamento al parroco di Nava delle 40 lire annue imperiali, a cui erano tenuti per il sopradetto istrumento, dando origine a delle controversie. Così, ad esempio, il 12 luglio 1712 la Curia arcivescovile di Milano diede facoltà al parroco di Nava, D. Giulio Manzoni, di sequestrare i frutti pendenti sui fondi del convento, perché quei frati non avevano pagato al medesimo l'annuo livello già da tre anni.
Fu certamente opera sconsigliata l'aver eretto quel convento in tempi che correvano assai miseri e tristi sotto la dominazione spagnuola, in luogo così isolato e senza risorse, mentre la Brianza contava già allora non pochi monasteri e conventi.
E veramente eccessivo era il numero dei monasteri e conventi grandi e piccoli nella Lombardia, e una riforma si rendeva pur necessaria quando dalla metà del Settecento, sotto il governo di Maria Teresa, si vennero introducendo nuovi ordinamenti sociali più rispondenti alla civiltà del tempo.
Un regio dispaccio del 20 marzo 1769, richiamandosi all'antica bolla di Innocenzo X del 1650, ordinava la chiusura dei piccoli conventi di scarsa utilità, ed il Firmian, ministro plenipotenziario, notificava il 27 aprile alla Curia arcivescovile di Milano che si passasse all'esecuzione.
L'arcivescovo card. Pozzobonelli, avute da Roma le debite facoltà, propose la chiusura di diversi conventini « in vista del poco o niun vantaggio spirituale che da essi ne ricevevano i popoli, convertendo in uso migliore le rispettive rendite». Il decreto di chiusura del convento di S. Genesio con la sconsacrazione della chiesa venne emanato dal palazzo arcivescovile il 9 ottobre 1770: decreto che ebbe la sua effettiva esecuzione nel maggio dell'anno seguente. L'esecuzione fu affidata al prevosto di Missaglia, D. Baldassare Ferni, a ciò subdelegato da Mons. Paolo Manzoni del Capitolo della metropolitana. Due professi e un laico si ritirarono in altri conventi del loro Ordine: il priore invece non volle abbandonare quei luoghi, ma stabilitosi alla Mirabella. situata a metà via tra Cagliano e Albosco in posizione amenissima, che restaurò e abbellì, ed ivi volle chiudere in pace i suoi giorni.

*

Come si presentava la chiesa ed il convento al momento della soppressione?
La chiesa, lunga 32 braccia milanesi e larga 7, guardava col coro a levante secondo i canoni della liturgia, ed aveva dapprima un solo altare; le fu poi aggiunta dagli Agostiniani una piccola cappella dedicata a S. Nicola.
Il convento, con all'interno un piccolo cortile con portici, era unito alla chiesa. Il tutto formava un quadrato oblungo da ponente a levante, la cui fronte in prospetto di ponente misurava in larghezza 44 braccia milanesi e 80 in lunghezza. I locali erano costituiti da un salotto, cucina, refettorio, cantina, ripostigli e stanze per i padri. Ascendevasi al convento per un ‘ampia ma rozza gradinata.
Sulla china meridionale del monte stendevasi l'orto ed i prati piantati ad alberi fruttiferi.
Il convento con la chiesa e quei pochi beni che appartenevano agli Agostiniani furono posti all'incanto dal regio economato nella casa prepositurale di Missaglia il 25 giugno 1771, e acquistati da due fratelli Airoldi di Oggiono, dei quali uno era canonico. Ma alle popolazioni delle terre vicine al S. Genesio doleva assai che fosse messa fuori d'uso quella chiesa, alla quale avevano divozione e solevano recarvisi in grande tripudio in certe festività dell'anno. Supplicarono pertanto il pio e generoso canonico a volerla conservare; ed egli, consenziente il fratello, implorò dall'arcivescovo che la chiesa fosse ritornata al culto ed intitolata ai santi Genesio e Nicola, promettendo che l'avrebbe mantenuta a sue spese coll'obbligare a questo scopo gli stessi beni acquistati.
L'arcivescovo annuì (17 agosto), e la chiesa, dal medesimo aggiudicata alla giurisdizione della parrocchia di Nava, fu infatti ribenedetta e riaperta al culto dodici giorni dopo. In quell'oratorio, tuttavia, non vi si ufficiava che nei giorni di S. Genesio e di S. Nicola, nei quali giorni vi accorreva gran folla come quando vi erano i frati.
Col passare degli anni il fabbricato e la chiesa, disabitati e senza alcuna custodia, divennero oggetto ad impertinenze d'ogni sorta da parte dei mandriani che vi conducevano il bestiame a pascolare, e rifugio di notte a vagabondi e malviventi. Per liberarsi da ogni peso e responsabilità gli ultimi patroni decisero quindi negli anni 1801-02 di far demolire chiesa e convento, cedendo alla parrocchia di Nava il simulacro di S. Nicola, il quale fu trasportato con straordinaria pompa e concorso di popolo nell'oratorio di S. Bartolomeo, funzionando il prevosto di Missaglia D. Francesco Farina oblato.
Sulla cima del S. Genesio si era ormai fatto il silenzio ed il deserto, quando un Amadio Tavola, nativo di Giovenzana ed ex minore osservante di Sabbioncello, comperò quel luogo e nella primavera del 1850 prese a far ricostruire a proprie spese un oratorio, privo del coro e del campanile, con annessa una piccola casa d'abitazione, coll'intenzione di chiamarvi i padri Certosini di Pavia, ma costoro non accettarono. Quella rustica casetta fu quindi affittata ad una famiglia di contadini.
Sorse la questione tra i parroci di Nava e di Giovenzana a chi spettasse la giurisdizione del S. Genesio: per Nava stava la ragione che fu sempre nella sua giurisdizione, e per Giovenzana quella della maggior vicinanza ed opportunità. La Curia di Milano con decreto del 23 luglio 1852 aveva assegnato quell'oratorio a Giovenzana, ma di fronte alle insistenti proteste del parroco di Nava non aveva trovato di meglio che di interdire quell'oratorio; interdetto che durò circa due anni finché si riconobbe la convenienza di unire definitivamente chiesa e luogo alla parrocchia di Giovenzana.
Ma la divina provvidenza destinava a quell'altura altri religiosi. Per le leggi ecclesiastiche eversive del 1861 non pochi eremi dei figli di S. Romualdo furono soppressi, riducendo in pietose condizioni quei buoni monaci dalla vita austera. (50)
Il milanese duca Tomaso Gallarati-Scotti, in unione con la consorte, pensò di prestar loro qualche soccorso, e a questo scopo nel 1863 comperò quel luogo e l'offrì ai Camaldolesi di Montecorona, i quali vennero ad occuparlo nell'estate seguente. Lo stesso duca nell'anno successivo somministrò loro il denaro necessario all'acquisto di un bosco di 72 pertiche da annettere all'eremo.
La vita di quei religiosi fu in quei primi anni intralciata da non poche difficoltà, specialmente per una lite durata ben dodici anni col Demanio che minacciava di cacciarli anche da quella dimora; causa terminata in loro favore nel 1879. Coll'aiuto di generosi benefattori laici ed ecclesiastici, tra i quali vescovi, cardinali e lo stesso pontefice Leone XIII, poterono finalmente iniziare e proseguire man mano il necessario assestamento secondo la loro regola.
Vi eressero nel 1882 il muro di clausura con la portineria, e vi posero la prima pietra della nuova chiesa dedicata a S. Giuseppe benedetta da Mons.r Marinoni delle Missioni Estere di S. Calogero di Milano.
Alla chiesa ultimata nel 1885, vi aggiunsero uno snello campanile con tre campane e un orologio, e quattro celle separate, ad uso dei religiosi, con tre o quattro piccoli vani e cioè una cameretta da letto, un oratorietto, uno studiolo e un piccolo ripostiglio. (51)
Scomparve l'oratorio eretto dal Tavola trasformato e ampliato in refettorio, dispensa, libreria e cappella dell'infermeria.
Sgombrato con duro lavoro parte del terreno dai sassi e dai macigni, e trasportatavi terra vegetale, vi crearono un'ortaglia ed abbellirono il luogo con piante di alto fusto. Un pozzo profondo circa 53 metri forniva acqua freschissima.
Una vita austera fatta di preghiera, di mortificazione, di studio e di lavoro coronava la loro esistenza. Un alone di venerazione circondava perciò quei religiosi.
Ma pur troppo i Camaldolesi non durarono lassù a lungo. La guerra del 1914-1918 portò all'annientamento della rendita austriaca dalla quale traevano in massima parte i loro proventi di sussistenza. Tennero duro fino al possibile, finché nel 1938 si videro costretti ad abbandonare il luogo ritirandosi in altre case dell'Ordine. (52) Anni dopo, tutto fu venduto ai signori Cattaneo di Oggiono.
La presenza di quei religiosi era altresì d'aiuto a tener legati alla montagna gli abitanti dei luoghi circonvicini, mentre oggi le famiglie tendono a scendere e a stabilirsi nella pianura in cerca di un miglior benessere economico col lavorare nelle industrie. La frazione di Campsirago si trova ormai quasi senza abitanti.
Da ogni parte della Brianza si scorge tuttora biancheggiare su la cima del S. Genesio quell'eremo coronato da una fascia di abeti e d'altre piante, mistica e poetica oasi di tranquillità e di pace.

Appendice I

STATO ATTIVO DI S. GENESIO
dei Padri Agostiniani della Congregazione Osservante di Lombardia
In Monte di Birianza- Territorio di Cagliano - Pieve di Missaglia
1767.

Possiede il convento unitamente al recinto giardino di pertiche 1 tavole 4 anche un prato di pert. 6 tav. 19 che ha prodotto fieno centenaia dieci che si valuta £. 10.-
Altro effetto nel territorio di Nava, pieve di Missaglia. E consiste in casa
da massaro, ronco pert. 10, bosco pert. 62, selva pert. 30. Il restante in
pascoli che in tutto sono pert. 131. Questo effetto si fa lavorare a mano.
Dal quale effetto si è ricavato: Formento: moggia 4 a £. 26 ...............£. 104.-
Melgone: moggia 1 a £. 18............... 18.-
Orzo: stara 9............... 9.-
Castagne: moggia 9 a £. 25...............£. 225.-
Noci: stara 4 ............... 4.-
Fieno: centinaia 70............... 210.-
Legna da boschi............... 23.-
Peri: libre 200 ...............10.-
Altro campo detto il Campione di pert. 1 tav. 19 affittato a Giuseppe
Colombo per anni tre, che vanno a terminare a S. Martino 1769,
paga ogni anno ........................................................ 14.-
Altro campo nel territorio di Mondonico di pert. 3 tav. 3, pieve di Brivio,
affittato a Biagio Riva per anni tre che scaderanno a S. Martino 1769,
paga ogni anno........................................................ 21.-
________
£, 648.-
Capitali pecuniari fruitiferi:
Da Gio. Bonis di Galbiate per un capitale di 6.500 al 3 e 10 per cento
paga ogni anno........................................................£. 227,10.-
Dalli sig.ri fratelli Ciarini di Nava per un capitale di lire settecento
al 3 e 10 per cento, paga ogni anno...............................£. 24,10.-
Esenzione reale .......................................................... £. 10.-
Introiti straordinari.:
Per foglia di moroni venduta .........................................£. 10.-
Per tre vitelli venduti........................................................£ 91.-
Per limosina raccolta per la bussola della chiesa in tutto l'anno.................. 64,10.-
Il Distretto, ossia Circondario della Questua che si è fatta si riduce alla circumferenza di cinque in sei miglia, e la qualità de' generi questuati consiste in:
Formento
Gallette
Melgone
Lana e
Vino
NOTA: (quanto si raccogliesse di questi generi non è detto)

STATO PASSIVO
del convento di S. Genesio de' PP. Agostiniani della Congregazione Osservante
di Lombardia, situato in Monte Brianza, Territorio di Cagliano.
Pieve di Missaglia - 1767.
- Legato al Rev.do sig. Curato di Nava.........................£. 40.-
- Riparazioni della chiesa e case ......................... 42.-
- Spese manuali di campagna.........................162.-
- Spese di chiesa......................... 33.3.3
- Salario del servidore......................... 60.-
- Charichi annuali Regii spettanti al Conv.to.........................39.4.6
- Spese cibarie ......................... 1300.--
- Legna da fuoco e carbone ......................... 45.-
- Vestiario a' Religiosi in ragione di lire 75,10 per ciascuno......................... 375.-
- Onoranza al P. Priore......................... 25.-
- Coletta del Padre Rev:mo Vicario Generale......................... 34.10
- Onoranza al sud.to e PP. Visitatori ......................... 20.-
- Spese diverse e accidentali ......................... 115.-
- Per manutenzione di biancheria de' letti, de' rami, di medico,
chirurgo e medicine ......................... 220.-
- Capitale de' bestiami.........................473.-
___________
£. 2983.17.9
sottoscritto: F. Nicola Cinquanta Priore affermo con mio giuramento quanto sopra.
Vidisse fieri praemissam subscriptionem a suprascripto et domino R. P:e Nicola Cinquanta Priore praesentaneo Ven.di Conventus S.ti Genesii supra Montem Briantiae eius manu, et caractere propriis attestor.
Subscrip. Ego s.c. Joseph Bertolettus de Col. Mediol. Not.us et Caus.us et pro fide, etc...

*

Appendice II.
STATO DEL CONVENTO DI S. GENESIO
de' PP. Agostiniani della Congregazione Osservante
di Lombardia in Monte di Brianza
nel territorio di Cagliano - Pieve di Missaglia.
1767.

Religiosi stanziati.
Padre Nicola Cinquanta. Priore. Milanese
Padre Giuseppe Martinelli. Procuratore sac.te Milan.se
Padre Giuseppe Sormani. Sacerdote milanese
F. Agostino Rossi da Nava. Laico professo.
F. Carlo Manzone da Nava. Laico professo
NOTA: La stessa mano ci fa sapere che i religiosi sacerdoti residenti erano ordinariamente cinque. Oltre i tre sopradetti c'era prima un padre Agostino Barzago, e un padre Ambrogio Martinelli che erano stati trasferiti il primo nel convento della Corona in Milano, e l'altro a Pontremoli nel convento della Santissima Annunziata.

* * * * * *

Il Monastero di S. Pietro di Cremella
e la Chiesa di Monza


Il monastero delle Benedettine di S. Pietro in Cremella, situato nel centro collinare della Brianza e in dominante prospettiva, godeva di una posizione delle più attraenti.
Le sue origini si perdono nel buio dei bassi secoli medioevali.
La tradizione, o per dir meglio la leggenda, lo volle eretto da Teodolinda, la pia regina dei Longobardi; (53) e le monache, come risulta dagli atti di soppressione del 1786, tenevano un antico e venerato anello di zaffiro che molti Brianzoli venivano a farsi applicare alla pupilla dell'occhio onde ottenere la guarigione del mal d'occhi. Questo anello lo si diceva donato dalla regina Teodolinda o dalla figlia Gundeberga al monastero. (54)
Quale fondamento possono avere nella realtà tali dicerie non è possibile accertare.
Certo è, per altro, che Teodolinda amava soggiornare nella vicina città di Monza, dove aveva eretta e dotata una chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, e lì presso anche un palazzo nel quale diede alla luce verso il 602 il figlio Adaloaldo.
In una controversia, agitatasi nel 1200-01 tra le monache di Cremella e i canonici di Monza, Teodolinda quale fondatrice del monastero è ignorata d'ambo le parti in contrasto; anzi vi si dice che il monastero sarebbe stato fondato da un Pasquale, (55) diacono della chiesa maggiore di Milano, e dotato coi suoi beni: in quale anno precisamente non detto, per quanto lo si dica già fondato da quattrocento anni. La leggenda che Teodolinda ne fosse la fondatrice dev'essere pertanto sorta nei secoli successivi al XIII. Comunque di veramente certo riguardo all'anno dell'erezione del monastero e del suo fondatore nulla si conosce.

*

Il documento più antico il quale ci ricordi il monastero di Cremella rimane tuttora il diploma di Berengario I del 1 luglio 920. (56)
In esso l'imperatore concedeva in pieno e libero godimento ai trentadue canonici della basilica di S. Giovanni Battista in Monza le corti di Calpuno, Bulciago, e Cremella col monastero di S. Pietro, (57) coll'obbligo di prestare gli alimenti alle dodici monache del monastero come usavasi anticamente (quemadmodum antiquitus usus fuerit). Ques'ultima espressione ci lascia comprendere come il monastero esistesse già da molti anni, e che la sua fondazione si deve spostare con tutta probabilità più indietro dell'880 assegnatole dal Somaglia.
Con lo stesso diploma Berengario donava alla chiesa di Monza anche le cappelle o chiese vicinali delle tre corti, e ad essa si dovessero versare le decime, ecc.
Da tutte queste concessioni nacquero le tante e prolungate controversie tra il monastero di Cremella ed i canonici che, sempre al dire del Somaglia, durarono fino al 1482, non ritenendosi le monache affatto soggette nello spirituale alla basilica Monzese. (58) Infatti nell'atto di donazione, di questo non si fa espressamente parola.
La donazione fu motivata dal fatto che, trovandosi i canonici monzesi economicamente bisognosi, per colpa di cattivi ministri avuti dai loro precedessori nei tempi passati, (59) tanto da non avere più da sopperire al necessario, ricorsero a Berengario supplicandolo perché avesse a provvedere ai loro urgenti bisogni. L'imperatore esaudì volentieri la supplica, trattandosi del decoro di una chiesa divenuta una dei santuari più venerati dai Longobardi, venerazione continuata sempre sotto le successive dominazioni dei franchi e dei re d'Italia: col citato diploma provvide « tam sancto et venerabili loco».
Il Giulini scrisse che le corti di Cremella, Bulciago e Calpuno erano, prima di questa donazione, delle monache di Cremella. Infatti le monache, come vedremo più innanzi, sostennero contro i canonici di Monza, che un Pasquale canonico del Duomo di Milano aveva donato la corte di Cremella al loro monastero e non alla chiesa monzese. Il Frisi e il Dozio, all'opposto, dedussero dal citato diploma che le tre corti fossero già in possesso della chiesa di Monza, e che Berengario nella sua donazione rinunciasse e condonasse ai canonici qualsiasi suo diritto di dominio che, sull'esempio dei passati re, gli potesse spettare.
Comunque sia avvenuto, nel monastero la vita doveva scorrere regolata tra la preghiera e il lavoro, praticando quanto già San Gerolamo ebbe a scrivere a Demetriade superiora di un monastero romano: « Finita che hai la preghiera del coro non deporre la lana dalle mani; muovi di continuo le dita ai fili della conocchia o premi la trama nelle navicelle del telaio. Raccogli i prodotti della diligenza delle sorelle per addestrarle all'opera di tessitrici ed esamina accuratamente il tessuto: se cattivo, lo riprovi e disponi come esso si debba fare ». Il lavoro monacale per quanto concepito secondo lo spirito benedettino, di uno svago alla mente stanca di pregare e non come l'esercizio di un'industria, doveva pur recare al monastero dei proventi. (60)

*

Gli imperatori, a seconda del bisogno, non vennero mai meno nella loro protezione verso la chiesa di Monza. L'imperatore Ottone III emanò il 10 luglio del 1000 un diploma col quale prendeva sotto la sua protezione la chiesa monzese co' suoi beni (il castello di Bulciago, le corti di Cremella e di Calpuno, ed altre terre), pena, a chi osasse contravvenire, di cento libbre d'oro da pagarsi metà alla sua camera e l'altra metà agli stessi canonici. Probabilmente il diploma fu provocato dai canonici contro alcuni che tentavano usurpare beni o ragioni ad essi spettanti, per quanto di questo non vi sia cenno nel diploma. Si sa invero che, di fronte a Cremella, nel vicino Barzanò sorgeva allora forte e temuto il castello dei fratelli Berengario prete, e Ugo conte, figli del conte Sigifredo, i più potenti e prepotenti signori del contado della Martesana, i quali, se vogliamo credere al Fiamma, « continue civitatem Mediolani igne ferroque vastabant ». Questi signori, che avevano usurpato dei beni al monastero del Salvatore di Pavia, e che poi furono costretti a restituire nel 1014 dall'imperatore Enrico II, probabilmente avranno tentato di allungare le unghie rapaci anche sui vicini possessi della chiesa di Monza. Non si dimentichi per altro, che siamo in un'epoca nella quale uomini e cose, specialmente nelle campagne, erano per lo più abbandonate all'arbitrio e alla prepotenza dei feudatari. (61)
Se non che una rivoluzione, la quale doveva profondamente mutare le condizioni politiche e sociali, veniva iniziandosi in Milano verso la metà del secolo XI con Lanzone da Corte (1042). Ad Ariberto da Intimiano, il grande arcivescovo, che pontificò dal 1018 al 1045, si deve l'aver sollevato a coscienza di uomini liberi, il popolo, armandolo pubblicamente e stringendolo intorno al « Carroccio » nella lotta contro i nobili. I feudatari furono vinti, costretti a rientrare in città, e ad accettare una iniziale partecipazione del popolo nel governo della cosa pubblica. Un altro importante avvenimento, conseguenza del primo, che doveva dare al popolo sempre più la coscenza della propria forza, fu la lotta per la riforma ingaggiata da buona parte del basso clero contro l'alto clero macchiato di simonia e di concubinato: drammatico episodio della grande lotta per le investiture che si combatteva tra il papato e l'impero.
È nota la grande corruzione che devastava la chiesa nei suoi prelati e nel clero secolare e regolare. Si formarono pertanto due grandi partiti nella società milanese: l'uno dei preti ricchi e titolati, capitanati dall'arcivescovo Guido da Velate, indegno successore di Ariberto, e sostenuti dalla nobiltà dalla quale in gran parte uscivano; l'altro dei preti poveri, seguaci delle idee di papa Gregorio VII, sostenuti dal popolo e capitanati da Sant'Arialdo e da Sant'Erlembaldo. L'aspra lotta terminò verso la fine del secolo colla vittoria del partito popolare, chiamato per ischerno dai nobili «patarìa » o degli straccioni.
Da queste lotte il comune di Milano finì col riuscire così forte che nel 1117 i consoli milanesi convocarono un primo congresso delle città lombarde, e vi proclamàrono le franchigie acquistate dal popolo, quasi sfida all'imperatore Enrico V lottante di nuovo contro la Chiesa.
Nel 1152 salì al trono imperiale Federico Barbarossa, risoluto di farla finita coi liberi Comuni Lombardi e particolarmente con Milano. Infatti Milano nel marzo del 1162 fu in gran parte rasa al suolo. Ma ben presto risorta, per opera della prima Lega Lombarda, vinse a Legnano l'esercito imperiale (1176), e con la pace di Costanza (1183) il Barbarossa riconobbe l'autonomia dei Comuni cogli annessi diritti sovrani e gli antichi privilegi, riservato solo all'imperatore un annuo tributo come riconoscimento dell'alta autorità imperiale. (62)
La lotta che il popolo milanese combatteva per la sua libertà, doveva
necessariamente ripercuotersi, sia pure sotto forme diverse, fra gli uomini della campagna. (63) E per dir solo di quanto ci interessa da vicino, nel 1102 la badessa Ermellina del monastero di San Niccolò di Sesto San Giovanni tenta, benché invano, di sottrarsi alla giurisdizione della chiesa di Monza, (64) e nel 1149 gli uomini dello stesso luogo pretendono il diritto, contro i canonici monzesi, di eleggere i cappellani delle chiese di Sesto. Altrettanto nel 1150 un Arnaldo e un Marchese del luogo di Centemero (corte di Bulciago) non vogliono riconoscersi « distrettabili » dei canonici di Monza, (65) ma bensì castellani di Guitardo, signore del vicino castello di Tregolo. I canonici, a tutela del loro diritto, sono costretti a ricorrere ai consoli del comune di Milano, i quali già di fatto giudicavano con diritti sovrani.
Le monache di Cremella non stettero inoperose, ma contro i canonici di Monza ripresero la lotta, per la libera elezione della badessa e la libera accettazione delle monache, (66) e in second'ordine anche la completa autonomia economica del monastero. I canonici, vigilanti dei loro beni e diritti, pensarono di farseli riconoscere dalla Santa Sede, ciò che Callisto Il fece con bolla dell'11 di aprile del 1120. Successo nel pontificato Innocenzo Il, a questi pure ricorsero, perché volesse riconfermare la bolla del suo antecessore. Il pontefice li esaudì con bolla del 25 luglio 1135, ma con giusta prudenza non volle riconfermare loro per il monastero di Cremella se non quello che giustamente dagli imperatori fu concesso, e i legittimi diritti e le ragionevoli consuetudini che godevano sopra la chiesa di San Pietro di Cremella. Probabilmente a Roma, per quanto ci manchino i documenti, le monache dovevano aver fatto sentire le loro ragioni.
Robaldo, arcivescovo di Milano, volle terminare la lite che da molti anni si agitava e non veniva mai ultimata: « a longis temporibus agitatam, nec tamen usque ad nostra tempora terminatam ». Radunò pertanto nella sua casa vescovile i vescovi suffraganei Azone d'Aqui, Gisolfo di Vercelli, Litefredo di Novara, Guidone d'Ivrea, Giovanni di Lodi, e, col consiglio degli Ordinari dei Duomo e di molti altri religiosi abati e preposti, emanò nel dicembre del 1135 la definitiva sentenza.
La causa fu divisa in sette capitoli o punti di controversia; quattro spettanti ai diritti spirituali, e tre ai temporali. Nei capitoli spirituali si decise: l° che il monastero di Cremella era vero monastero per molte ragioni; 2° che l'elezione della badessa, secondo il diritto monastico e la regola di San Benedetto, spettava alle monache; 3° che alla sola badessa spettava perciò il diritto di accettare o dimettere monache dal monastero; 4° che ai canonici, per quanto nulla in proposito risultasse dai privilegi imperiali, era riconosciuto il diritto, per la consuetudine più che trentennaria, di eleggere il sacerdote per la parrocchia di Cremeiia (ossia il cappellano della chiesa vicana), purché l'eletto non avesse per qualche colpa o altro motivo a dispiacere alla badessa o ai parrocchiani.
Per i tre capitoli riguardanti i diritti temporali fu definito: 1° che la corte di Cremella cogli annessi diritti, contro quanto asserivano le monache, era dei canonici; 2° che i canonici dovevano perciò continuare a pagare alle monache l'antico annuale censo o fitto per gli alimenti; 3° che il luogo chiamato « Thassamantia »coll'annesso prato, bosco, campo, selva, e il prato di San Pietro detto di Cassago, dovevano continuare ad essere goduti tranquillamente dalle monache per la consuetudine più che trentennaria.
Osserva il Giulini, a proposito di questa sentenza, che i giudizi incominciavano a prendere una forma molto più regolare, e gli affari vi si esaminavano più maturamente che non per il passato, e che dal clero veniva stabilita una massima importante, che cioè le donazioni di cose ecclesiastiche fatte dai sovrani erano insussistenti, anche se sostenute da lunga prescrizione, non avendo essi il diritto di ciò fare. Massima del resto non nuova, avendola già sostenuta Sant'Anselmo di Mantova (morto nel 1086) in alcune sue sentenze. Tuttavia né l'imperatore Lotario III né i suoi successori si ridussero così presto ad accettare questa giusta massima di diritto, per cui i possessori di beni o ragioni ecclesiastiche donate dai sovrani ricorrevano a questi e procuravano di mantenersi nei loro possessi.
I canonici monzesi infatti dinnanzi alla sentenza di Robaldo ricorsero all'imperatore Lotario, supplicandolo che si degnasse sostenere i diritti a loro conceduti da' suoi antecessori. Trovavasi l'imperatore nell'ottobre del 1136 in campo presso San Bassano. Alla presenza degli arcivescovi Brunone da Colonia, Adelberone di Treviri, Corrado di Magdeburgo, Peregrino di Aquilea, Robaldo di Milano, e di molti altri vescovi e principi secolari italiani e tedeschi, emanò un diploma col quale prendeva sotto la sua imperiale protezione la reale basilica di San Giovanni e le riconfermava tutti i possessi e gli antichi diritti con piena esenzione d'ogni aggravio, pena ai contravventori di duecento libbre d'oro da pagarsi metà alla sua camera e l'altra ai canonici. Per Cremella espressamente si stabiliva che non solo la corte col monastero e gli annessi territori e cappelle spettavano ai canonici, ma che tutte le volte che morisse una monaca i canonici dovessero, secondo la consuetudine, eleggerne un'altra.
L'arcivescovo Robaldo, probabilmente suo malgrado, per non guastarsi coll'imperatore, dovette rimangiarsi la sentenza, da lui pronunciata l'anno prima. A questi due atti contradditori di Robaldo si appoggeranno per l'innazi le monache e i canonici, prospettandoli dal loro punto di vista, per sostenere le loro rispettive ragioni.
I canonici, a legittimare ecclesiasticamente il privilegio di Lotario, ne domandarono alla Santa Sede la riconferma, ciò che papa Celestino II fece con bolla del 1143, nella quale, tra l'altro, espressamente veniva loro riconosciuto il diritto dell'elezione della badessa. Le monache dovettero far buon viso a cattiva fortuna.
Nel 1154 scendeva in Italia Federico Barbarossa. La chiesa di Monza, benché si trovasse giurisdizionalmente riassorbita nell'ambito del Comune e della Chiesa milanese, parteggiò per l'imperatore e per il suo antipapa, così che il Barbarossa non solo nel 1158 restituì alla chiesa monzese la pristina libertà, ma volle anche, un mese dopo la distruzione di Milano, accordarle un'investitura di fondi in Oggiono, Sala, Sirone, Tornago, Cassago, Monticello, Casirago, Missagliola, Sorino, Maresso, Torricella, Torigia, e delle terre tenute dai Barriani, che si dicevano di Missaglia, e dai Pila e da Lorenzo « de Garzoraga ». L'investitura fu fatta nel castello (67) di Cremella il 21 aprile 1162 per Benedetto « de Asia », delegato imperiale. Non trovandosi accennate nell'investitura le altre terre e corti, soprattutto Cremella, della quale era signora la chiesa di Monza, bisogna riconoscere che, probabilmente, come nota il Frisi, l'investitura di queste sarà stata concessa con altri istromenti ora smarriti.
Un grave colpo subirono i canonici in quell'anno stesso, quando papa Alessandro III, volendo premiare la fedeltà di Oberto I, arcivescovo di Milano, alla causa papale, con bolla del 14 ottobre riconfermò all'arcivescovo e ai suoi successori non solo gli antichi beni e diritti, ma vi aggiunse, tra l'altro, anche la chiesa di Monza con le sue cappelle e il monastero di Cremella.

*

Le monache alcuni anni dopo, approfittando del buon momento, ricorsero al pontefice, accusando i canonici di voler distruggere il monastero affidati ad un privilegio firmato dall'arcivescovo Robaldo. Il papa il 13 giugno 1167 (68) spedì un breve all'arcivescovo Galdino, ordinandogli che, qualora le cose stessero realmente così, dichiarasse con autorità pontificia di nessun valore il menzionato privilegio. Come infatti fu revocato.
L'arcivescovo Galdino intanto aveva saputo ridurre la Chiesa monzese a riconoscere il vero pontefice ed a farvi eleggere arciprete un degno ecclesiastico, il nobile milanese Oberto da Terzago. Il pontefice, in segno della sua benevolenza, con bolla dell'ultimo marzo del 1169 riconobbe alla chiesa di Monza i suoi possessi e diritti, compresa l'elezione della badessa nel monastero di Cremella.
Le monache non si perdettero di coraggio. Morti Alessandro III e Lucio III, si rivolsero ad Urbano III, milanese, supplicandolo di volere riconfermare loro con autorità apostolica la sentenza dei sette capitoli di Robaldo. Il pontefice, esaminato l'istromento della sentenza, vi annuì con bolla del 12 settembre 1186.
Se non che, morto Urbano III nel 1187, e dopo due mesi anche il successore Gregorio VIII, i canonici monzesi ricorsero a Clemente III, il quale con bolla del maggio del 1188 riconfermò quanto loro aveva concesso Alessandro III nella bolla del 1169.
Le monache non si diedero per vinte. Venuta a morte la badessa Scolastica, si raccolsero in capitolo e senz'altro elessero la nuova badessa, Febronia, nonostante le proteste dei canonici. Questi appellarono a Roma. Il pontefice Innocenzo III, successo nel 1198 a Clemente III, pensò di finire unà buona volta l'aspra contesa, delegando il vescovo di Piacenza Grunerio e Gandolfo, abate del monastero di San Sisto di Piacenza, ad istruire regolare processo.
Il 6 luglio 1199 le monache elessero loro commissari e procuratori parecchi signori Della Torre. L'11 di gennaio 1200 si portarono quindi al monastero di Cremella l'abate Gandolfo e Guidoto Giudice di Cremella, notaio del sacro palazzo e messo dell'imperatore Enrico, dove alla presenza di testimoni si procedette all'interrogatorio delle parti, ossia delle monache e dell'arciprete ivi presente.
L'interrogatorio durò, ad intervalli, tre giorni.
Dal confesso veniamo a conoscere, tra le altre cose, la quantità e qualità degli alimenti che i canonici somministravano al monastero, il tutto alla misura di Milano allora in uso nel luogo di Cremella; che la chiesa di San Pietro vien detta vicinale; e che i canonici godevano in Cremella e sua corte la signoria per il fatto che vi ordinavano i decani, davano i pesi ai prestinai, le misure agli osti, imponevano e riscuotevano i banni o multe per le offese e per i malefizi, e che di quanto si trovava nel castello essi vi riscuotevano l'affitto.
La sentenza uscì il 6 ottobre 1201. Invano le monache avevano opposto che, essendo il monastero collegiato, per diritto canonico e civile ad esse spettava l'elezione della badessa, e la confermazione della medesima all'arcivescovo di Milano, diritto che non poteva essere infirmato né dai privilegi reali e imperiali né dalle bolle pontificie; che il monastero esisteva del resto già prima di Berengario e per confessione di Ardezzone già da quattrocento anni. I giudici ritennero legittimo l'appello dei canonici e perciò nulla ed irrita si dichiarò l'elezione di Febronia fatta dalle monache.

*

Sempre anelanti alla loro autonomia, le monache dopo alcuni anni ripresero la lotta approfittando dello spirito d'indipendenza che agitava gli uomini delle campagne nei rapporti coi loro signori, per ottenere almeno una parte di quella libertà che già godevano i cittadini.
I signori di terre della campagna milanese, costretti dai movimento della libera vita comunale, sul cadere del secolo XII e nel seguente presero a promulgare particolari Statuti, onde meglio provvedere alla conservazione della loro autorità. E questo, mentre da una parte segnava una restrizione dell'autorità del signore, obbligato ad accettare limiti fissi, dove prima valeva l'arbitrio assoluto di lui o dei suoi ministri, dall'altra segnava un notevole passo verso l'emancipazione delle classi agricole, che venivano sempre più acquistando il sentimento della propria forza e dei propri diritti. Il tempo, che ha disperso molte carte della chiesa monzese, ci ha tuttavia conservato gli Statuti di Calpuno del 1196, quelli per la corte di Bulciago del 1232, di Monguzzo e di Castelmarte del 1237, di Cremella del 1262; Statuti talora replicati più volte come per Castelmarte nel 1246, per Bulciago nel 1247. (69)
Gelosi dei loro diritti signorili erano i canonici monzesi. Perciò era severamente vietato ai loro soggetti di eleggersi i consoli e gli altri officiali, e di ricorrere nelle liti ad altri giudici che non fossero quelli da essi prescelti. Ma, nonostante tali divieti, gli abitanti delle terre, appena si presentava un'occasione favorevole, tentavano la riscossa. E per meglio riuscire nei loro intenti si raccoglievano in associazioni private, le quali talvolta assumevano il carattere di vere leghe di resistenza, per cui erano severamente proibite dagli statuti. (70)
Un episodio interessante di queste riscosse rurali per la conquista di una sempre maggiore libertà, ce l'offrono i Cremellesi poco dopo la metà di questo secolo. Le monache, le quali ebbero sempre a sostenere che la corte di Cremella era in origine di loro spettanza, perduta la partita con la sentenza del 1201, ritornarono all'assalto tentando un'altra via. Per quanto ci manchi la prova diretta, che del resto non è difficile cosa supporre, le monache colsero un momento propizio per insinuare ai Cremellesi e a tutti quelli della corte che essi non erano affatto soggetti alla chiesa di Monza. Quei rustici fecero buon viso alla cosa, e nel 1246 si dichiararono indipendenti dalla signoria dell'arciprete e dei canonici, non riconoscendo ad essi né 1' « honor » né il « districtus », (71) e pensarono di liberamente eleggersi i propri consoli e gli altri officiali.
L'arciprete e i canonici ricorsero ai giudici del comune di Milano.
Il 13 maggio Anselmo Prando, servitore del comune di Milano, intimò il bando agli uomini di Cremella e della castellanza, perché il 17 di quello stesso mese i loro rappresentanti si portassero a presentare le loro ragioni dinanzi ad Ambrogio Cocurella, giudice e assessore del podestà di Milano, Enrico Avvocato. La sentenza riuscì favorevole ai canonici.
L'anno seguente (1247) la Chiesa monzese, come di consueto, mandò a Cremella il 10 gennaio i canonici Lafranco e Rugerio, quali suoi nunzi, perché vi eleggessero gli officiali che per quell'anno dovevano durare in carica, cassando tutti quelli che di fatto ma non di diritto fossero stati eletti dai rustici. Radunata sulla pubblica piazza di Cremella l'assemblea degli uomini, i due delegati vi elessero gli officiali, e quindi li invitarono, sotto pena di sessanta soldi terzoli, e prestare il solito giuramento di fedeltà: gli eletti si rifiutarono. Intimarono allora i due nunzi agli uomini tutti, pure sotto pena di sessanta soldi terzoli a testa, che non avessero ad ubbidire che agli officiali da essi imposti, ma l'assemblea protestò di non volemne sapere. Ciò nonostante i nunzi confermarono gli statuti e gli ordinamenti fatti dalla chiesa di Monza, cassarono tutti gli officiali che di fatto, ma non di diritto, avessero eletti gli uomini di Cremella e della castellanza, e imposero di non eleggerne altri se non volevano incorrere nella pena di sessanta soldi terzoli.
Il 18 di novembre l'arciprete Arderico da Soresina, per mezzo del nunzio Guifredo da Casate, canonico monzese, impose agli uomini di Cremella e castellanza, raccolti in assemblea sulla piazza del luogo, che senza licenza dell'arciprete non avessero ad eleggere né podestà, (72) né consoli, né canevario, né procuratore, né altri officiali; che non avessero a fare qualsiasi causa o ad eleggere esattori di frodo o di taglie; e che nessuno assumesse officio qualsiasi: pena a ciascheduno di sessanta soldi terzoli. Quindi Mudalbergo Guazono, servitore del comune di Milano, in nome di Albertano di Sant'Agata, giudice e assessore di Corrado da Concesa, podestà di Milano, intimò ai sindaci degli uomini di Cremella e castellanza di portarsi alla sua presenza per la causa, che la chiesa di Monza aveva intentata contro di essi, e per la sentenza emanata che Manfredo della Porta, sindaco della chiesa monzese, domandava di far eseguire; che se non fossero venuti nel termine stabilito, egli avrebbe dato esecuzione alla sentenza e in detta causa egli avrebbe proceduto come gli sarebbe sembrato di diritto.
L'arciprete finì col vincere la causa, e a miglior tutela dei diritti della sua chiesa, investì il 13 febbraio 1248 solennemente « cum baculo uno quem tenebat in manibus», cioè con lo scettro, a guisa degli altri primari feudatari imperiali, del gastaldatico o villicato di Cremella e sua castellanza e sua curia, previo giuramento, Andelloo de Fossato di Cremella, con ampi poteri sull'amministrazione economica e con attribuzioni giudiziarie, e cioè « de omnibus que pertinent ad villicatum seu gastoldiacum, inter que sunt tenere causas nomine Modoetiensis Ecclesie, et precipere et definire et redditus colligere et domos et res et fructus suprascripte Ecclesie gubernare, et omnia alia facere que ad villicatum seu gastoldiacum pertinent et pertinere consueverunt ». (73)

*
La chiesa di Monza, dinnanzi alla lotta tenace, irriducibile delle monache, tentò nel 1256 un colpo decisivo, che, se riusciva, portava all'immediata soppressione del monastero. Il momento era più che favorevole. Papa Alessandro IV, in segno di sua particolare benevolenza, aveva concesso in quell'anno all'arciprete Raimondo Della Torre e ai suoi successori l'uso dell'anello vescovile. Raimondo scrisse pertanto al pontefice come il monastero di Cremella, il di cui annuo reddito sommava a venticinque marche « sterlinghorum », era quasi totalmente rovinato per l'incuria di quelle monache conducenti una vita dissoluta, e perciò lo supplicava a volerlo sopprimere e ad incorporare i beni con quelli della Chiesa monzese. Il papa spedì il 12 gennaio 1256 un breve a Leone da Perego, arcivescovo di Milano, nel quale si ordinava che, se le cose stessero così realmente e il monastero non si potesse riformare, il monastero co' suoi beni passasse in proprietà della chiesa di Monza, e le monache fossero traslocate in monasteri della diocesi dello stesso Ordine.
Le monache, pur mancandoci i documenti in proposito, devono aver ricorso ai ripari, e certamente se difetti c'erano, saranno stati tolti, giacché il monastero continuò a sussistere, e la chiesa di Monza continuò a somministrargli gli alimenti d'obbligo, come risulta da confessi di ricevuta, rilasciati dalla badessa Febronia nel 1274, 1275 e 1276 all'arciprete Manfredo Della Torre. E nel 1279 Pagano, vescovo di Famagosta, ordinario della chiesa milanese, diede in mutuo alle monache dieci lire terzole; mutuo restituito nel 1281.
La chiesa di Monza, per un compromesso fatto col monastero, doveva versare ogni anno centosessanta lire terzole, quale ammontare fisso per il sostentamento delle monache; somma dovuta per le terre del luogo di Cremella.
L'arciprete e i canonici assolvevano al loro obbligo col rilasciare nel 1293, 1294 e 1298 al monastero, per interposta persona, le rendite del territorio di Cremella. (74) Più tardi, quando il 5 agosto del 1309 i canonici di Monza affittarono i beni ad essi spettanti, e tra questi tutti i redditi di Cremella, all'arciprete Lombardo della Torre compresa la casa e la prebenda della chiesa durante la vacanza del titolare, imposero all'arciprete l'obbligo di soddisfare, per la durata della locazione, la solita somma ch'erano tenuti annualmente a sborsare alle monache di Cremella. Del 17 novembre 1344 abbiamo un'altra ricevuta, rilasciata dalla badessa Malgarita da Giussano al canonico Iustollo, il quale in nome dell'arciprete e dei canonici aveva versato lire ottanta terzole quale seconda rata del credito dovuto.
Nell'agosto del 1344 la chiesa di Monza ottenne dalla comunità di Cremella la distinta dei possessi situati nel territorio e in altri luoghi vicini. L'atto fu rogato in Cremella. Lasciati tre giorni, come di diritto, agli interessati di poter reclamare contro eventuali errori di tale censo, e nessuno essendo comparso, il 18 di agosto in Milano nella curia arcivescovile, Calvo « de Marano legum doctor maior ecclesie Vercellensis », vicario generale dell'arcivescovo e signore di Milano Giovanni II Visconti, confermò la consegna alla presenza di Iustollo, procuratore della chiesa monzese, la quale fu poi legalizzata dai notai Filippolo de Pandolfo e Beltramolo de Gallarate. Nella enumerazione dei possessi il castello di Cremella è detto diroccato: «Item castrum dicti loci derupatum cum duabus cameris sitis prope ecclesiam dicti loci ».

*

Le lotte tra i guelfi e i ghibellini che, specialmente nel secolo XIV portarono divisioni tra villaggi e villaggi, tra famiglie e famiglie, e spesse volte tra i membri d'una stessa famiglia, con ferimenti, uccisioni, incendi di case, guasti di campagne, (75) fecero risentire i loro tristi effetti anche sulla disciplina ecclesiastica e monacale. Guglielmo II Pusterla, arcivescovo di Milano, pensò da buon pastore di rimediare a tanto male. Perciò il 12 luglio 1362, avendo trovato che alcuni monasteri e case di monache e religiose del contado del Seprio abbisognavano di riforma, delegò visitatore Tomaso Pusterla, Ordinario del Duomo, con facoltà « corrigendi et etiam reformandi singulares personas monasteriorum et domorum huiusmodi per captionem, carcerum intrusionem, et alia queque iuris remedia pro eorum delictis et excessibus iuxta uniuscuiusque delicta exigentiam vel excessus etiam puniendi », e di far richiesta, se necessario, del braccio secolare. E decreti contro monache e preti emanò l'arcivescovo il 20 settembre e il 4 ottobre. (76) L'anno seguente, al 28 di aprile, delegò frate Leone « de Lugano, decretorum doctor » e professo dell'Ordine dei Celestini di Milano, a visitare monasteri e case di monache e di religiose del contrado della Martesana. Il monastero di Cremella, situato in territorio martesano, non fu trovato esente dai difetti del tempo. Il 6 dicembre fu infatti dall'arcivescovo concessa facoltà al prevosto della collegiata di San Salvatore di Barzanò di assolvere dalla scomunica la badessa e le monache, nella quale erano incorse, per non aver voluto ubbidire al precetto dell'arcivescovo di cecarsi a dormire nel dormitorio del monastero, e per aver litigato fra di loro con effusione di sangue e abbandonato il monastero. (77)
Nel dissolvimento dell' ordinamento comunale cittadino era venuto sempre più rafforzandosi, per ineluttabile evoluzione, il potere centralizzatore della signoria viscontea. Gian Galeazzo Visconti, (78) fatto prigioniero lo zio Bernabò nel 1385 e stretto nelle sue mani tutto il dominio, curò di dare una buona organizzazione al suo Stato. Tra l'altro procurò di levare parecchi disordini ecclesiastici. Così, dopo avere nel 1381 intimato di tradurre dinanzi ai tribunali civili coloro che, commettendo delitti, si appellavano al foro ecclesiastico solo perché avevano la prima tonsura e portavano l'abito ecclesiastico, nel 1399 emanò un decreto col quale si puniva colla pena capitale chiunque avesse osato di trattare « carnaliter » con religiose. Pene al riguardo sancirono pure i successori Giovanni Maria e Filippo Maria Visconti.
Il monastero di Cremella poté finalmente ottenere l'indipendenza economica dalla chiesa di Monza nel 1381. Al 21 di giugno si convenne tra le monache e i canonici che questi, in cambio delle centosessanta lire terzole, le quali si pagavano metà a San Lorenzo e l'altra metà a San Martino, avrebbero rilasciato al monastero tutti i beni del territorio di Cremella, riservandosi soltanto il castello e le case in esso situate con «l'honor » e il « districtus » del luogo. (79)


Tuttavia all'indipendenza economica non corrisposero tanto presto né una saggia amministrazione, né una maggiore osservanza delle regole monastiche. Il personale del monastero venne poco a poco diminuendo, e molti beni e diritti andarono usurpati, per quanto il 1 giugno 1409 si fosse redatto, per ordine ducale, un inventario dei beni del monastero. Triste condizione comune a molti monasteri della diocesi, per cui non pochi sparvero soppressi. Nella Brianza ebbero fine nella seconda metà del secolo XV i monasteri delle benedettine di Santa Margherita di Casate Vecchio, di San Lorenzo di Brianzola, di San Colombano presso Arlate: quest'ultimo venne incorporato con quello dell'Annunciata in Milano. (80) Ed altri ancora.
Se non che, venuta a morte nel 1450, « extra Romanam Curiam », la badessa Jacobina Mauri, le monache professe Angerina Mauri, Catella Perego, e la conversa Giovanna Vicini « fatientibus totum et integrum conventum dicti monasterii » scelsero il sacerdote Jacobino Lampugnani di San Vittore al Teatro di Milano, perché eleggesse la nuova badessa. Il Lampugnani nominò il 22 aprile l'Angerina Mauri, la quale troviamo già monaca professa nel monastero fin dal 1440. L'elezione fu approvata tre giorni dopo dal duca Francesco Sforza, essendo l'Angerina donna «devota et sufficientissima non solo al governo di tal cossa ma anche assay magiore», e dall'arcivescovo di Milano il 28 dello stesso mese.
L'Angerina, della fiera stirpe ghibellina dei Mauri di Corneno, salvò infatti il monastero dalla decadenza. Sistemò innanzi tutto economicamente il monastero, rivendicando beni e livelli usurpati, ottenendo perfino nel 1466 e nel 1478 dall'autorità ecclesiastica scomuniche contro i detentori occulti e ribelli, e nel 1479 sollecitò l'autorità ducale e arcivescovile, perché dalla comunità di Cremella si presentasse una legale distinta di tutti i beni di ragione del monastero liberi e livellari situati nel suo territorio. (81)
Memorie intorno all'andamento disciplinare interno sotto questa badessa non ne
ho trovate. Nell'inventano dell'archivio del monastero, compilato al momento della soppressione, vi sono ricordati gli atti di un processo contro la badessa dal 1464 al 1468, atti ora mancanti, per cui non saprei dire per quale causa. Tuttavia dal fatto di aver l'Angerina domandato e ottenuto da Roma nel 1459 di potersi eleggere per cinque anni un buon confessore, (82) e di avere aumentato il numero delle monache professe a dieci, si può ritenere che, dati i tempi, si procedesse discretamente bene. La badessa ebbe fortuna di avere ai suoi fianchi un pio e zelante sacerdote, Andrea Isacchi, rettore della chiesa di San Sisino di Cremella. Questo sacerdote, per più aspetti veramente benemerito del monastero, venuto a morte in tarda età il 20 novembre 1500, per disposizione testamentaria dotò in perpetuo co' suoi beni paterni in San Feriolo la cappella di San Sebastiano nella chiesa delle monache.
E' con questa badessa che, al dir del Somaglia, nel 1482 sarebbe avvenuta, come si è detto, la completa, totale indipendenza del monastero dalla chiesa monzese. L'Angerina, sfinita dall'età, e più non sentendosi di portare il governo del monastero, domandò di essere esonerata dalla sua carica. Raccolte in capitolo le monache professe il 9 gennaio 1489 volontariamente e solennemente espose la sua rinuncia, e si elesse Giorgio Mauri, prevosto di Bellano, perché ne ottenesse dal pontefice la ratifica. Accettata a Roma la rinuncia, fu eletta badessa l'1 novembre Margherita Mauri, la quale fu solennemente immessa nella sede abaziale durante la messa solenne, essendo giorno di domenica, alla presenza di numeroso popolo. (83)
Il buon indirizzo dato dall'Angerina continuò negli anni successivi. Il monastero
veniva aumentando di personale e di beni con nuove compere. Contro i debitori morosi la badessa Margherita invocò nel 1516 provvedimenti dal duca Francesco I, re di Francia. (84) Il duca ordinò il 9 di settembre ai suoi officiali e iusdicenti, di procedere personalmente contro tali debitori del monastero, previo avviso di venti giorni. Quelli che si erano allontanati, o che ne avevano l'intenzione, dovevano essere presi e non rilasciati fino a tanto che non avessero pagati i loro debiti. Chi poi avesse deposto il falso doveva essere obbligato a nisarcire le spese incontrate per la sua detenzione, oltre venticinque fiorini da versare alla camera Ducale. Il decreto aveva forza per due anni. Tuttavia si ottenne ben poco. I debitori, specialmente i livellani, si fecero rilasciare istromenti ed altri documenti falsi contro i diritti del monastero. La badessa ricorse a papa Leone X, il quale con bolla del 14 marzo 1518 diede ordine al vescovo Asculano, vicario generale della diocesi milanese, di lanciare la scomunica contro i notai falsari e i debitori renitenti. La scomunica ottenne, a quanto pare, in gran parte il suo scopo.
Col miglioramento dei mezzi economici (85) cresceva di pari passo anche il numero delle monache. Nel 1565, essendo badessa Ippolita Nava, troviamo raccolte in capitolo quindici monache professe, costituenti tre parti di quattro e più delle monache del monastero. L'osservanza della disciplina monastica non doveva essere né migliore né peggiore di quella osservata negli altri monasteri avanti la riforma del concilio di Trento. (86) Un particolare interessante le divozioni delle monache si è che nel 1551 si eresse nella chiesa del monastero il pio esercizio della Via Crucis.

*

Lo splendore delle lettere e delle arti nel periodo del Rinascimento copriva una grave decadenza nella vita religiosa e nei costumi. Anche i monasteri, chi più chi meno, ne risentirono le conseguenze. Vivamente sentito era il bisogno di una sana riforma. Papa Paolo III con bolla del 1542 indisse un generale Concilio, il quale iniziatosi a Trento il 13 dicembre 1545 non poté esser chiuso che nel 1563. Il periodo più risolutivo del Concilio furono gli ultimi tre anni, e questo lo si deve in buona parte all'opera di S. Carlo Borromeo allora segretanio di Papa Pio IV suo zio (87)
La diocesi di Milano, che da quasi ottant'anni non vedeva più i suoi arcivescovi, i quali si accontentavano di riscuotere le rendite e di farsi supplire da vicari generali, lasciava molto a desiderare, pur facendo un po' di tara alle esagerazioni di taluni scrittori. La diocesi milanese si trovava press'a poco nelle identiche condizioni delle altre diocesi lombarde. Anzi in alcune, come a Cremona, si stava peggio. (88) Dio che suscita i suoi santi a seconda del bisogno dei tempi, scelse per arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo. Creato arcivescovo nel 1560, vi fece residenza nel 1565. Tuttavia negli anni che dovette star lontano dalla sua diocesi, non stette inoperoso, ma vi mandò vicari di fiducia, eminenti per dottrina, zelo e virtù, i quali gli avessero a preparare il cammino. Il primo dei vicari fu Antonio Roberti, l'ultimo l'Ormaneto.
San Carlo aveva mandato a Milano nel 1562 monsignor Ferragata, vescovo agostiniano, perché lo supplisse nelle cerimonie pontificali e nella visita della diocesi. Il Ferragata, com'egli scrive in una lettera pastorale del 6 ottobre 1562 a tutte le «Abbadesse, Prioresse, Madri, Monache et suore », avendo visitato monasteri della città e diocesi « et proveduto sì come Iddio ci ha inspirato », e desiderando che in sua assenza le cose andassero di bene in meglio, emanò opportune prescrizioni, che San Carlo poi perfezionò nel Concilio Provinciale I, celebrato nel 1565, e negli altri successivi. (89)
La riforma degli istituti monastici si presentava assai difficile. Per rimediare a mali incancreniti dal tempo si richiedeva una mano vigorosa, ed è ciò che 1'Ormaneto faceva osservare a San Carlo, scrivendogli che l'opera, senza l'immediata sua presenza, riusciva sovente inefficace, stante i contrasti e le difficoltà che sorgevano ad ogni serio proposito di riforma. Un serio inciampo al rifiorire della disciplina monastica e alla piena osservanza delle regole si era che gran parte dei monasteri delle antiche congregazioni erano formati di scarso personale e dotati di scarsi mezzi di sussistenza. Il Borromeo, informato della cosa, scrisse all'Ormaneto nel 1564 che « si manderà ordine dal papa con ampia facoltà di unire i piccoli monasteri delle monache ».
L'arcivescovo, fissata definitivamente la sua residenza in Milano, si mise egli stesso al lavoro con santa energia. Il concilio di Trento aveva emanati decreti riguardanti i bisogni della Chiesa in generale, ma San Carlo li completò saggiamente nell'esecuzione pratica in tutti quei particolari che solamente l'esperienza poteva suggerire. I Concili Provinciali e i Sinodi Diocesani da lui celebrati rimangono tuttora un insigne monumento di sapienza pratica nell'esecuzione della riforma tnidentina. (90)
La riforma delle case religiose femminili fu quella che, in particolar modo, gli doveva procurare dispiaceri e calunnie perfino presso le somme autorità, ma fu quì d'altra parte dove rifulse la sua santità e la sua energia. Egli soppresse o ridusse nelle città e nelle campagne molti monasteri decaduti, e molti fece rifiorire col mettere alla testa dei buoni soggetti. Naturalmente le monache opposero, salvo eccezioni, una fiera resistenza. Lo ricevevano con freddezza e talora con insulti. (91) Ma per lo più le religiose cercavano di rendere vana l'opera dell'arcivescovo coll'intrigare, per mezzo di potenti influenze, alla corte pontificia.
E' noto, ad esempio, quanto ebbe da fare per sopprimere l'antico e decaduto monastero delle Benedettine di Santa Maria d'Ingino di Monza. Le monache sul subito non avevano voluto obbedire, ma poi con giuramento al visitatore delegato promisero ubbedienza all'arcivescovo. Pentite della giurata sottomissione, interposero per mezzo dei parenti, la mediazione di illustri porporati. Scrissero infatti a San Carlo il Sirleto, e i cardinali di Urbino, di Vercelli e di Como. Quest'ultimo, come segretario di Stato, ne fece particolarmente parola al pontefice e ottenne che per allora la soppressione fosse sospesa. San Carlo scrisse al Cardinale di Como, (Tolomeo Gallio), difendendo il suo modo di procedere, e sottoponendolo alla Sacra Congregazione, la quale lo approvò con rescnitto del 21 luglio 1571. Le monache tentarono di nuovo di opporsi all'esecuzione del decreto, ma l'arcivescovo invocò l'appoggio del governatore e del Senato di Milano, così che le monache dovettero loro malgrado ubbedire.
Il Borromeo con lettera del 15 settembre ne dava relazione a monsignor Speciano, scrivendogli che ora tanto le monache quanto i loro parenti si trovavano contenti, « il che (diceva) potete riferire a N. S. acciocché questo successo serva per esempio che uno dei punti nell'eseguire le cose è il risolversi da dovero di voler fare, et star poi saldi nelle risolutioni ». Queste parole ci rivelano il carattere del santo riformatore. (92)
La Brianza contava allora quattro antichi monasteri di benedettine: quello di Cremella, di Brugora, di Bernaga, e di Lambrugo. Quest'ultimo, situato sull'opposta sponda del Lambro, non era propriamente nel Monte di Brianza; le carte del monastero lo dicono semplicemente nella pieve d'Incino, e dipendente da quel podestà. San Carlo pensò di sopprimerli e di traslocare le monache in Milano. Incominciò dai monasteri di Lambrugo e di Brugora, come più ricchi degli altri due, imponendo loro di comperarsi in Milano nel 1578 un vasto edificio detto il monastero di Vigevano, dove prima stavano altre monache dal santo trasferite nel monastero di Santa Maria del Cerchio. Le monache dei quattro monasteri, le quali uscivano da famiglie nobili o ricche, si allearono e interposero a Roma una tenace resistenza per mezzo dei loro procuratori e parenti. Costoro presentarono alla congregazione dei Regolari un memoriale motivando le « Raggioni perché l'Ill.ma Congregat.e non debba permettere a Monsig. Ill.mo di S.ta Prassede di transferire li Monastieri di Brugora, Lambrugo, Bernaga, et Crimella a Milano ». 1° perché fondati da più di trecento anni e situati in luoghi abitati e sicuri, e perciò non potevano essere compresi nel decreto del concilio di Trento C. V., sess. XXV. 2° perché dei detti monasteri e loro monache non si era mai inteso « ne suspetto né difetto alcuno come anco s. s.ria Ill.ma attesta »; 3° perché « si diminuirà assai il culto divino, levandosi per questo la comodità et occasione alli nobili habitanti d'introdurre le loro figliuole all'osservanza della castità et religione, et si scemeranno in tal modo l'opere pie et divotioni delli habitatori di quel paese verso di questi Monasteri perché con il mezzo delle orationi di quelle Monache venghono levati molti infortunii di grandine et d'altro temporale a quali quello paese è molto sottoposto »; 4° « che avendo a fare mutatione di uno luoco di buon'aria et sana, ove sono nate et allevate, ad un'altro d'aria grossis.a et malsana come è Milano, a quelli che non li sono avezzi senza dubio molte di loro se ne moriranno, aggiontove pur il dispiacere et travaglio che sentiranno di haver lasciato la patria et parenti loro ». 5° « Si metteranno queste povere Monache in estrema disperatione sì perché fra di loro per esser di nuovo ord.e et di conversat.e straniera sempre havranno mille disgusti et dispiaceri, si perché li ministri dell'Ill.mo Card.e Borr.o trattano in simil caso le povere Monache senza sorte alcuna di pietà et rispetto, et hora con molto maggior rigidezza procederanno contro de questi Monasteri perché alla prima non hanno consentito a questo intento loro, onde senza dubio avverrà che molte di loro addotte da somma disperazione da sé stesse s'amazzaranno come di già è avvenuto molte volte in Milano, et è notorio ». 6° « In ispacio di 3 o 4 anni perdaranno più della mettà delle sue entrate perché le loro possessioni saranno in cura de contadini, i quali come si sa li lasciano andar in rovina, e particolarmente le vide et pratto de qualli è la loro principal entrada ». 7° « De ordine dell'Ill.mo Borr.o et di Monsig. visitatore ap.co dopo il conc.o sono statte raddoppiate tutte le clausure a questi Monastieri con grave dispendio loro, et se Monsig. Ill.mo Borr.o haverà l'animo di levarle è statto cosa contro ogni dovere il fargli spendere tanti denari ».
« Le fabriche di questi quattro Monastieri passano il valimento de 60/m, et volendosi vendere non si truoverà chi li voglia »; 9° « Sarà necessario che vendino le loro proprietà per comprare et far fabricare altri Monastieri et chiese di Milano, et per comprar mobili et utensigli in Milano, a talché all'ultimo saranno costrette andar mendicando contro la forma della loro regola et contra il decoro et professione ch'hanno fatto; inoltre restaranno prive di molte comodità circa al vivere le quali si come in quelli luochi non li costano cosa alc.a, a Milano se le voranno bisognerà che le paghino molto care. Di più sarà necess.o che spendano molti danari l'anno in vitture d'huomini et cavalli per far condurre a Milano le loro vittovaglie et provisioni, non potendosi farle venir altrimenti sarà anco necess.o che paghino mille scudi di fitto all'anno, et talché quasi tutta la loro entrada si consumerà in spese straordinarie». 10.° « Molti genthiluomini di quel paese si sono unitamente risoluti di volerse rittrare presso di sé le loro figliuole et parente o metterle in altri Monastieri, e di correre qualsivoglia fortuna più presto che vedere il loro sangue ridotto a tanta miseria et posto in mano di persone et ministri privi d'ogni pietà et humanità »; giacché nessun fondamento poteva avere il « consenso datto dalle sud.e Monache perché non si troverà mai che questo consenso sia libero ma si ben forzato et captioso, causato dall'importune et minaciosi persuasioni che si sogliono fare dalli ministri del detto Ill.mo di S.ta Prassede come si sa notoriamente in Milano et si comproba col caso ultimamente seguito nel Monastero di S. Marcella in Milano, oltre che se questo consenso sia libero o non si ricava benissimo da questa sola raggione che è che non havendo mai voluto consentire a questa unione li duoi altri Monastieri di Cremella et Bernaga, all'ultimo doppo introdutta la causa in questa Ill.ma Congregat.e sono statti sforzati li duoi detti Monastieri a far l'unione tra di loro perché li ministri dell'Ill.mo Borr.o non solo gli havevano vietato che non fossero visitate da persona alcuna ma anche levategli il commercio delle persone necessarie sino delli molinari che li portavano la farina di modo che astrette dalla necessità et dalla tanta impietà per non morir di fame sono venute nel sud.o atto ».

*


San Carlo aveva giustificato il suo operare col dire che i denari erano pronti per pagare i nuovi monasteri di Milano; che le clausure erano state raddoppiate per ordine del visitatore apostolico ma col proposito di rimuovere a suo tempo le monache; che i monasteri si trovavano in luoghi aperti, e senza comodità di sacerdoti, medici, speziali, e chirurghi; che le monache avevano volontariamente acconsentito al trasloco, e che i testimoni esaminati da monsignor Porro confermarono tutto quanto era narrato nella relazione di monsignor Moneta.
I procuratori inoltrarono una « Risposta alli relevi del Card.le di S.ta Prassede contro li quattro Monasteri del Monte di Brianza et pieve d'Incino », opponendo: 1°. che sulla somma totale di lire cinquantamila, per la compera del monastero di Vigevano, si erano trovate solamente cinquemila lire imprestate da un fratello di due monache del monastero di Brugora, mentre per i monasteri di Cremella e di Bernaga non vi era nemmeno un soldo, dovendosi perciò vendere tanti beni per comperare un nuovo sito e fabbricarlo. 2°. che sarebbe inumano pensare che il visitatore apostolico avesse fatto spendere tremila scudi per monastero, raddoppiando le clausure, per poi rimuovere le monache. 3°. che i monasteri erano in luoghi sicuri e abitati, come si era già provato in precedenti informazioni. 4°. che le monache avevano acconsentito ad essere traslocate « per violenza delli Ministri del s.r Card.le Bor.ro, et per riverenza et timore di s. s.ria Ill.ma sendo notorio al Mondo il maltrattamento che fanno all'altre Monache che non vogliono consentire alle loro richieste come degnandosi N.ro S.rè di mandar il dellegato si vedrà.» 5°. che i testimoni esaminati furono tre soltanto e aderenti al cardinale, « cioè duoi preti et un frate ch'hanno servito alle dette Monache, et di poi a contemplazione d'essi ministri l'hanno insidiato scoprendosi che nel Monas.o di Cremella s. s.ria Ill.ma designa di mettervi Preti del Jesù, o di altra sorte, senza alcuno riguardo alla rovina di quelle povere Madre, e però non meritano credenza alc.a né si devono ammettere ». E per conclusione « detti gentilhuomini protestariano a S. S.tà et all'Ill.ma Congregat.e che questi nobili et popoli più presto che tollerare questa rovina del sangue loro sono risolutissimi di ritrarre le loro figlie, sorelle et parente dalli detti Monasteri et reporle in altri fuori della giurisdizione sua et correre qual si voglia fortuna et di sinistro et di qual si voglia accidente
La Sacra Congregazione ritenne buone le loro ragioni, per cui Papa Gregorio XIII, con breve del 12 ottobre 1580, concedeva ai quattro monasteri di poter sussistere nei rispettivi luoghi, e permetteva alle monache di Lambrugo e di Brugora di vendere il monastero di Vigevano. Il locale fu venduto per cinquantaquattromila lire il 18 luglio 1583 al Collegio degli Svizzeri che lo comperò per ordine di San Carlo, e dove Federico Borromeo fece poi innalzare per il Collegio Elvetico un bel edificio su disegno di Fabio Mangone, che le vicende dei tempi lo trasformarono in palazzo del Senato ed ora sede dell'archivio di Stato.
San Carlo per il momento credette bene di lasciar correre, rimanendo per altro fermo nel proposito di sopprimere i quattro monasteri. Con la debita prudenza ma con pari inflessibilità attendeva il momento opportuno. Nel 1582 il santo si recò a Roma, dove rimase parecchio tempo, e al sommo pontefice espose personalmente le ragioni del suo procedere verso quei monasteri, e se ne ritornò colla licenza del trasferimento a tempo debito, e che per intanto in essi rimanesse sospesa qualsiasi nuova monacazione. L'11 di gennaio 1583 il cardinal Maffeo scriveva infatti alle monache del monastero di Lambrugo, le quali si lamentavano che il Borromeo non concedeva loro di vestire nuove monache, che l'arcivescovo di Milano andava sempre pensando di trasferire altrove detti monasteri col consenso del Pontefice, e che perciò « haveva risoluto di non rivestire in esso più novitie fino a nuovo ordine di S. S.tà »: proibizione dal Borromeo mantenuta anche nell'ultima sua visita che fece al monastero di Lambrugo nell'agosto del 1584. E certamente i monasteri sarebbero scomparsi se San Carlo non fosse venuto a morte il 3 novembre 1584.
Gli successe nella sede arcivescovile Gaspare Visconti, ma rimase la proibizione di professare nuove monache nei quattro monasteri, i quali si videro perciò condannati a sparire per esaurimento di personale. Intanto a Gregorio XIII era successo nel pontificato Sisto V.
I procuratori delle monache inoltrarono una supplica, osservando che poco frutto « ricevariano li nobili et rimanenti del popolo del Monte di Brianza » di avere ottenuto « con tante fatiche et spese dalla s.ta me.a di Gregorio XIII et dalle Sacre Congregat.i de Cardinali maggior et minor », che i monasteri non fossero rimossi dalle antiche loro sedi se poi venissero annichilati col non potervi professare altre monache. Aggiunsero ancora che per quei monasteri veniva a cessare il decreto del Concilio Tridentino, essendo circondati da molti paesi e casali così numerosi che al tocco d'una campana vi correvano in aiuto più di duemila persone, mentre d'altra parte la loro scomparsa portava un danno « inestimabile alli padri di famiglia di detto paese, i quali, come spesso occorre, gravati di numerosa famiglia non haverano più comodità di colocare le loro figlie per Monache ». I firmatari speravano perciò di essere consolati anche per il fatto che, essendo il Monte di Brianza molto vicino e circondato da paesi infetti di eresia, « nondimeno è statto in ogni tempo tale il zelo del culto divino et honor et radicata talmente la fede cattolica nel cuore di detti oratori et de lor antecessori che ne in generale ne in particolare in loro si è may intesa macchia alcuna di simil peste».
Contemporaneamente le monache presentarono pure una supplica al pontefice, che trasmise al cardinal Alessandrino perché avesse a parlarne nella Congregazione, e sorgendo difficoltà ne avesse a riferire. La Sacra Congregazione notificò all'arcivescovo di Milano le istanze ricevute, e se avesse cosa alcuna da opporre lo dichiarasse. Le monache e i procuratori, per quanto brigassero, non poterono aver copia della risposta dell'arcivescovo onde poter ribattere alle osservazioni che potevano essere state fatte. Tuttavia la Sacra Congregazione fu loro favorevole, giacché il 12 novembre 1587 l'Alessandrino mandava all'arcivescovo che si dovesse concedere ai quattro monasteri di ricevere e vestir monache come si faceva prima che fossero interdetti; decisione confermata definitivamente da Sisto V con breve del 23 dicembre 1588.
La controversia ebbe una durata di circa dieci anni. Dai cardinali della Congregazione era stato da ultimo incaricato l'arciprete di Monza Camillo Aulario (93) di presentare un'accurata relazione sulla vertenza, ciò ch'egli fece accompagnandola con una pianta del Monte di Brianza. Questa pianta, probabilmente la prima carta geografica che fu stesa della Brianza, per quanto abbia cercato non l'ho trovata.
*

Per quello che riguarda particolarmente il monastero di Cremella sappiamo che San Carlo lo visitò la prima volta il 21 agosto 1571 in occasione della visita pastorale alla parrocchia del luogo. (94) La chiesa di San Pietro fu trovata decente, a volta, ben dipinta, con tre navi: una parte della nave minore era occupata dalle finestre delle monache munite di ferrate o grate. La chiesa era lunga sedici braccia e larga venti e ben pavimentata. Oltre l'altar maggiore c'era l'altare di San Sebastiano nel mezzo della navata destra, e un altro di San Giovanni Battista in capo alla navata sinistra. A destra dell'altar maggiore in una finestrella della parete vi si conservava il Santissimo Sacramento in una custodia di oricalco, e vi ardeva di continuo la lampada. Sotto il coro, o chiesa interna delle monache, vi era uno « scurolo », dove molte persone per divozione convenivano in certi giorni e nel quale talvolta si celebrava, « quod non videtur convenire ecclesiae monalium », dicono gli atti di visita. La chiesa era, per altro, tutta da accomodarsi secondo le norme delle chiese per religiose. Fu pure visitato il convento che conteneva ventun monache professe e sei converse, le quali recitavano l'officio divino « more monastico », e quattro educande. Fu osservato che le due vecchie ruote del monastero erano così grandi che chiunque poteva facilmente entrare od uscire; che nel giardino a destra vi era un muro dal quale le monache potevano guardare nella pubblica via ed essere da tutti osservate, e che la camera con pontile presso il coro non era conveniente per abitazione di monache. Circa i costumi e l'osservanza della regola « nihil repertum fuit », perché non furono oggetto d'esame.
Naturalmente, San Carlo vi lasciò i relativi decreti di riforma per la chiesa e per il monastero. Tra questi ricordo la soppressione dello « scurolo » e dell'altare particolare che le monache avevano nella chiesa interiore; l'abbassamento del pavimento, così da non poter le monache guardare nella chiesa esteriore; fare un tabernacolo in legno indorato da collocarsi sull'altar maggiore. San Carlo comandò inoltre che si levassero i due muri, dove allora le monache avevano le finestre per udir la messa, ritornando la nave nel suo stato primitivo, e si innalzasse un muro sotto la nave sinistra, dove stava l'altare di San Giovanni Battista, in modo che le facciate delle navi risultassero ben allineate.
Monsignor Francesco Porro, che, delegato da San Carlo, aveva visitato il monastero il 13 ottobre 1580, trovò di dovere ancora prescrivere che si accomodasse la finestrella per la Santissima Comunione alla forma prescritta; che si aggiustasse, secondo la debita forma, la grata sopra l'altar maggiore; che si facesse murare la finestra che dalla chiesa guardava in giardino; che si levassero le serrature alle cassette, panche, e "guarneri" delle monache; che si estirpassero i gelsi ch'erano nella clausura vicino al muro di cinta, così che nessuno potesse entrare, né le monache coltivar bachi da seta; che si alzasse il muro di cinta, che si scegliesse una monaca devota, la quale insegnasse il catechismo alle converse; che si provvedesse un orologio per la comunità; e finalmente che si accomodasse il torno alla forma prescritta e vi si tenesse l'ascoltatrice.
Il monastero fu visitato da San Carlo una seconda volta il 4 agosto 1583.
*

La riforma dei monasteri, secondo i nuovi cànoni del concilio Tridentino, in generale non veniva attuandosi che lentamente. E si capisce. Si trattava, col togliere usi e abusi inveterati da secoli, di restringere, se non anche di reprimere inveterate, ma non sempre legittime, libertà godute dalle monache. Il 28 settembre del 1588 il visitatore del monastero di Cremella dovette ancora imporre, oltre l'allargamento della chiesa e diverse riparazioni, che le monache non usassero letti di piume; che si estirpassero le piante del giardino vicino al muro; che si accomodassero le finestre del dormitorio alla forma prescritta dai cànoni; che si levassero le serrature alle cassette particolari delle monache, ecc. Si stavano allora compiendo dei lavori di allargamento del fabbricato del convento e il visitatore proibì che si facessero celle verso la strada. Ordini consimili trovo ripetuti ancora dal visitatore monsignor Paolo Salodio nel 1589, il quale raccomandò alle monache che più che ai propri comodi, pensassero al culto del Signore.
Dopo la morte di San Carlo la riforma dei monasteri continuò, ma senza quell'energia che vi aveva spiegata il santo. Intanto nuovi abusi si infiltravano nei conventi. Federico Borromeo nel 1607 dovette proibire di alloggiare secolari nei monasteri di monache, di dar loro da mangiare, ecc. Il cardinale Alfonso Litta, avendo notato « il pernicioso abuso introdotto alli monasteri di monache di cantare o far cantare e suonare nei parlatori ed alle porte de medesimi monasteri », intimò il 30 ottobre 1675 che si togliesse tale abuso, pena la scomunica da incorrersi « ipso facto» dai cantanti, dai suonatori e dalle superiori dei monasteri. Nel 1688 Federico Visconti proibì alle monache che in tempo di carnevale facessero mascherate e sedessero alla porta chiacchierando con donne e uomini. Simili ordini trovo replicati dagli arcivescovi Federico Caccia nel 1694, dall'Archinti nel 1707, dall'Odescalchi nel 1712 e nel 1723, e così via fino al 1757. L'Odescalchi, il quale lamentava che le
« false e rilasciate dottrine di certi uni che non ànno orrore accostarsi alle claustrali, e loro dipingere per tolerabile leggerezza gli eccessi ancor che gravi e pericolosi all'onestà e monastica disciplina », impose che in ogni tempo, e massime in carnevale, alla sera avanti il segno dell'Ave Maria si chiudessero le porte dei monasteri.
Tali, e simili altri abusi, si spiegano coll'ambiente sociale spagnolesco di quei tempi. Le monache velate erano per lo più figlie di nobili o ricche famiglie, spesse volte povere vittime senza vocazione, sacrificate alla religione per interessi di famiglia. Celebre è rimasta fra queste disgraziate la Monaca di Monza, al secolo principessa Virginia de Leyva. Ancora bambine si introducevano nei monasteri per poi monacarle. Nel monastero di Bernaga nel 1641, fra le novizie, c'era una « Donna Eletta Sola d'anni sette ». Un abuso, contro le regole, si era appunto che talvolta si ricevevano in educazione fanciulle al disotto dei sette anni, per cui trovo proibizioni arcivescovili nel 1673, nel 1736 e nel 1745.
Papa Innocenzo XI, pontefice di severi costumi, e che tanto fece per far rivivere con sapienti leggi la disciplina nel clero secolare e regolare, diede ai monasteri di monache la facoltà di attendere agli esercizi spirituali ogni anno; esercizi che l'arcivescovo Federico Il Visconti nel 1684 volle si tenessero in aprile o in settembre. Il cardinal Odescalchi nel 1719 decise di rendere stabile nei monasteri della diocesi questa pia pratica degli esercizi in comune con confessori straordinari. L'obbligo alle badesse di chiamare confessori straordinari è richiamato con lettere pastorali degli arcivescovi Stampa e Pozzobonelli nel 1738 e nel 1745.
La chiesa del monastero di Cremella ebbe notevoli lavori di restauro e di abbellimento nella prima metà del secolo XVII. Nel 1605 un Domenico Selva, «pichapreli », lavorò mensole, cornici, pilastri, ecc. per la porta e per altre parti della chiesa; nel 1609 si rifece la volta della chiesa, dopo aver ottenuto a questo scopo dal cardinal Federico Borromeo la dispensa di due doti; nel 1610 si posero le invetriate, ecc.; nel 1610 si rifecero il tabernacolo e l'ancona, e si pose un organo di otto piedi corista e di fattura perfetta, opera dell'organario milanese Giovanni Ambrogio Mauri. La facciata dell'organo, divisa in cinque campi, contava trentatre canne. Nel 1617 si restaurò la facciata della chiesa, e dal pittore Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano, le monache si fecero dipingere un San Pietro, quadro che posero sull'altar maggiore. Di tutto marmo fu poi rifatto nel 1712 anche l'altar maggiore. (95)
Tuttavia la situazione economica del monastero, che nel 1641 (96) contava quarantadue monache velate oltre le converse, si bilanciava a stento fra l'entrata e l'uscita. Anzi più volte, quando le annate correvano sfavorevoli per la scarsità dei raccolti sui quali si basava in gran parte l'entrata del monastero, (97) le monache dovettero ricorrere a prestiti. E questo nonostante che il monastero godesse delle esenzioni di dogana per l'olio in ragione di tredici libbre per bocca, e del dazio per le bestie sì vive che morte ad uso del monastero, ed esenzioni di carichi sul perticato. (98)
L'arcivescovo Archinti nel 1708, avendo osservato nei monasteri disordini di cattiva amministrazione per colpa delle superiori, impose che ad ogni elezione di badessa si presentasse la resa dei conti debitamente controllati. Volle ancora, per l'aumento del costo dei viveri, causato dai tempi che correvano calamitosi, che le educande pagassero per la retta cinquanta scudi all'anno nei monasteri di città e quarantacinque nei foresi, da sborsarsi anticipatamente di semestre in semestre.

*

Nell'ultimo quarto del secolo XVIII scoppiò con Giuseppe Il il nembo devastatore. Le monache di Cremella già ne avvertivano i segni precursori, poiché in un registro di celebrazione di legati trovo una postilla marginale del 1782, nella quale si supplica il Signore a voler provvedere ai loro bisogni sì spirituali che corporali. Giuseppe Il infatti il 5 dicembre 1783 emanò una legge per la quale si decretava che i monasteri di religiose dovessero cooperare al pubblico bene « nell'educare le figlie di nobili e civile condizione, ovvero tenere scuole gratuite per le fanciulle della classe del popolo, o finalmente nell'insegnare a queste ultime alcuni speciali lavori donneschi, conducenti al progresso dell'industria nazionale relativamente alle manifatture ». Quei monasteri, nei quali la pluralità delle monache velate o coriste si rifiutasse, dovevano essere soppressi. (99) In base a questa legge, e successiva dichiarazione di Sua Maestà, come da lettera di Sua Altezza il principe Kaunitz del 1°dicembre 1785, fu spedito alle singole monache di Cremella il 24 gennaio 1786 copia del decreto, affinché separatamente, ciascuna di propria mano esponesse m calce, nel termine di un mese, il suo libero sentire.
Nel monastero si spiegarono subito due partiti; l'uno per la conservazione del convento accettando gli ordini sovrani, l'altro per la soppressione aspirando alla libertà del secolo. La maggioranza (sedici monache) si dichiarò per la volontà sovrana, solo undici si rifiutarono, lamentando la salute inferma, la mancanza di commodi necessari, le discordie nel monastero, ecc. Ragioni, o forse meglio pretesti, rivelanti uno spirito tutt'altro che di religiose. Donna Maria Francesca Annoni, ad esempio, scrisse: « Il monastero è molto angusto, onde non c'è comodo né per scuola né per educazione. Quivi c'è un cattivo regolamento, e parziale di modo che alchune ànno il superfluo sì nel vitto che nella servitù, altre poi li manca il necessario anche nel vitto. Una discordia continova, di modo tale che anche di recente si sono vantate alchune mie correligiose di comando di mettermi in cattiva vista presso il Governo senza veruna causa, solo per essere molto maldicenti sotto colore di zelo. Sono di più incomodata da più mali cronici; alcuno mi è venuto per esser stata obligata da chi presiedeva ad affaticare oltre le mie forze per la Religione. Il Medico e il Confessore dice a molte di acetare la scola e poi non far nulla, per essere molto inferme, ma io non volio inganar nisuno e molto meno il mio sovrano cui venero e stimo e sempre raccomando nelle mie orazioni per la di lui conservazione e felicità. Donna Giacinta Bressi è vicina alli 80 anni, disperata dal medico, munita degli ultimi sacramenti, e chi governa li ha fatto accettar scola. Così hanno fatto con Donna Giuseppina Wolert, dichiarata pazza già da molti anni, ecc.: insomma tanti sono li disordini di questa casa che troppo sarei prolissa nel volerli tutti accennare ».
Donna Annunciata Raimondi, tanto per citarne un'altra, scriveva che in vent'anni non s'erano professate che due monache, e che tutte e due ora erano inferme, mentre tutte le altre monache poi avevano già passati i sessant'anni, e quasi tutte, dal più al meno, con mali cronici; che nel convento regnavano continue dissensioni, e che il prete agente la faceva da padrone, arricchendosi a danno del monastero. Riguardo all'accettare la scuola osservava che « nella terra di Cremella e luoghi vicini sono tutti villani che hanno bisogno d'imparare a coltivare i terreni che sono molti alla malora, e questo sarebbe di utile al publico ».
Tra le monache che francamente si dichiararono per un partito o per l'altro non mancarono le dubbiose. Donna Anna Beretta pensò sul subito di accettare la scuola «per il timore di far peccato mortale », ma poi saputo che non commetteva peccato vi si rifiutò perché ammalata. E donna Rosa Beretta scrisse: « sono forzata per le minacie di far peccato mortale fatteci più volte in questi 30 giorni dall'arcivescovo, da Mons. Olivazzi nostro vicario, dal prevosto di Misalia e dal confessore, sono forzata dico ad accettar un poco di scola, ma non farla perché non sono in caso pe' miei mali. Se poi non faccio peccato io non aceto nulla, ed i soprascritti sono i miei sinceri sentimenti ».
Con la maggioranza delle sedici monache consenzienti il monastero sembrava assicurato. Ma le caporioni delle ribelli non stettero quiete, e tanto fecero che ridussero al loro partito altre quattro già della maggioranza. Quindi, d'intesa col parroco Cuzzi di Besana, subeconomo dei benefici vacanti, inoltrarono una supplica al governo, esponendo le loro ragioni per la soppressione, e notificando che parecchie avevano accettato gli ordini sovrani solo per insinuazioni. Invocarono perciò un sopraluogo di persone imparziali, escluso il prevosto di Missaglia protettore delle monache e il parroco di Sirtori confessore delle medesime. Il governo scelse il Cuzzi per tale ispezione, e questi naturalmente fu parziale per le riottose. Il 25 di settembre si portò al monastero, ascoltò separatamente le monache e ne raccolse le singole deposizioni firmate che presentò alla commissione governativa per la sessione del 4 ottobre. Vi unì una sua particolare relazione nella quale notificò essere le monache quasi tutte vecchie e inferme, che vi si digiunava quattro giorni la settimana per sei mesi continui dal 14 settembre fino al sabbato santo, e che scarso e pessimo era il nutrimento che si dava alle monache sia a pranzo che a cena. La badessa Colli inoltrò una contro relazione onde non fossero ascoltate le tumultuanti, « desiderose di sottrarsi alla professata disciplina », dal momento che le entrate del monastero erano sufficienti per l'annuo sostentamento di trenta monache, e che la pluralità erasi liberamente determinata per l'accettazione degli ordini sovrani. La sessione governativa del 4 ottobre, pur propendendo unanime per la relazione Cuzzi, cioè per la soppressione, per allora non fece nulla, accontentandosi solamente di rimuovere il sacerdote Alberici agente delle monache, accusato di cattiva amministrazione dal Cuzzi, (100) e di incaricare monsignor Olivazzi, perché procurasse di levare le dissensioni nel monastero.
La badessa, dal complesso delle cose, capiva che si andava verso la soppressione. Perciò il 22 novembre spedì un memoriale, con la firma di quindici monache consenzienti, al consiglio di Governo notificando « la pessima condotta » di alcune monache, le quali avevano sedotte altre consorelle, che già avevano aderito accettando la scuola, e invocando provvedimenti contro le sediziose. Nota il memoriale che la caporiona delle ribelli era la monaca Gerolama Terraneo, la quale, «dopo aver protestato di non voler stare in questo monastero, stato per altro sempre quietissimo prima della di lei venuta in esso: (101) dopo aver contradetto agli ordini del Superiore ecclesiastico riguardo al rimettere le ferrate alle finestre; dopo aver, come si crede, tenute le due madri Bonacine, con le quali è strettamente collegata, nell'ostinazione di non restituire gli argenti al monastero che esse si tengono occultati nonostante i comandi del Superiore; dopo aver date le più forti molestie alla badessa perché avesse a distribuire alle monache il denaro ricavato dalle vendite di roba superflua che si teneva in deposito, come ancora si tiene a beneficio del Monastero per comando del Prevosto di Missaglia Protettore Ecclesiastico del Luogo, particolarmente delegato anche con intelligenza di Mons. Economo, per riparare a disordini inconsideratamente seguiti; dopo, dissi, questi trascorsi ha procurato le sottoscrizioni e delle sedicenti compagne e delle altre sedotte alle rappresentanze contro il Monastero ». La badessa soggiungeva che alcune, pentite del passo fatto nel lasciarsi sedurre, ora si ricredevano, per cui rimaneva la pluralità delle monache consenzienti. Rinnovava perciò la supplica per la conservazione del monastero e di provvedere contro la seduttrice, pregando il consiglio di Governo di far verificare la cosa con sopraluogo da qualsiasi persona ad eccezione del subeconomo Cuzzi per la confidenza e corrispondenza del medesimo finora tenuta con le ribelli, ad alcune delle quali aveva scritto che avrebbero ottenuto il loro intento.
Le ribelli ostinate presentarono cinque giorni dopo un contromemoriale, nel quale si denunciavano i discorsi tenuti la settimana prima dal prevosto di Missaglia, il quale aveva inveito contro chi aveva querelato il sacerdote Alberici, e contro quelle monache che avevano ricorso al governo invece che alla Curia, e avevano invocata la soppressione. Soggiungevano che il prevosto di Missaglia si era fermato nel monastero quattro giorni, e così ottenne che parecchie ritrattarono quanto avevano firmato col delegato, sotto pretesto di essere state violentate, e che dopo la partenza del prevosto le sottoscritte erano ancor più odiate e perseguitate dal gran partito del prete.

*

Le ribelli, com'era del resto da aspettarsi, dato l'indirizzo della politica ecclesiastica di Giuseppe II, ebbero vittoria. Il 5 dicembre il consiglio di Governo decise l'immediata soppressione, avendolo determinato a tal passo definitivo un dispaccio del principe Kaunitz. Due giorni dopo al Cuzzi e al notaio camerale Silvòla fu mandato l'ordine di prendere possesso del monastero in nome del governo, «ingiungendosi loro di procedere nell'adempimento del superiore comando colla maggiore prudenza per non cagionare alle Monache maggior amarezza di quella che importa la loro soppressione e per assicurare colle opportune cautele l'interesse del Vacante ».
In forza di tale rescritto il Cuzzi si portò al monastero di Cremella il 12 dicembre insieme al notaio Silvòla e a due secondi notai, Gaspare Beretta q. Diego di Besana e Onorato Riboldi di Milano. Alla presenza di tre testimoni chiamò la badessa, e le domandò la debita licenza di potervi entrare, come infatti fu concesso. Nell'aula del lavorerio si convocò il capitolo delle monache, e vi intervennero ventiquattro monache velate e nove converse, mancando, perché inferme, due velate e due converse. In pieno capitolo, il Cuzzi, circondato dai notai e dai testimoni, in nome della legge dichiarò soppresso il monastero, cessando da quell'istante la sua legale esistenza. Così nel 1786, dopo tanti secoli di vita e di vicende, finiva, certo non gloriosamente, il monastero di San Pietro in Cremella.
Il Cuzzi, in base alle istruzioni governative, impose alle monache e alle converse di scegliere, nel termine di un mese, tra i seguenti partiti: 1° di ricoverarsi presso le proprie famiglie o di vivere da sole secondo le regole del buon costume; 2° di rientrare in qualche altro monastero dal governo dichiarato sussistente, e coll'espressa condizione di abbracciare la disciplina monastica del medesimo, ed esclusa la facoltà d'essere ricevute come semplici pensionarie; 3° di trasferirsi fuori dello Stato; 4° di entrare in quelle case, che dal governo erano state destinate per ricevere le monache dei soppressi monasteri, regolate secondo le prescrizioni di Sua Maestà. Alle coriste che eleggessero il primo e il quarto partito si doveva corrispondere l'annua pensione di lire cinquecento di Milano, e alle converse lire trecentocinquanta; di più, a titolo di sussidio per le spese del nuovo vestiario, si doveva corrispondere loro una volta tanto l'importo del quadrimestre delle rispettive annualità. Quelle che sceglievano il secondo partito se coriste dovevano annualmente ricevere lire quattrocento, se converse lire duecentocinquanta, più sessanta fiorini una volta tanto per il vestiario. La rispettiva vitalizia pensione doveva incominciare dal giorno che le ex-religiose sortivano dal monastero, e venire pagate di trimestre in trimestre mediante la presentazione della fede di sopravvivenza e della permanente dimora nello Stato. Quelle invece che avessero deciso di trasferirsi all'estero in altri monasteri dovevano ricevere una volta tanto un sussidio ad arbitrio del governo.
Delle monache di Cremella solamente tre, e una conversa, domandarono di poter essere accolte nel monastero di Lambrugo; tutte le altre preferirono ritornare al secolo.
Dagli inventari che vennero fatti dei beni mobili ed immobili del monastero, si ha che il convento possedeva tremilaquarantasei pertiche di fondi, delle quali milleduecentoquaranta in comune di Cremella, con un reddito netto di circa sedicimila lire.
I fondi, mediante incanto, passarono nel 1788 in proprietà dei marchesi Visconti-Modrone, dei Sangalli, del capitano don Giovanni Stefano Beretta, del conte Alessandro Sormani, di Francesco Beretta e fratelli di San Feriolo, ecc. Il caseggiato del monastero con gran parte dei fondi in comune di Cremella furono comperati dal nobile Stanislao Vassalli.
Le suppellettili della chiesa di San Pietro furono dal governo distribuite un po' dapertutto. L'altar maggiore di marmo fu rilasciato alla parrocchia di Cassago, le tre campane alla parrocchia di Veniano, l'organo a quella di Molteno. I cremellesi, avendo domandato degli arredi sacri necessari alla loro chiesa di San Sisino, cioè l'orologio, i legati, un pallio spolinato per le solennità, la croce d'ebano con incluse le reJiquie, il quadro di San Sebastiano, la pisside d'argento, pianete, camici, ecc., furono dal governo esauditi. (102)
I Vassalli, anni dopo, vendettero i loro possessi ai Kramer, ebrei industriali di Milano, i quali trasformarono parte dell'antico monastero in amena villeggiatura e parte in opificio di cotonerie. A Teresa Kramer Berra, col figlio Edoardo, devono gli abitanti di Cremella l'erezione dell'Asilo Infantile. (103) Questa donna, che tra le italiane fu delle prime a cospirare per la libertà, era un'ardente e tenace mazziniana. Negli Atti Segreti del regno Lombardo-Veneto, che si riferiscono alla Giovane Italia, è più volte citata come « temibile oggetto ». Teresa Kramer Berra, dalla madre, amica dei cospiratori del '21, aveva ereditata la fiamma patriottica. Ella aveva radunato i primi cospiratori della Giovane Italia a Milano, come la madre aveva accolto i carbonari. Sembra che Vincenzo Monti tremasse un dì al « vivo lampo » degli occhi di Teresa giovinetta. (104) Ai Kramer subentrò la famiglia Sessa.
E per conchiudere, crediamo non inutile ricordare che non solo uomini e cose vanno giudicati in ragione dei loro tempi e non con le idee dei nostri, ma che forse dobbiamo usare indulgenza verso i tempi passati, sperché il mondo cammina e forse, nell'opinione dei posteri, ne avranno certamente bisogno anche i nostri.

Documenti

I.

ASM, Fondo di Religione, perg. del Capitolo di Monza.

Cremella luglio 1144.

(Signum Tabellionatus). Anno ah incarnatione Domini nostri Jesu Jesu (sic) Christi milleximo centeximo quadrageximo quarto mense iulii indictione septima. Placuit atque convenit inter Andream.(105) de loco Cremella filium quondam Giselberti de loco Casate et Ottonem filium ipsius Andree eidem Ottoni consentiente ipso Andrea ac subter confirmante. Nec non et inter donnum Johannem presbiterum de eodem loco Cremella et donnum Arnaldum presbiterum per ipsum Johannem missum suum, ut in Dei nomine debeant dare sicuti a presenti dederunt ipsi Andrea et Otto eisdem presbiteris ad habendum et tenendum seu censum censum (sic) reddendum libellario nomine usque ad annos viginti et novem expletos et ab illo termino in ante usque in perpetuum; hoc est nominative sedimen unum cum edificiis ipsius sediminis et cum curte insimul se tenente, reiacente in suprascripto loco de loco (106) Biolzageto coheret ei a mane via, a meridie Ardezionis de Rancade, a sero Damiani, a monte Communantia et est iuris sancti Georgii, et pertinet eis per libellariam ex parte Ambroxii de Tabiago omnia et in omnibus quantum inventum fuerit infra ipsas coherentias in integrum maneat in hoc libello. Ea ratione uti a modo in ante usque in suprascripto termino habere et detinere debeant ipsi presbiteri Arnaldus et Johannes et sui heredes seu cui ipsi dederint suprascriptum sedimen et curtem et facere exinde tam superiore quam inferiore libellario nomine quicquid eis fuerit utile, ita ut aput eis non peioretur, et persolvere exinde debeant ipsi sacerdotes vel sui heredes eisdem Andree et Ottoni vel suis heredibus censum singulis annis usque in suprascripto constituto per omnem festivitatem sancti Martini argenti denarios bonos..(107) et candelam unam nisi remanserit per conventum, et insuper promiserunt ipsi Andrea et Otto eisdem presbiteris Arnaldo et Jhoanni et quibus dederint suprascriptum sedimen qualiter superius legitur in integrum defendere et guarentare ab omni homine contradicente cum usu et ratione. Ibi finem fecerunt ipsi Andrea et Otto eisdem presbiteris de suprascripto denario de ficto et de iam dicta candela que legitur in suprascripto libello. Alia superimposita inter eos exinde non fiat penam vero inter se posuerunt, ut quis ex ipsi aut eorum heredibus se de hac convenientia libelli removere presumpserit et non permanserit in his omnibus ut superius legitur, licet componat illa pars que hoc non conservaverit parti fidem servanti pene nomine argenti denarios bonos solidos treginta et duos Mediolani, et insuper post penam compoxitam exinde taciti et contenti esse et permanere dehent. Quia in tali tenore et ad hanc adfirmandam cartam libelli acceperunt ipsi Andrea et Otto ab eisdem presbiteris Arnaldo et Johanne pro precio de suprascripto sedimine et curte argenti denarios bonos solidos sedecim Mediolani nove monete. Quia sic inter eos convenit. Actum in suprascripto loco Cremella.
Signum ++ manuum suprascriptorum Andree et Ottonis qui hanc cartam libelli ut supra fieri rogaverunt et ipse Andrea eidem Ottoni filio consensit ut supra.
Signum ++ manuum Johannis Buso de Cremella et Redulfi et Nichole de Biolzageto et Cononis de Fossato et Girardi de Panginure testium.
(Signum Tabellionatus). Ego Johannes iudex et missus domini Lotharii regis hoc libellum scripsi et post traditum complevi et dedi.


II.
ASM, loc. cit.

Cremella 6 luglio 1199.

(Signum Tabellionatus). In nomine Domini. Anno Dominice incarnationis millesimo centesimo nonagesimo nono, die martis sexto die mensis iulii, indictione secunda. In presentia infradictorum testium capitulum monasterii de Cremella investivit et fecit suos missos et procuratores Guilielmum ..., Guifredum qui omnes dicuntur de la Turre de civitate Mediolani in causa que modo vertitur inter ipsum monasterium de Cremella ex una parte, et ex altera parte capitulum Modoeciensis ecclesie nomine ipsius ecclesie super electione seu confirmatione domine Febronie ipsius monasterii electe, et super omnibus aliis que ipsum monasterium voluerit proponere seu intendere contra capitulum Modoeciense. Videlicet in agendo et excipiendo seu respundendo atque defendendo, promittendo idem capitulum se per omnia firmum et ratum habiturum quicquid ipsi procuratores sui fecerint aut exercuerint in ipsa causa sive in omnibus aliis controversiis quas cum capitulo prefate Modoeciensis ecclesie habuerint, et tali tenore et ordine ut uno aut.. eorum procuratorum absentibus quod alius illorum..non sint....procedere...autem monacharum antedicti monasterii que hoc firmaverunt et fecerunt sunt hec; domina Febronia memorati monasterii et ecclesie...ria, domina Eugenia, domina Columba, domina Tarsilla, domina Fellicita, domina Scolastica, domina Lucia, domina Mu..., domina Pabna, Ct Martexana, et Quarexima, atque Otta converse et..conversus (?) eiusdem monasterii. Quia sic inter eos convenit. Actum in loco Cremella in ipso monasterio. Interfuerunt Rogerius de la Turre, item Rogerius de Buxoro, et Ardericus de Cremella atque Josep de Nava testes rogati.
..Ego Gulielmus C..... sacri palatii notarius..... scripsi...omnia mandato et parabola predictarum omnium monacharum et vice omnium ipsarum subscripsi.
(Signum Tabellionatus). Ego Salvus Alberici Zaburri filius, sacri palatii notarius auctenticum huius exempli vidi et legi in quo sic continebatur ut hic et propterea cum mandato et parabola domini Gandulfi abbatis sancti Systi sub cuius examine hec causa commissa est exemplavi. (108)


III.

ASM, loc. cit.
Cremella 11 gennaio 1200

(Signum Tabellionatus). Anno dominice incarnationis milleximo ducenteximo, die martis undecimo die ienuarii, indictione tercia. Confitetur capitulum de Cremella quod credit curtem de Cremella fuisse illius qui fondavit monasterium de Cremella, et in ipsa curte constituit monialibus res suas. Archispresbiter dicit quod non constituit res suas illi monesterio seu monialibus. Item confitetur idem capitulum quod monumentum quod est inter claustrum dicti monesterii in quo iacet quondam presbiter Johannes est suprascripti monasterii, et quod post eum Johannem presbiterum nulla monialium ibi sepulta fuit, set ante plures moniales ibi sepulte fuerunt et munumentum est iusta huius ostium ecclesie, set dominus archipresbiter negat quod alique moniales ibi sepulte fuerint. Item confitetur idem capitulum quod post presbiterum Johannem fuit in suprascripto monumento sepultus quondam presbiter Arialdus set gratia, quam gratiam archipresbiter negat. Item domina Febronia, que dicitur electa cum dictis monialibus, exceptis duabus scilicet domina Cecilia et domina Tarsilla, confitetur quod per suos sacerdotes qui fuerunt in Cremella ante presbiterum Johannem oficiatum fuit in suprascriptum monesterium, et suprascripte due dicunt per ipsos et per alios, archipresbiter negat per alios. Item confitetur capitulum quod illis temporibus quibus fuerunt sacerdotes in Cremella, consueverunt moniales suprascripti monesterii recipere et audire divina officia sive sacramenta ab illis sacerdotibus qui pro tempore fuerunt in Cremella, si ibidem fuerant et non ab aliis. Item dicit se credere quod quando deficit sacerdos in Cremella, recipiunt sacerdotes a Modoetie ecclesia. Item credit quod ecclesia beati Petri est vicinalis sive parrochialis, et non alia in suprascripto loco, et oblationes que ibi fiunt in natalle Domini et resurrectione sunt sacerdotis ipsius loci; que vero fiunt in festo sancti Petri sunt monialium; set quatuor ex illis dicunt de offerta suprascripti festi sacerdotem habuisse. Dominus archipresbiter dicit quod sacerdotis sunt omnes oblaciones, nisi aliquid de eis monialibus donaverit; et omnes moniales dicunt quod oblaciones suprascripti festi non sunt suprascripti sacerdotis, nisi Colomba sola. Item interrogata videlicet domina Febronia electa si quondam Scolastica abbatissa fuit investita de..per dominum archipresbiterum Modoeciensem per claves, per librum, per funes campanarum, et si ducta fuit in sedem, respondit: dubito hoc p.. Domina Colomba respondit quod credit quod investita fuit per dominum archipresbiterum Modoeciensem de abacia per olavem (sic) camminate de c..Item dicit eadem Colomba quod audivit a domina Cecilia que aduc vivit et que tunc erat canevaria quod non fuit investita...dicta Cecilia abbatissa, et ab ea claves habere non potuit. Quedam vero alie moniales de hoc non fuerunt interrogate quia super hoc testificaverunt. Ponit dominus archipresbiter quod reffecio ecclesie beati Petri de Cremella in parietibus et tecto et campanile spectat ad ecclesiam Modoeciensem, et per eam fieri consuevit. Credit domina Febronia que dicitur electa quod aliqui de castelantia Cremelle consueverunt cooperire ambas alas suprascripte ecclesie, corpus vero ecclesie cooperiunt vicini de Cremella, set si hoc faciant per ecclesiam Modoeciensem dubitat. Hoc idem dicit domina Lucia. Domina Colomba dicit quod vidit reffectionem ecclesie fieri per Modoeciensem ecclesiam, et quod ad eam spectat reffectio tocius ecclesie sancti Petri. Alie vero quia testificaverunt non fuerunt interrogate. Credit capitulum quod homines de Cremella et eius curte distringunt se per ecclesiam Modoeciensem, et quod ipsa ecclesia ordinat ibi deganos qui faciunt fidelitatem ipsi ecclesie, et quod dat pensas pistoribus, et mensuras tabernariis, et quod ponit banna in predicto loco et curte, et quod homines ipsius loci et curte solvunt banna ipsi ecclesie de offensionibus et maleficiis, et quod bannum castri ad eam ecclesiam spectat, et quod ipsa ecclesia habet portenarium suum in ipso castro, et quod domus que sunt in eodem castro solvunt ficta eidem Modoeciensi ecclesie. Item credit capitulum quod investitura illarum terrarum que fuerunt fondatoris sancti Petri ad quem curtis de Cremella pertinuit spectat ad ecclesiam Modoeciensem. Item ponit dominus archipresbiter quod in monasterio sancti Petri olim fuerunt tantum tres abbatisse, et hoc ab LXXX annis citra fuit prima abbatissa domina Zacharia. Respondit capitulum quod ante predictam Zachariam fuit alia abbatissa que fuit soror fondatoris suprascripti monasterii. Item credit capitulum quod ea que ecclesia Modoeciensis.....dantur eis pro ficto et non pro alimentis; set dominus archipresbiter posuerat quod dantur pro alimentis. Item confitetur capitulum quod...qui fuit de Modoecia post predictum presbiterum Johannem ibidem sepultus iacet cum suprascripto Johanne. Die vero mercurii sequente ponit dominus archipresbiter quod post Zachariam abbatissam fuit Cecilia abbatissa, post Ceciliam fuit Scolastica abbatissa. Respondit capitulum quod post Zachariam fuit Tarsilla abbatissa, post Tarsillam fuit Cecilia in discordia, post Ceciliam fuit domina Scolastica. Interrogatus dominus archipresbiter si domina Tarsilla fuerit ellecta pro monialibus, respondit non; et post modicum dixit quod electa fuit in discordia. Ponit dominus archipresbiter quod archipresbiter Modoeciensis qui tunc erat removit predictam Tarsillam, et eam de monasterio espulit, quod capitulum negat. Item ponit archipresbiter quod vivente domina Tarsilla et.. extra monasterium, obiit suprascripta domina Cecilia, et quod iacet in monumento cum aliis abbatissis Respondit capitulum se credere, set ea Cecilia stante in discordia, quod archipresbiter negat. Item ponit dominus archipresbiter quod mortua predicta Cecilia et vivente prefata Tarsilla, Scolastica fuit abbatissa, et in abacia obiit; quod capitulum confitetur. Item ponit archipresbiter quod predicte Tarsille extra monasterium habitanti dabantur victualia a Modoeciensi ecclesia. Credit capitulum quod a monasterio de Cremella victualia recipiebat, et non a Modoeciensi ecclesia. Item ponit archipresbiter quod in vendictione facta ab abbatissa de Cremella, archipresbiter Modoeciensis interposuit suam auctoritatem; quod capitulum negat. Item ponit dominus archipresbiter quod fondator monasterii de Cremella, et cuius fuit curtis de Cremella dedit seu contulit Modoeciensi ecclesie ipsam ecclesiam beati Petri et monasterium et totam curtem cum omni honore et districto, cum servis et ancillis, et cum omnibus aliis ecclesiis que sunt in ipsa curte; capitulum dicit non dedisse Modoeciensi ecclesie, set monasterio sancti Petri de Cremella. Dicit capitulum quod fictum quod dat eis Modoeciensis ecclesia, ut capitulum dicit, dat pro illis rebus que fuerunt quondam Pascalis fondatoris monasterii, et que sunt in curte de Cremella. Item ponit archipresbiter quod de illis rebus quas antiquitus ecclesia Modoeciensis dare consuevit monialibus de Cremella fuerunt diminuti tres modii inter frumentum et fabas pro terra que dicitur campus sancti Petri et illa de Tasinaria. Respondit capitulum verum esse, set sunt illi tres modii inter panicum et frumentum tantum. Item ponit archipresbiter quod domina Cecilia quondam abbatissa fuit ducta in abacia in monasterio sancti Petri de Cremella per archipresbiterum Modoeciensem vel eius nontium. Respondit capitulum quod dubitat, excepta Colomba que hoc confitetur, et aliis quibusdam exceptis que non fuerunt interrogate quia testificaverunt. Confitetur dominus archipresbiter quod dare consuevit singulis annis monialibus de Cremella modios XXXX siliginis, et de VIII dubitat; et modios IIII frumenti, et IIII sestaris dubitat; et modios V fabarum, et de uno modio dubitat; et decem et octo sestaris salis; confitetur. Confitetur eciam XXXIII cara musti tempore vindimiarum minus congium unum, de duobus dubitat. Et confitetur de XII porcis, pro unoquoque porco librarum LXX, de libra et dimidia dubitat. Pullos eciam XXIIII et CXX ova confitetur. De LXXXX libris casei dubitat; et confitetur XVI modios panici, de IIII sestariis dubitat. Et hec omnia confitetur se dare consuevisse singulis annis ad mensuram Mediolani que curit in loco Cremelle, et pro alimentis. Item die iovis sequente ponit dominus archipresbiter quod predicta domina Cecilia vixit in abacia in monasterio de Cremella per X annos et plus. Respondit capitulum quod per novem..... discordia. Item ponit archipresbiter quod iam dicta Scolastica vixit in abacia per XLIIII annos et plus et minus XLV. Respodit capitulum quod credit eam vixisse per XLV et plus et minus XLVI. Item ponit dominus archipresbiter quod dominus Mediolanensis archiepiscopus habuit predictam Ceciliam pro abbatissa; quod capitulum negat. Item ponit archipresbiter quod quondam dominus Ubertus..... Mediolanensis archiepiscopus quod confirmavit vendicionem rerum ipsius monasterii factam a predicta Cecilia. Respondit..... quod non credunt; alie vero dubitant. Item ponit archipresbiter quod predicta Cecilia fuit monach..sancte Margarite Mediolani ante quam fuisset abbatissa de Cremella; quod capitulum confitetur. Item ponit quod predicta Cecilia fuit ducta pro abbatissa a predicto monesterio Mediolani ad monesterium de Cremella sine electione... Respondit domina Febronia et domina Cecilia et Colomba quod ducta fuit sine electione monalium contra voluntatem capituli; relique dubitant, silicet quinque que ibi erant. Interrogate ex officio iudicis ad instantiam alterius partis ut di..causa discordie. Responderunt se dubitare. Consequenter interrogate in tali dubitatione ex motu animi iudicis ut.causa magis crederent fuisse discordiam, respondit Columba pro ecclesia Modoeciensi, cetere responderunt se dubitare..que dixit propter suos malos mores; et sepius interrogate nil aliud responderunt. Item ponit archipresbiter quod quondam Scolastica abbatissa vocavit sacerdotes ut facerent annuale Cecilie quondam abbatisse singulis annis. Respondit capitulum..... Item ponit archipresbiter ita scriptum esse in matricula ipsius monasterii: obiit Cecilia abbatissa Cremelle; orate pro ea..... esse; et quod in eadem matricula ita scriptum esset ego infradictus Guidotus vidi et legi. Item..... moniales ipsius monasterii consueverunt facere fieri annualia tantum pro tribus abbatissis ante mortem..... silicet pro Zacharia, pro Cecilia et pro Tarsilla, set dicit capitulum plures fuisse in ipso monesterio..Zachariam; archipresbiter vero dicit quod non credit aliquam....ante predic..Item dicit archipresbiter quod predicta Tarsilia non fuit abbatissa, immo per ea....confessiones ut superius scripte sunt facte fuerunt inter claustrum monasterii seu in...tam domino Gandulfo abate monesterii sancti Systi de Placentia a domino papa delegato...ambe partes dicebant silicet eum dominum abatem fore a domino papa delegatum.
(Sig. + M.). Ego Gandulfus humilis sancti Sisti abbas subscripsi. (Signum Tabellionatus). Ego Guidotus iudex de Cremella notarius sacri palatii hac misus domini Anricis imperatoris suprascriptas confessiones scripsi et in supradicti domini Gandulfi abatis qui mihi precepit presentibus domino Guidoto..... qui dicitur...iudice qui dicitur Bonafides et Uberto de Camelario et Manfredo Dorado et Johanne Me...ut in predictam formam redigerem, predictas confessiones in hanc publicam formam scripsi et redegi. (109)

IV.

ASM, loc. cit., Monastero di San Pietro in Cremella, cart. 5.

Piacenza 6 ottobre 1201.

Millesimo ducentesimo primo, indictione quinta. Die sabbati sexto mensis octuobris, Placentie, in palacio domini episcopi coram domino Fulcone preposito sancte Euphemie, Fredencio clerico domini episcopi, Johanne de Bonamena, Fulcone Radino, Passaguerra de Mediolano, Carnelevario de Vilimercato, Magistro Ugone de Arcellis, Petro de Castroarcuato, Guilielmo Sturnico, Jacobo de Regolio, Zanffo clerico de Tuna, Oberto de Preposito, et multis aliis testibus rogatis. Donnus Gandulffus abbas monasterii sancti Systi concordia et presentia domini Grunerii Placentini episcopi et comitis ita dixit: lis est inter Modoeciense capitulum ex una parte et ex altera parte monasterium de Cremella super electione, confirmacione et institucione abbatisse eiusdem monasterii quam causam summus pontifex nobis decidendam secundum formam commissionis delegavit. Tenor cuius commissionis hic est. Innocentius episcopus servus servorum Dei dilectis filiis electo et abbati sancti Sisti Placentini salutem et apostolicam benedictionem. Causam que vertitur inter monasterium de Cremella ex una parte ac dilectos filios capitulum Modoetje ex altera super electione, confirmacione seu institucione prefati monasterii abbatisse super qua nuper Modociense capitulum ad nostram audienciam appellavit ne moniales ipsius monasteri eligerent abbatissam de utriusque partis assensu vestre duximus experiencie committendam per apostolica scripta vobis precipientes, mandantes quatenus si electionem abbatisse post appellacionem ad nos legittime interpositam inveneritis celebratam ipsam auctoritate nostra denuncietis iritam et inannem. Alioquin si electio ipsa de persona idonea legittime est celebrata, ipsam non differatis, subllato cuiuslibet contradictionis et appellacionis obstaculo approbare. Audituri postmodum si quid inter prefatum monasterium et Modociense capitulum vel venerabilem fratrem nostrum Mediolanensem archiepiscopum, super eadem causa emerserit questionis, et illud appellacione remota fine canonico decisuri, nullis obstantibus litteris, si que apparuerint preter assensum parcium ab apostolica sede impetrate. Dicit enim iamscriptum capitulum de Modoecia antequam electio fieret huius Febronie electe iamscripti monasterii, se ad sedem apostolicam legittimis interpositis appellacionibus appellasse. Primum quidem quia cum abbatissa Scolastica que defuncta est in extremis laboravit, Falavus Modoeciensis canonicus et minister de mandato domini archipresbiteri Modoeciensis et fratrum ad sedem Romanam appellavit presentibus monialibus ipsius monasterii ut nullam facerent electionem abbatisse in ipso monasterio, nec aliquam confirmacionem abbatisse de manu alienius persone reciperit, quia electio et confirmacio ipsius abbatisse et omnis solemnitas ad ecclesiam Modoecie pertinebat. Que quidem appellacio et si ante mortem alterius abbatisse facta fuit, nichilominus rata et legittime facta intelligitur; si quidem ad Romanam ecclesiam, que mater est omnium omnibus oppressis, presens vel futurum gravamen suspicantibus aut iudicem suspectum vel adversarium timentibus iure canonum appellare permittitur, ut in decretis causa prima et cetera. Cum ergo Modoecie canonici timentes futurum gravamen appellarint, talis appellacio legittima fuit, et si quid post illam appellacionem factum invenitur in intum merito debet deduci ut in causa secunda et cetera. Nec obstat quod ex adverso huic appellacioni obicitur quod vivente abbatissa iamdicta fuit interposita appellacio, quia cum in extremis laboraret ut dictum est, futurum gravamen electionis canonici timuerunt maxime iam de ipsius salute ahbatisse non sperabatur, et idcirco futurum gravamen canonici sentientes appellarunt ut res pocius in eodem statu permaneret appellacione interposita quam in rerum preiudicium facta electione deberent litigare. Nam meius est ante tempus occurrere quam post exitum vindicare, et meius est intacta iura servare quam post causam vulneratam remedium querere ut Caput quando et cetera. Quamquam enim ab inicio interposita appellacio effectum non habuent, mortua statim abbatissa suam utilitatem appellacio antea interposita appellantibus prebuit. Nam si acceptoferatur ei pure qui sub condicione debet, ab inicio quidem non valet acceptilacio, set existente condicione suum sortitur effectum ut Digestum de regulis iuris et cetera. Secundo autem quia Guilielmus de Paule et Annicus de Rezolo Modocienses canonici die qua abbatissa Scolastica per confessionem Guifredi de Turre procuratonis monastenii obiit appellarunt, que quidem appellacio legittime interposita pluribus racionibus ostenditur. In primis quia facta fuit coram vicinis ante portas monastenii clausis portis monastenii et ecclesie, et ideo quia ingredi non potuerunt taliter prohibiti sicuti per instrumentum illius appellationis aparet leggitime coram vicinis predictam appellacionem interposuerunt et proinde habenda est ac si in presentia omnium monalium facta fuisset. In omnibus enim causis pro facto accipitur id in quo alius..quominus id fiat ut Digestum de regulis iuris. Et hac alia racione quia si aliquis voluenit alicui denuntiare novum opus et ille cui denuntiandum fuerit molitus est ne sibi denuntietur id ianuas percludendo sicut in isto casu ne denuntiare volens intraret vim facere intelligitur qui hedificabat ac si fuisset denuntiatum in Digestum quod vi aut clam. Dicunt preterea monachas timore appellacionis clausisse portas monasterii et ecclesie ne ipsi introhirent ad appellandum, et eodem timore festinasse electionem et eciam vivente iamscripta abbatissa Scolastica de electione tractasse. Insuper asserunt se esse in quasi possessione electionis abbatisse, quia Modoecie archipresbiter quandam Ceciliam de Borcis (?) ad illud monasterium duxit et eam in sede collocavit monialibus non eligentibus eam, que stetit et fuit abbatissa in ipso monasterio donec vixit. Quibus omnibus argumentis et exemplis et aliis multis racionibus colligitur quod appellacio interposita, legittima fuit et legittime interposita licet in presentia monialium facta non fuenit. Preterea dicunt quia appellaciones eorum leggitime fuerunt interposite, intererat enim eorum appellare tum racione fundationis, tum eciam ratione dotacionis sive ditationis quod ius asserunt se habere ex privilegio Belengarii imperatoris in quo continetur quod ipsi debent duodecim monachabus iamscripti monasterii expensum et victum prebere cotidianum, et ex privilegio Ugonis regis, et ex privilegio Lottarii imperatoris, qui eciam Ugo et Lottarius ipsi Modociensi capitulo concesserunt ut si aliqua decederet monalium, quod liceret alteram substituere, tum eciam ex sententia domini Anselmi Mediolanensis archiepiscopi in qua continetur ut ipse archipresbiter priorissam ibi aut aliquam spiritualem matrem que dictis presit monialibus regulariter caste secundum Dei timorem constituat, ipsa vero ibi constituta nihil precipui sine consensu iamscripti archipresbiteni fatiat; et ex donatione, concessione et confirmatione Ribaldi Mediolanensis archiepiscopi qui donavit concessit et confirmavit potestatem confirmandi abbatissam illi Modoeciensi capitulo. Ex altera vero parte allegatur quia cum monastenium sancti Petri de Cremella collegiatum sit constat de iure canonum electionem abbatisse ad ipsum capitulum pertinere debere ut in decretis causa decima octava et cetera. Idem eciam de iure civili apertissime comprobatur ut in auctenticis de monaci et sanctissimis episcopis. Hoc idem probatur ex presenti et antiqua abbatisse electione facta per monachas quasi possessione. Cuius electionem, confirmacionem et institucionem non ad archipresbiterum Modociensem set ad archiepiscopum Mediolanensem in cuius episcopatus territorio ecclesia illa assurrexit sive reperitur constructa per multa capitula comprobatur, ut in decretis causa sextadecima et cetera. Nec obstat quod dicitur illam electionem factam fuisse post appellacionem, quod minime verum reperitur immo contrarium tam per testes quam per instrumenta ipsius abbatisse apertissime comprobatur. Post mortem enim quondam Scolastice abbatisse ante electionem prefate Febronie nulla reperitur facta appellacio neque appellacionis feciende repulssio. In cuius quondam Scolastice abbatisse vita nulla de iure potuit fieri appellacio, cum ea vivente nulla potuit fieri electio, ut in causa septima et cetera, et in codice titulo quando appellare necesse non est. Non ergo ille due appellaciones una quarum fuit facta de februario et altera ante portas monasterii alicuius fuerunt momenti, nam in vita iamscripte abbatisse Scolastice eas factas fuisse plus quam manifestum est: decessit enim abbatissa illa die mercurii quartodecimo mensis aprilis inter nonam et vesperas, sicut est leggitime per multos testes probatum. Qud (sic) autem appellacio ista fuerit facta ante nonam continetur expressim in instrumento appellacionis illius, que appellaciones cum ab inicio nullius fuerint momenti tractu temporis convalescere non potuerunt secundum regulam iuris que dicit quod ab inicio viciosum est tractu temporis convalescere non potest. Preterea iamscripte appellaciones prefate electe non preiudicare, cum appellator suo nomine non appellaverit, set alieno scilicet archipresbiteri seu capituli a quo non constat eum habere mandatum. Nec ergo tenet appellacio si non secuta fuit rati habitio, ut de appellacione et cetera, que rati habitio non reperitur secuta ante electionem, postea enim sequi non potuit, seu secuta non preiudicaret ut rem ratam haberi lege bonorum possessione. Immo secundum Lateranense concilium archipresbiter si appellasset, eius non teneret appellacio eciam post mortem facta et ante electionem cum non possit quis ordinacionem ecclesiasticam appellando impedire, nec ergo electionem ut in decretalibus et cetera. Item cum ei tantum permittatur appellare cui potest gravamen inferri, ut causa secunda et cetera, et ad instar in integrum restitucionis que non datur ubi quis non leditur, nec ledi potest ut de in integrum restitucionibus. Constat eciam quod archipresbiter appellare non poterat eciam post mortem abbatisse cum per talem electionem non ledebatur nec ledi poterat, cum ipse non erat in quasi possessione electionis, set potius capitulum monasterii. Neque verum esse quod dicitur ex adverso nuncios archipresbiteri prohibitos esse appellare cum vivente abbatissa et eciam post mortem eius ipsis nunciis patuerit ecclesie aditus, et precipue chori ipsius ecclesie, inter quem chorum et claustrum et eciam domum in qua corpus iacebat nullum erat hostium, neque alicuius alterius rei obstaculum sicut multis testibus est probatum. Nec obstat quod ex parte archipresbiteri allegatur electionem, institucionem et confirmacionem monasterii de Cremella ad ecclesiam Modoecie pertinere per datum Belengarii imperatoris, confirmacionem Ugonis regis et Lottarii imperatoris et quorumdam summorum pontificum, dicentes prefatum Belengarium imperatorem nullum ius eligendi seu ordinandi aut instituendi conferre potuisset. Constat enim ante tempora ipsius Belengarii monasterium ipsum fuisse constructum, ut expressum in ipso instrumento ipsius Belengarii invenitur, et per confessionem factam a domino Ardezone qui confessus est monasterium fuisse constructum iam sunt anni quadringenti. Nullam ergo potestatem potuit imperator in ipso monasterio habere ut in causa XVI et cetera, maxime cum non reperiatur ipsum Belengarium monasterium construxisse vel ditasse. A quibusdam fundatonibus et ditatonibus ante illius Belengarii tempora illud erat monasterium constructum et ditatum, quod probatur per privilegium ubi dicitur quod antiquitus fuerat usus habere usumvictuum de curte Cremelle predicta expensa. Et ubi verba ista reperiuntur, omnibus que ad eandem curtem sive curtes et monasterium pertinentibus ex sola gratia ius eligendi tantum si ecclesia non sit collegiata, vel si collegiata sit interesse electione reperitun esse concessum ut causa XVI et cetera. Cum ergo ius aliquod et maxime eligendi sive ordinandi constet ipsum Belengarium non habuisse, liquet ipsum Belengarium nullum ius Modoecie ecclesie concedere potuisse. Nemo enim in alium plus conferre potest quam ipse habet. Nec obstat quod obicitur Ribaldum Mediolanensem archiepiscopum potestatem confirmandi abbatissam Modoeciensi ecclesie concessisse: si enim ipsam confirmacionem per datum Belengarii haberet, eam ab archiepiscopo Mediolanensi impetrare non curasset. Nec obstat sentencia Anselmi cum non sit in prima figura, set pocius corosa in quadam sui parte reperiatur, nec eciam illam fuisse sententiam cum ille Anselmus excomunicatus fuerit, neque paleum consecrationis fuerit consecratus satis est in manifesto. Dicunt eciam quod Pascalius, maioris Mediolanensis ecclesie diaconus illud monasterium in substanciola sua ordinavit statuens ex habundanti ut congregatio illa sibi eligeret abbatissam quam Mediolanensis anchiepiscopus confirmaret sicut conincitur ex instrumento Aliprandi Flavii regis quod non potest dici falsum, licet non sit auctenticum nec apareat cum per quatuor legittime tabelliones probetur illud ex auctentico quod viderunt esse sumptum instrumentum. Visis testibus utrinque productis, et confessionibus utriusque partis, et iamscriptis omnibus allegationibus, et multis aliis quas causa prolixitatis omittimus recitare visis et auditis, et causa satis et diucius ventilata, habito quoque multorum sapientium tam clericorum quam laicorum conscilio propter ea que vidimus et cognovimus, - Dicimus et pronunciamus appellacionem factam ante electionem iamscripte Febronie vim appellacionis habere et legittimam fuisse, et pronuntiamus electionem iamscripte Febronie irritam et inannem et nullius esse momenti, reservantes nobis in posterum decisuris illud quod in eadem commissione continetur quod sic incipit: audituri postmodum si quid inter prefatum monasterium et Modocense capitulum vel venerabilem fratrem nostrum Mediolanensem archiepiscopum emerserit questionis et cetera. Assidente nobis Ottonebello Sancti Antonii canonico.
(Signum Tabellionatus). Ego Guilielmus de Rottefredo notarius interfui et iussu prefati domini episcopi et domini abbatis iamscripti hanc cartulam scripsi.


V.

ASM, loc. cit., perg. del Capitolo di Monza.

Milano 21 giugno 1381.

In nomine Domini. Anno a Nativitate Eiusdem millesimo trecentesimo octuagesimo primo. Indictione quarta, die veneris vigesimo primo mensis iunii. Cum lites, questiones, discordie et controversie varie et diverse essent et verterentur et maiores verti et esse possent ac sperarentur, inter dominum anchipresbiterum seu eius locum tenentem, canonicos et capitulum ecclesie sancti Johannis de Modoetia mediol. dioc. ex parte una, et dominas abbatissam, moniales et conventum monasterii sancti Petri de Cremella mediol. dioc. ordinis sancti Benedicti ex altera, asserentibus dictis dominabus abbatissa, monialibus et conventu se debere recipere omni anno a prefatis dominis archipresbitero, canonicis et capitulo usque imperpetuum libras centum sexaginta tertiolonum videlicet medietatem dictorum denariorum in quolibet festo sancti Laurentii et aliam medietatem in festo sancti Martini cuiuslibet anni et hoc vigore cuiusdam transactionis facte per dominum Albertum de Placentia et Fedrichum de Ozino canonicos ecclesie prefate ac etiam sindicos et procuratores, ut asserunt dicte domine ahbatissa, moniales et conventus, dictorum dominorum archipresbiteri, canonicorum et capituli dicte ecclesie, et occasione aliorum quorumcumque suorum iurium ea occasione quomodolibet sibi competentes, dictis vero dominis archipresbitero seu eius locum tenente, canonicis et capitulo asserentibus se minime teneri ad prestationem predictam librarum centum sexaginta tertiolorum vigore dicte transactionis nec etiam alio quocumque iure dictis dominabus abbatisse, monialibus et conventui pertinenti. Modo coram venerabili viro domino Jacobo de Trivisio, juriscanonici perito, canonico ecclesie sancti Leonardi de Trivisio reverendissimi in Christo patris et domini domini Antonii Dei et apostolice sedis gratia sancte mediolanensis ecclesie archiepiscopi vicario generali, pro tribunali sedente in eius domo habitationis sita in porta horientali Mediol. in parochia sancti Pauli in Compedo, personaliter constitutis domino Bertollino de Scacabarotiis, canonico ecclesie sancti Johannis de Modoetia medioi. dioc. Sindico et procuratore dictorum dominorum archipresbiteri, canonicorum et capituli ad hec specialiter constituto, ex parte una, ut constat publico instrumento ilius sindicatus tradito et rogato per Johannolum de Flore notarium Modoetie anno cur. millesimo trecentesimo octuagesimo indictione quarta die lune duodecimo mensis novembris; et Georgio de Glaxiate, sindico et procuratore dictarum dominarum abbatisse, monialium, et conventus dicti monasterii ad hec spectialiter constituto, ex parte altera, ut constat publico instrumento ilius sindicatus tradito et rogato per Luchinum [de Riboldis] de Bexana notarium anno cur. millesimo trecentesimo octuagesimo indictione quarta die veneris sextodecimo mensis novembris: volentibus parcere laboribus, litibus et expensis que inde possent occurrere et ab eodem domino vicario cum instantia requirentibus licentiam transactionem et pacta infrascripta fatiendi, prefatus dominus vicarius viso et cognito quod ex transactione et pactis huiusmodi omnes seditiones et discordie que inter ipsas partes, ut premittitun, vertebantur et verti possent materia penitus amputatur, quodque per huiusmodi transactionem et pacta, omnibus circumspectis, ipsorum dominorum archipresbiteri, canonicorum et capituli, ipsarumquc dominarum abbatisse, monalium et conventus, et ecclesiarum et capitulorum predictorum, conditio melior efficitur eisdem dominis archipresbitero, canonicis et capitulo ac dominabus abbatisse, monialibus antedictis, transactionem et pacta huiusmodi fatiendi licentiam tribuit et liberam facultatem. Qua licentia ut premittitur sic obtenta prefati domini archipresbiter, canonici et capitulum, habito inter eos tractatu an presens transactio et pacta infrascripta in prefata transactione contenta cedant et cedere debeant in utilitatem dictorum dominorum archipresbiteri, canonicorum et capituli dicte ecclesie, in dictis tractatibus et coloquiis deliberaverunt et providerunt prefata omnia et singula cedere ad eorum utilitatem. Et similiter dicte domine abbatissa et moniales, habitis inter eas tribus tractatibus an predicta transactio et pacta in eis contenta cedant ad earum utilitatem et monasteri suprascripti, deliberaverunt simul in dictis tractatibus, earum nula discrepante, dictam transactionem et pacta ad earum et dicti monasterii cedere utilitatem, precibus amicorum pervenerunt et (perveniunt) ad infrascripta pacta et transactiones, videlicet quod dicti domini archipresbiter, canonici et capitulum debeant dimittere et libere relaxare dictis dominabus abbatisse et monialibus, capitulo et conventui illas terras, possesiones et bona que ipsi domini archipresbiter, canonici et capitulum supradicti habuisse et tenuisse in emphiteotisim vel alio modo a monasterio suprascripto dicuntur vel etiam alio quocumque modo in territorio loci de Cremela predicto, et de ipsis dicte domine abbatissa et moniales, capitulum et conventus fatiant suam utilitatem et voluntatem ad earum arbitrium sine contradictione dictorum dominorum archipresbiteri, canonicorum et capituli. Retinentes tamen in se dicti domini archipresbiter, canonici et capitulum tantum, sine preiudicio predictorum, Castrum et domos dicti castri de Cremela, et etiam honorem et iurisdictionem aliam si quam habere noscuntur circa monasterium, abbatissas et moniales dicti monasterii et etiam vicinorum dicte terre de Cremela, et quod dicte domine abbatissa et moniales que nunc sunt et alie abbatisse et moniales que erunt amodo in antea in dicto monasterio non valeant aliquid petere nec exigere a dictis dominis archipresbitero, canonicis et capitulo occaxione dictarum librarum centum sexaginta, et quod per predictam reservationem factam ut supra nulum preiuditium fiat nec fieri nec generari possit predicte divisioni et relasationi. Promitentes dicti sindici et procuratores dictis nominibus, videlicet una pars alteri ed altera alteri, quod in omni tempore dicte partes attendent et [observabunt] predictam transactionem et omnia et singula in ea transactione contenta et quod eis nulo tempore contraibunt aliqua ratione vel causa de iure nec de facto. Renontiando exceptioni [non] facte dicte transactionis et predictorum ac infradictorum omnium et singulorum non ita actorum et factorum et omni probationi et deffensioni in contrarium. Quibus quidem transactioni et pactis et omnibus et singulis in eis contentis prefatus dominus vicarius ex certa scientia et cum plena cause cognitione suam auctoritatem interposuit pariter et decretum. Actum in domo habitationis prefati domini vicarii sita ut supra. Presente sapiente viro domino Gabardo de Scroxatis filio quondam domini Pauli, Johannolo de Coldirariis filio quondam domini Francischi, Friolo Perdepeto filio quondam domini Bernardi, et Steffanolo Portalupo filio domini Beltramoli, Johannolo de Bonis filio quondam domini Gìrardi, Johannolo Porro filio quondam domini Ramengi, omnibus testibus idoneis ad premissa vocatis spetialiter et rogatis.
(Signum Tabellionatus). Ego Robertus de Coldirariis filius domini Johannoli publicus apostolica et imperiali auctoritate notarius civitatis Mediolani porte Horientalis parochie sancti Salvatoris in Senadochio scribaque archiepiscopalis civitatis Mediolani, premissis omnibus interfui et rogatus tradidi et subscripsi.
(Signum Tabellionatus). Ego Donatus de Trancheriis fihius quondam Thomasoli publicus imperiali auctoritate notarius civitatis Mediolani iussu suprascripti notarii scripsi.


VI.

ASM, loc. cit., Monastero di San Pietro in Cremella, cart. I.

Notta della spesa per fare una monacha proffessa e velata nel Venerando Monastero di S. Pietro in Cremella. (110).


La dotte spirituale lire tre mula imperiali.........L. 3000
Per il nivello anno.......................... 40
Per la donzina del anno del noviziato .......................... 240
Per il primo capitolo del acetati ..........................100
Al ingresso della figlia l'onoranza .......................... 50
Per il regallo alla chiesa .......................... 50
Un regallo a tutte le monache e converse alla vesticione e
professione..........................---
Nel medemo tempo in vece del pranso si dà a cadauna
monacha lire 3, e alle converse lire I. 10 .......................... ---
Il medemo giorno si dà un regallo al padre confesore e capelano ---

Per uso della cella.
Una lettiera fornita, con letto di piuma, materazo, paliazo, piumacino, due cosini, due coperte di lana, una preponta, una coperta di rocadello, b.za 25 tarliseto verde per fare le tende a torna alla letiera, donzine quattro annelini per le tende, un canterà, un tavolino con suo tapete, un genuchiatoio, un quadro grande, un crocefiso, un aguasantino per l'agua santa, un scanno, una cadrega di comodo, due cadreghe di lischa, un bacile di ottone, due candilieri di peltro, un sidelino con suo tripete.

Per li abbiti e tela et altro.
Pano nero fino......................................................B.za 4
Pano nero alto ......................................................4
Saglia nera fina ......................................................50
Roversio biancho per la biancheta...................................................... 5
Spagnoletto nero per le balzane...................................................... 3
Bombasina nera per fodrare...................................................... 10
Setta nera grossa torta ......................................................S. 6
Setta nera sotila torta ...................................................... 6
Peliza con sue maniche....................................................... N. 1
Maniza ...................................................... 1
Calzete di lana...................................................... P.a 2
Cambraglia per velli della novizia......................................................B.za 6
Scarpe...................................................... P.a 4
Zibrete ...................................................... 4
Scosali di tella ...................................................... N. 16
Scosali di tarliseto nero ...................................................... 2
Velli di testa ......................................................Cap.zi 4
Guandalini ...................................................... 4
Bende ......................................................4
Facioletti ...................................................... 4
Tela biancha de duve lini de braza 15 per caduno capezo............ 20
Reffo biancho...................................................... N. 1
Reffo nero...................................................... S. 14
Tovaglie per il refetorio.......................................................B.za 20
Mantini ......................................................40
Serviete ...................................................... N. 20
Peltro per la comunità tra piati e tondi lirete ....................................................... . L. 18
Per uso della figlia scudeline di peltro....................................................... N. 3
Una posata di argento ...................................................... 1
Bindelo nero largo 3 ditta per una centa ....................................................... B.za 6
Un Breviario, Un Diurno, Un Salterio, Un Officio Dela B.a Vergina,
Un Oficio per la Settimana Santa.

Per la cera della Vesticione.
Una torchia per la novizia............................................. N. 6
Cilostri de N. 2, per caduno .......................................... 8
Cilostri de S. 18, per caduno ............................................. 6
Candele de S. 4, per caduna ............................................. ---
Il medemo si dà alla profesione ciovè la cera ............................................. ---

Per la Professione.
Saglia nera fina .............................................. B.za 50
Velli di setta nera tuto rizo ............................................. 8
Vello lucente nero ............................................. ---

Un regalo al padre confessore e capelano, una onoranza alli servitori,
fatora e chierico tanto alla Vesticione come alla Profesione.......... B.za ---
Per la prima setimana di cucina............................................. L. . 60
Bindello largo 2 ditti incarnadino ............................................. B.za 50
Il medemo alla Vesticione............................................. 50
Un scaldaleto grande e uno piciolo............................................. N.. 2

Notta di alchune provisioni spetanti alla figlia per la Vesticione che non si ametino nella lista e le sod.te servono per fare dolci, per formare bacile per il confessore e capelano, e colazioni a diverse monache.
Frumento............................................. R. 4
Vino rosso ............................................. B.ta 1
Butiro ............................................. N. 10
Pani di zucharo ............................................. 10
Zucaro in polvere ............................................. 12
Amandole .............................................8
Noce moschate, galofori, canella ............................................. S. 3
Pignoli ............................................. N. 2..L. 3000
Per il nivello anno ...................................................... 40
Per la donzina del anno del noviziato ...................................................... 240
Per il primo capitolo del acetati...................................................... 100
Al ingresso della figlia l'onoranza...................................................... 50
Per il regallo alla chiesa ...................................................... 50
Un regallo a tutte le monache e converse alla vesticione e
professione ...................................................... ---
Nel medemo tempo in vece del pranso si dà a cadauna
monacha lire 3, e alle converse lire I. 10 ....................................................... ---
Il medemo giorno si dà un regallo al padre confesore e capelano ---

Per uso della cella.
Una lettiera fornita, con letto di piuma, materazo, paliazo, piumacino, due cosini, due coperte di lana, una preponta, una coperta di rocadello, b.za 25 tarliseto verde per fare le tende a torna alla letiera, donzine quattro annelini per le tende, un canterà, un tavolino con suo tapete, un genuchiatoio, un quadro grande, un crocefiso, un aguasantino per l'agua santa, un scanno, una cadrega di comodo, due cadreghe di lischa, un bacile di ottone, due candilieri di peltro, un sidelino con suo tripete.Un Oficio per la Settimana Santa.

Per la cera della Vesticione.
Una torchia per la novizia............................................. N. 6
Cilostri de N. 2, per caduno .......................................... 8
Cilostri de S. 18, per caduno ............................................. 6
Candele de S. 4, per caduna ............................................. ---
Il medemo si dà alla profesione ciovè la cera ............................................. ---

Per la Professione.
Saglia nera fina .............................................. B.za 50
Velli di setta nera tuto rizo ............................................. 8
Vello lucente nero ............................................. ---

Un regalo al padre confessore e capelano, una onoranza alli servitori,
fatora e chierico tanto alla Vesticione come alla Profesione.......... B.za ---
Per la prima setimana di cucina............................................. L. . 60
Bindello largo 2 ditti incarnadino ............................................. B.za 50
Il medemo alla Vesticione............................................. 50
Un scaldaleto grande e uno piciolo............................................. N.. 2

Notta di alchune provisioni spetanti alla figlia per la Vesticione che non si ametino nella lista e le sod.te servono per fare dolci, per formare bacile per il confessore e capelano, e colazioni a diverse monache.
Frumento............................................. R. 4
Vino rosso ............................................. B.ta 1
Butiro ............................................. N. 10
Pani di zucharo ............................................. 10
Zucaro in polvere ............................................. 12
Amandole .............................................8
Noce moschate, galofori, canella ............................................. S. 3
Pignoli ............................................. N. 2

Per il primo capitolo della acetazione si dà a caduna un regalo a tutte le monache.

* * * * * *

Una Missione Apostolica in Casatenovo nel 1702


Il padre Fulvio Fontana della Compagnia di Gesù, dopo aver tenuto una missione nella pieve d'Incino, per ordine dell'arcivescovo di Milano card. Archinti, se ne venne in quella di Missaglia per il medesimo scopo.
La pieve di Missaglia fu divisa in cinque campi o sezioni:
1° Missaglia con Viganò, Maresso e Sirtori; 2° Casatenovo con Monticello, Torrevilla, Galgiana et in verbo eminentissimi Besana e Monte (pieve d'Agliate); 3° Rovagnate con Perego, Nava, Giovenzana e Brianzola; 4° Cernusco con Osnago, Lomagna, Montevecchia; 5° Cremella con Barzanò, Cassago, Barzago, Bulciago.
Finita la missione nel primo campo (dal 24 al 30 luglio) con la benedizione apostolica impartita su la piazza di Santa Maria della Misericordia presso Missaglia, (111) la mattina del 31 luglio, coi suoi compagni, mosse verso Casate ricevuto sul limitare del paese dal clero, dalle confraternite, e dal popolo (le zitelle con il volto velato di lungo nero zendale, e le donne coperte di lunghi panni).
Consegnata la Croce al parroco, si andò processionalmente alla parrocchiale cantando le Litanie della Madonna.
Quivi giunti, premessa l'adorazione al SS. Sacramento, salito su di un palco ben addobbato eretto presso il pulpito, esortò gli uditori ad una santa missione, e li invitò alle prediche, le quali, incominciando alle ore 18 di quel giorno, si sarebbero tenute sulla pubblica piazza, dove era stato innalzato un apposito palco presso l'oratorio di S. Rocco.
La piazza, spaziosa ed ombreggiata, per l'occasione era stata coperta con un padiglione di candidi lini: a mezzodì sorgeva la casa dei conti Lurani Pier Francesco e Alessandro, chiamata il castello; (112) a settentrione un grande casamento dell'Ill. marchese Giulio Casati, regio feudatario, abitato da diversi suoi dipendenti. Davanti alla porta maggiore di questo casamento stava il palco per le prediche. Accanto all'oratorio di S. Rocco, dentro il recinto del castello, in luogo adatto, si era eretto un altro palco tutto coperto d'ampio padiglione, dove sedevano separatamente molte dame, cavalieri, forestieri e religiosi « godendo sempre l'occhio l'arrivo di sì ben regolate Processioni, l'orecchio li canti, e'l cuore la parola di Dio ».
Le popolazioni delle parrocchie arrivavano in processione col loro clero, e si disponevano nei posti loro assegnati, dove le donne erano separate dagli uomini con una corda: i nobili e le nobili avevano un posto distinto a destra e a sinistra del palco.
Di questa missione ce ne ha lasciato una relazione il parroco del luogo Gio: Andrea Boldoni, dottore in sacra teologia, protonotario apostolico, e provicario foraneo della pieve.
E' una pagina curiosa e interessante del costume religioso brianzolo d'altri tempi: è il seicento che si fa sentire non solo nel viver civile, nelle arti e nelle lettere, ma altresì nelle manifestazioni religiose.

*

Tralasciando altri particolari, ecco come vien descritto l'arrivo delle processioni su la piazza di Casatenovo nel giorno di Venerdì, nel qual giorno le processioni assunsero una forma straordinaria di penitenza:
« Accolto in conveniente distanza dal Clero di Casate, e dalla Scuola del Carmine, con l'Insegne e Stendardi, e dal popolo tutto, schierato a longo della strada con gravi Croci alle spalle, Corone di spine al capo, e scalzo il piede; e dalle donne parimente schierate, precedente il Crocifisso, con li ripartiti Stendardi dell'Apostolo dell'Indie tutte fin'al ginocchio velate e coronate di spine, comparve il numeroso Popolo di Montesiro diviso in sette ordini.
Conteneva il primo, preceduto da ignudo vessillo, la moltitudine vestita di quotidiani habiti, che ben regolata andava appostatamente recitando il Rosario.
Era composto il secondo di più di cento vestiti di sacco, coronati di spine, coperti in faccia, aggravati di Croci, tutti discalzi, seguendo una Croce capace d'humana statura. Andavano interposti tra questi in uguale distanza alcuni accoppiati da funi, altri da catene, altri con horribil stridore le trascinavan per terra, altri al pietoso canto del Miserere facevano aspra battuta su l'ignude spalle.
Seguiva a questi un altro nero Stendardo con l'effige della Morte che formava il terzo ordine de Disciplini, vestiti di nero, cinti, legati, scalzi e coronati come li precedenti, che alternatamente cantavano come li soprascripti.
La Scuola del SS. Sacramento, sotto rosso Confalone, con gl'habiti rossi, con capo coronato di spine, collo cinto di catena o di fune, e piede ignudo, era il quarto ordine, che andava cantando le sacre lodi a quest'effetto stampate.
Il quinto ordine era la candida Confraternita del SS. Rosario, la qualle alle sue rose accoppiando le spine, e seguendo a pié nudi il ricco e vago Stendardo della sua Regina, cantava a vicenda col quarto ordine.
Et ecco il sest'ordine formato da Sacri Ordinati: primo di questi era l'esemplare loro Pastore Agostino in longa veste senza Cotta, collare e beretta, co'l Capuccio Parrocchiale, stolla e corda al collo, spine in capo, e scalzo il piede, quale inalberata la grand'Insegna di nostra salute, assistito da grossi accesi Doppieri, e seguito da tant'altri Sacerdoti, similmente adornati in competente, et uguale distanza ben compartiti, questi bastavano per portare ad uno per uno tutti li gloriosi Trofei del Redentore, procedendo con grave passo, e cantando religiosamente l'Hinno: Vexilla Regis prodeunt, gionse nella gran Piazza, che divenne in quest'istante un Golgota piena di sospiri, di lagrime, di sangue, di pianti, di grida, che tanto più gionsero al Cielo al giongere del settimo ordine, quali con regolarissima disposizione, et humilissima modestia, entrate nell'assegnato cerchio cantando il pietoso pianto dell'addoloratissima Vergine Madre: Stabat Mater dolorosa, con le dolci e meste voci incantorno gl'uditori et havrebbero ammolito il fiero cuore de crocifissori di Gesù ».

*

Sopra tutto numerosissima giunse quella di Besana, accolta come sopra, con oltre duecento vestiti di sacco con pesanti croci in spalla: chi cinti di corde, chi di catene, quasi tutti con croci e con corone di spine, e molti a piedi nudi. I due curati portionari, Stoppa e Besozzo, col numeroso loro clero, tutti in lunga veste, senza cotta, collare e beretta, con la sola stola e nera cinta al collo, con esemplarissima religione, coronati di spine « tutta con sì bell'ordine, e con tanta devotione ch'avrebbe mosso a pietà la barbarie, la ferità ».

*

Grande commozione suscitò l'arrivo della processione di Monticello: «all'incontro fattoli, conforme il solito a tutte, commosse gl'animi del Parroco, del Clero, della schierata Scuola, del popolo di Casate che l'accolse e di tutta la Piazza all'entrarvi in modo che non vi fu alcuno che contener potesse le lagrime. Più di quaranta Confratelli della Scuola della Cintura vestiti di nero, cinti di catene, legati a due a due, chi per le mani, chi per li piedi, chi a traverso, chi con li bracci intreciati a grosse travi, chi mezzi ignudi scorticandosi al sangue, tutti scalzi, coronati di spine: il Clero humile e divoto; le zitelle e matrone, senza riserva delle Nobili, a piedi nudi, con spinose corone sopra neri zendali, chi portando il Crocifisso, chi li Stendardi, savie, modeste e ben regolate; li putti e gli huomini senz'habito coronati di spine, discalzi, chi col Rosario in mano, alternatamente recitandolo, chi con libri attentamente cantando, eccitorno anco da più duri cuori vive scintille di penitenza ».
Le processioni di Torrevilla e di Galgiana, « sì in questa come nelle passate e seguenti fontioni, incitorno sempre con ogni assiduità e devota gara l'esempio dell'altre.
Ultima ad entrare nel giro fu quella di Casate la quale fece « nobile Corona all'uditorio, con tanta sodisfatione che tutti ne restorno non men consolati che ammirati ».
In quel venerdì fu tenuta la predica dell'Inferno, e gli uditori ne rimasero talmente impressionati, che molti, a predica finita, si battevano il petto, facevano aspre discipline, con lagrime e pianti, gridando ad alta voce misericordia, e fra questi, nota il relatore, vi erano anche dei nobili.

*

Il sabato mattina, celebrata la Messa, padre Fulvio « fece la funtione della benedittione dell'Acqua con le SS. Reliquie dell'Apostolo Zaverio, in quantità di ben venti e più brente, alla quale accorse tutto Casate per riempirne li vasi e per sé e per gli altri. Udita la fama di tal distributione, s'affollò il vicinato a guisa degl'assetati Hebrei alla Pietra d'Horebbe, sì che tanta ve ne fosse stata, quanta ne sarebbe andata; e molti n'hebbero subito miracolose gratie ».
Tutto il sabato fino a notte e la domenica mattina fu occupata, coll'aiuto di dieci altri penitenzieri, ad ascoltare le confessioni dei penitenti: persone già nemiche fra di loro fecero la pace, pubblicamente abbracciandosi con fraterno amore.
Molti trascorsero quella notte in ginocchio a pregare o in piedi a cantare divine laudi.
La domenica mattina giunsero le diverse popolazioni per la Comunione Generale, da distribuirsi nell'Oratorio ridotto per la circostanza ad « una Sala Regale » ad « un Paradiso Terrestre ».
Celebrata la Messa, più di diecimila si accostarono alla Comunione.
Nella piazza gremita di migliaia e migliaia di persone accorse da tutti i paesi dei dintorni (più di 40 mila vorrebbe il Boldoni), il Fontana all'ora stabilita diede la benedizione papale coll'indulgenza plenaria e gli ultimi ricordi.

Si cantò il Te Deum, quindi le processioni in bell'ordine, passando « pe'l mezzo della sfilata Scuola e Popolo di Casate », dopo aver alternativamente alquanto sostato nella parrocchiale per una breve adorazione al SS.mo, e nella vaga cappella ingegnosamente costruita nel Cimitero (sagrato della chiesa) per salutarvi l'effige del santo apostolo Zaverio, ritornarono alle rispettive parrocchie.
La notte di domenica sulla pubblica Piazza si fece un bell'incendio di brutti libri e di carte da giuoco, « giuocando perciò li vincitori Spiriti del Cielo, e biastemando quei dell'Inferno, perché se li togliesse l'occasione di guadagnare tant'Anime », al cui notturno splendore padre Fulvio, con i suoi compagni, s'incamminò verso Rovagnate per giungere al levare del sole di lunedì.
Molti lo vollero seguire a Rovagnate, non pochi a Cernusco, tutti più di una volta a Cremella « dove l'esemplarissima Religione di quel Reale Monisterio rese non solo pienamente consolato il zelo dell'Apostolico Fulvio, ma contenta la brama dei Popoli accorsi, mirando et admirando con ossequiosa riverenza la modestissima humiltà di quelle sacre Vergini ».

*

La missione nella pieve di Missaglia si chiuse la domenica del 27 agosto su la piazza di Cremella, dove era accorsa gente non solo della pieve di Missaglia e di quella di Agliate, ma persino dalla pieve di Incino.
E tanto fu il bene compiuto, che, a missione ultimata, quando Padre Fulvio si mosse per partire, moltissimi non poterono trattenere le lagrime.
Quello che avvenne nel campo di Casatenovo, presso a poco lo fu anche negli altri luoghi. Perciò nessun dubbio che nelle popolazioni della Brianza - popolo e nobili - viva e sentita era la fede, ma i modi di esprimerla, a noi del secolo XX, non ci sembrano tra i migliori per quanto consoni ai tempi.

* * * * * *

Il Monastero di S. Gregorio in Bernaga sopra Perego

In territorio di Perego, sull'alto colle di Bernaga, che domina la valle di Rovagnate, spicca tuttora un'imponente edificio.
Era il già monastero di S. Gregorio, asilo a sacre vergini benedettine, soppresso nel 1798, ma in questi ultimi anni ritornato dimora delle claustrali Romite Ambrosiane del Sacro Monte di Varese.
Il monastero primitivo, al dire del Dozio, sorgeva alquanto più in basso a Bernaghetto, ma di esso non rimase che qualche avanzo. Divenuto cadente per vetustà ed insufficiente ad una ben regolata vita monastica, le monache, dietro suggerimento e incoraggiamento del card. Federico Borromeo, e superando ogni perplessità, poiché il loro annuo reddito non superava i 900 scudi, decisero di erigerne uno nuovo su la cima del colle, dove avrebbero potuto disporre di una migliore sistemazione. Lo stesso card. Federico volle porre la prima pietra della chiesa di S. Gregorio il 28 settembre 1628.
Giù in basso nell'abitato di Perego sistemarono una succursale, per comodità del monastero stesso situato in alto fuori mano, oggi divenuta casa parrocchiale.

*

Le ricerche per conoscere quando e da chi fu fondato l'antico monastero mi riuscirono vane.
Probabilmente deve risalire al secolo XI.
La prima notizia che, in ordine di tempo, si ha è del secolo XII, e cioè del 10 marzo 1157. Si tratta di una permuta tra la badessa Lucia e il milanese Manfredo de Mantegatiis. Il contratto doveva essere approvato dal prevosto di Missaglia, come avvocato del monastero, e fors'anche quale rappresentante dell'arcivescovo di Milano al quale lo stesso monastero era soggetto.
Questa particolare giurisdizione o possesso che gli arcivescovi di Milano ebbero sul monastero di Bernaga, è pure confermata dalla bolla di Papa Alessandro III del 1162 in favore dell'arcivescovo Oberto Pirovano.
Che il monastero dipendesse direttamente dall'arcivescovo lo si può altresì desumere dal fatto che non è numerato nell'elenco del 1192 di Cencio, camerario pontificio, tra i monanasteri direttamente soggetti alla Santa Sede, come lo erano invece quelli di Lambrugo, Brugora, ed altri.
D'altra parte non mi fu dato di rinvenire che qualcuno, laico od ecclesiastico, abbia mai vantato pretese di patronato sul monastero.
Si può pertanto ritenere che l'ignoto fondatore l'abbia posto sotto l'immediata protezione degli arcivescovi di Milano, ai quali spettava il diritto di conferma della badessa eletta dalle monache in capitolo.
Infatti, il 15 aprile 1255 l'arcivescovo Leone da Perego si trovava a Vimercate, quando gli si presentarono due sacerdoti, canonici della collegiata di S. Eufemia in Oggiono, Lan-franco de Molteno e Mainfredo de Crepa, (113) supplicando a nome delle monache di voler confermare l'elezione della nuova badessa Giustina. Ma poiché, dall'esposto di Mainfredo, parve che l'elezione non fosse stata fatta secondo le regole canoniche, annullò quella nomina.
Di poi, avendo riguardo alla esemplarità di vita ed alla saggezza della eletta, per sua liberalità e nella pienezza del suo potere, la elesse egli stesso in badessa, conferendole i diritti spirituali e temporali proprii del regime stesso, e delegò il canonico Lanfranco de Molteno ad immettere la nominata badessa nella sede abaziale, e a darle il temporale possesso di tutti i beni e pertinenze del monastero.
Quattro anni prima, nel 1251, un Ruglerio Brasca di Bernaga vendeva al monastero una selva « ubi dicitur ad paratam » per quattro lire terzole.

*

La vita claustrale di quelle monache sembra scorresse regolarmente, in quei lontani secoli, come in tanti altri monasteri. Di gravi avvenimenti che turbasse la loro pace non si ha memoria.
Il monastero fruiva di una minore consistenza patrimoniale rispetto a quello di Brugora, di Lambrugo, e di Cremella. Nel 1398 fu tassato per lire 7, soldi 3, e denari 4. Sappiamo però che le monache vi supplivano arrangiandosi con lavori manuali e industrie casalinghe.
Da alcuni contratti d'affitto si ricava che le nostre religiose possedevano nel 1347, tra l'altro le cascine di Siraga e Nelone, e la fornace di Prestabio. Questa fornace è l'antesignana delle attuali fornaci. Il terreno infatti in quei dintorni si presta all'industria dei cotti per l'edilizia ed altri usi.
Badessa era allora Donina de Crepa, e della medesima stirpe la maggior parte delle monache.
Il 17 novembre 1393 il monastero affittò terreno coltivo, situato in Torricella, al sig. Giovanolo Pirovano, figlio di Primo, abitante in Barzanò.

*

Nel secolo XIV aveva incominciato tuttavia a profilarsi, per poi intensificarsi col passare del tempo, fino alla riforma del Concilio di Trento, una generale decadenza nella disciplina monastica e nel clero.
Non vi sfuggì il nostro monastero.
La consistenza personale non raggiungeva ordinariamente, come si può desumere dalle adunanze capitolari per contratti d'affitto, ecc., che tre o quattro monache con qualche conversa. E, tanto per citare un esempio, nel 1447 oltre la badessa Antonia de Crepa non c'erano che tre sole monache.
Risulta che la chiesa di Perego era stata profanata in occasione di fatti guerreschi: « propter bella et turbines bellorum polluta ». Ciò potrebbe essere forse avvenuto nel 1409 in occasione della battaglia nella valle di Rovagnate tra l'esercito di Pandolfo Malatesta e quello di Facino Cane, oppure più verosimilmente molti anni dopo allorquando Gian Giacomo de' Medici mandò milizie a far prigioniero il traditore castellano di Perego. (114) Che le monache di Bernaga in quelle circostanze abbiano sofferto angherie e soprusi non consta. Che siano andate totalmente esenti è lecito dubitare.
La chiesa, dedicata a S. Giovanni Evangelista, fu riconciliata e consacrata il 20 agosto 1540 da Mons. Giovanni Melegnano, vescovo di Lodicea e vicario dell'arcivescovo. di Milano Ippolito d'Este, il quale in quello stesso giorno si dice abbia pure consacrata la parrocchiale di S. Giorgio in Rovagnate. (115).

*

Col secolo XVI il monastero venne a poco a poco rimettendosi.
Un atto del 20 agosto 1500 ci dà l'elezione della badessa Maura de Gluxiano con la presenza di nove monache professe e due converse, e per un contratto di locazione di beni dell'8 aprile 1556, beni situati alla Fragia di Briosco di proprietà del monastero, oltre la badessa risultano nel monastero quindici monache.
Nel 1558 si ebbe un'investitura livellaria perpetua fatta da Cesare Pirovano come chierico del perpetuo beneficio clericale di S. Nazaro e Michele del luogo di Monte Pirovano (Missaglia) al monastero di Bernaga.
Acquisto di fondi in Besana superiore fecero le monache dai Riboldi nel 1575 e nel 1583.

*


S. Carlo, il quale desiderava soprattutto nei monasteri il santo vivere, ne soppresse parecchi in città e nella campagna. Ciò naturalmente gli procurò grattacapi da parte delle religiose riluttanti, dove più dove meno, agli ordini del santo.
Ritenute non al sicuro le monache raccolte nei quattro monasteri benedettini del Monte di Brianza, decise di applicare a quei monasteri il decreto tridentino, il quale imponeva la traslazione dei monasteri esposti a pericoli nelle campagne in luoghi chiusi o città, invocando in caso di rifiuto ostinato l'intervento del braccio secolare.
Nel 1578 prese pertanto tale provvedimento. Alle monache di Cremella pensava di destinare il monastero di 8. Agata in Porta Nuova, e riunire quelle di Bernaga alle Canonichesse Lateranensi della SS. Annunciata parimenti in Porta Nuova.
Alle monache di Lambrugo e di Brugora, come le più provviste di mezzi, ingiunse senz'altro l'acquisto in Milano del monastero di 8. Maria detto di Vigevano in Porta Orientale (oggi sede dell'Archivio di Stato), le cui poche monache erano state trasferite nel monastero di S. Maria Maddalena al Cerchio.
Senonché il dovere abbandonare le loro antiche sedi, e per di più incontrare gravi difficoltà, cagionò non lieve turbamento a quelle religiose com'era da aspettarsi.
Nell'agosto di quell'anno il santo arcivescovo si trovava in visita pastorale a Carate, e i procuratori di quei monasteri ne approfittarono per venire a supplicarlo di non dar corso a quanto aveva divisato.
S. Carlo fu irremovibile. Egli che aveva scritto a Roma allo Speciano, in occasione di altro simile provvedimento, « che uno dei punti nell'eseguire le cose è il risolversi da dovero di dover fare, et star poi saldi nelle risolutioni », non era uomo che recedesse tanto facilmente da una risoluzione presa. Non per nulla era nipote del Medeghino.
La sua fermezza, benché sostenuta dalle migliori intenzioni, suscitò tale vespaio da non riuscire mai più a cavarsela.
Ai quattro monasteri, fatta causa comune memori che l'unione fa la forza, non rimase altra via che ricorrere alla Santa Sede, attraverso la Sacra Congregazione del Concilio, esponendo le loro ragioni in contrario, sostenute dal proponente cardinal Orsini.
Insorsero contemporaneamente in loro favore le principali famiglie del Monte di Brianza (i Nava, i Canali, gli Isacchi, i d'Adda, i Serbelloni, i Della Torre, e molti altri) con in testa il Vicario stesso del Monte di Brianza, e inoltrarono una loro particolare supplica alla Sacra Congregazione nel 1579. Supplica che si concludeva con queste espressioni: « detti gentilhuomini protestariano a S. S.tà et all'Ill.ma Congregatione che questi nobili et populi più presto che tollerare questa rovina del sangue loro sono risolutissimi di ritirare le loro figlie, sorelle et parenti dalli detti Monasteri et reporle in altri fuori della giurisditione sua (cioè di S. Carlo), et correre qual si voglia fortuna et di sinistro e di qual si voglia accidente ».
S. Carlo, che dell'opportunità del suo operare aveva convinto lo stesso visitatore apostolico, risolse di recarsi a Roma onde neutralizzare il contrario lavorìo dei procuratoni dei quattro monasteri, (116) e controbattere l'efficacia delle raccomandazioni che nobili famiglie bniantine svolgevano presso alti prelati della Curia Romana coi quali erano in relazione per via di parentela o di amicizia.
Tutto considerato, la Sacra Congregazione finì col dichiarare valido l'esposto delle monache. Il pontefice Gregorio XIII con bolla del 12 dicembre 1580 decretò non trasferibili quei monasteri, e concesse a quelli di Lambrugo e di Brugora di rivendere allo stesso prezzo lo stabile già acquistato in Milano. (117).
Fu, come si suol dire, una mezza misura per la salvezza dei nostri monasteri.
Rimaneva la proibizione di professare altre monache, il che significava o finire per esaurimento o arrendersi. S. Carlo su questo punto tenne duro, e la causa proseguì con altrettanta tenacia d'ambo le parti.
La morte di S. Carlo, avvenuta nel 1584, non valse a chiudere la controversia, la quale continuò il suo corso sotto l'arcivescovo successore Gaspare Visconti.
Finalmente le monache ebbero in pieno causa vinta. Il card. Alessandrino con lettera del 12 novembre 1587 notificava all'arcivescovo di Milano il diritto riconosciuto ai quattro monasteri di professar monache come per il passato:
« Al molto Ill.mo et Reverendis.mo come fratello Mons. Arcivescovo di Milano.
Dopo l'essersi veduta et maturamente considerata in questa nostra Congregatione la relatione di Mons. Aularo con la pianta dello stato delli quattro Monasteri del Monte di Bnianza, (118) cioè di Lambrugo, Brugora, Cremella et Bernaga, et parendo a questi Ill.mi miei Signori che questi non siano dei compresi nel quinto capitolo della sessione XXV del Sacro Concilio di Trento, come benissimo ha dichiarato anche la Sacra Congregatione di detto Concilio, et che per conseguenza devono perseverare et stare nel luogo dove già da tanti anni sono stati, hanno voluto ordinare come fanno a V. S. che in ricompensa di tanto tempo nel quale sono state sospese et travagliate quelle Monache, voglia quanto prima far visitare detti Monasterij et provedere s'alcuna cosa ci manca alla perfetta clausura di ciascuno, prefiggere quel numero di Monache in ciascuno Monastero che giudicherà potervisi commodamente alimentare et nel rimanente lasciare che vi si ricevino et vestino Monache come si faceva prima che ne fossero interdetti, mediante però le solite licenze di questa Congregatione. Et me le raccomando di cuore pregandole contento e salute.
Di Roma lì XII di novembre MDLXXXVII.
Di V. S. molto Ill.ma et Reverendis.ma
Come fratello il card. Alessandrino ».

Successivamente Sisto V con breve del 23 dicembre 1588 confermava definitivamente quanto aveva deciso la Sacra Congregazione.
La lunga controversia importò non poche noie e gravi spese a quei monasteri.

*


Nel 1620 affittarono al miglior offerente fondi situati in Bernaga, Siraga, Oggiono, Besana, e Spiazzolo di Montevecchia. In Spiazzolo vi possedevano beni fin dal 1443.
Da una notifica del 25 novembre 1620 la badessa Colomba Nava dichiarava che nel monastero vi erano circa sessanta bocche.
Per questo si imponeva la costruzione di un nuovo e più capace monastero, non essendo il vecchio suscettibile di un utile ampliamento, benché fosse stato restaurato dalla professa Caterina Brioschi, eletta badessa per un biennio nel 1558 e per un altro biennio nel 1565, come da iscrizione sopra la porta maggiore del vecchio monastero.
Venne infatti ricostruito, come si è detto, più in alto a Bernaga in amena posizione.
Nel 1641 dimoravano nel nuovo monastero ben 57 religiose.

*


Le monache, oltre alla preghiera e ai lavori femminili ad ago, ad ossi, a telaio, attendevano all'allevamento dei bachi ed alla confezione del seme che poi smerciavano onde arrotondare i loro proventi.
Altra antica industria dei monasteri e conventi era quella dei medicinali o speziania (decotti, pillole, cerotti, impiastri, ecc.), che finì col suscitare proteste dalla Corporazione degli Aromatari di Milano, per cui la Santa Sede permise la continuazione dell'esercizio limitatamente al bisogno dei monasteri e conventi, fatta qualche limitata eccezione.

*


Ma non mancavano coloro che si dimenticavano di pagare i debiti contratti per merce ricevuta.
Le monache, impegnate nella costruzione del nuovo monastero si trovarono nella necessità di incassare i loro crediti.
Il 27 luglio 1628 Alessandro Sirtori, Vicario del Monte di Brianza con sede giuridica in Barzanò, ad istanza di Benedetto Viganò, procuratore delle monache di Bernaga, intimò ai debitori di estinguere i loro debiti per il 14 agosto. Erano somme dovute al monastero per medicinali e seme bachi. Si trattava di una quarantina di persone sparse in villaggi e cascine dei dintorni: Sirtoni, Torricella, Rovagnate, Cereda, Galbusera, Crescenzaga, Tremonte, Santa Maria Hoe, Viganò, Missaglia.
Altrettanto aveva imposto il Vicario del Monte di Brianza, ad istanza dello stesso procuratore, ad Oliviero e fratelli De-Capitani d'Hoe di saldare le loro pendenze entro tre giorni (19 gennaio 1628).
Il 21 marzo 1650 la badessa Apollonia Perego, con 42 monache raccolte in capitolo, ricevette dal magnifico molto Rev.do Sig. Marco Antonio Onigo, protonotario apostolico, figlio di Matteo, abitante in Torricella (frazione di Barzanò) e procuratore del monastero di Cremella, lire 1500 imperiali col relativo interesse; denaro imprestato l'anno prima al monastero di Cremella. L'atto di ricevuta fu rogato dal parroco di Nava notaro apostolica auctoritate.

*

Il nostro monastero, a differenza di quelli di Lambrugo e di Brugora, i quali in origine dipendevano direttamente dalla Santa Sede, fu sempre sotto l'immediata protezione dell'arcivescovo di Milano. Vi si praticavano le regole di S. Benedetto, ma si usava il rito e l'ufficio monastico ambrosiano che recitavano in coro ad ore determinate.
La clausura fino al Concilio di Trento non era rigorosa: le monache potevano uscire dal monastero quando lo richiedevano le loro necessità.
La professione delle monache spettava in definitiva all'arcivescovo il quale ordinariamente si faceva rappresentare da un delegato, che di solito era il prevosto plebano di Missaglia.
Chi si faceva monaca doveva versare la dote prescritta. Il 18 gennaio 1597 si tenne un'adunanza capitolare per ammettere in monaca professa Concordia Perego. Questa ebbe soltanto 17 voti favorevoli per il motivo, scrisse la badessa all'arcivescovo, che suo padre, non voleva versare che sole lire 1600 in dote. Tuttavia aggiungeva la badessa, le monache faranno nel caso quello che l'arcivescovo vorrà determinare.
Nelle cariche della comunità veniva prima la badessa, la quale esercitava un'autorità quasi sacerdotale. (119) Quando il 20 agosto 1500 fu eletta badessa Maura Giussani, e immessa nella carica da Gio. Antonio Beolchi, prevosto di S. Maria Fulcorina di Milano a ciò delegato per autorità apostolica, si seguì questo cerimoniale. Pregando, in processione con tutte le monache e converse, si andò nel coro dell'altar maggiore, quindi si passò alla chiusura e apertura della porta della chiesa, e di là alla cattedra abaziale, andando e ritornando per la detta chiesa, mentre suonavano a distesa le campanelle del monastero.
Alla badessa seguiva la Priora, poi la Cancelliera, a ciascuna delle quali spettava un titolo speciale. Molto Reverenda Madre la badessa, Reverenda Madre la priora e la cancelliera. Semplicemente Madri le altre monache conciliari, e Monache le altre non ancora professate. Titoli e distinzioni approvate per tutti i monasteri da Innocenzo X nel 1615.
L'elezione delle cariche spettava di diritto alle monache velate o capitolari.

*

Dopo S. Carlo, nelle visite pastorali dei successivi arcivescovi non si ebbero che decreti riguardanti piccole riforme miranti ad una sempre più regolare clausura (non dormire con materasso di piuma steso sul pagliericcio; chiudere la porta e andare a riposo all'ora prescritta; non alloggiare persone secolari o dar loro da mangiare; e specialmente non suonare né cantare alle porte e al parlatorio; ecc. Togliere insomma quelle piccole mondanità spagnolesche che penetravano talora anche nei monasteri.
Perciò nulla di straordinario o di importanza: è noto che nelle visite pastorali i nostri venerandi arcivescovi trovano sempre qualche cosa da correggere o da suggerire in meglio.
Il monastero seguiva il normale corso della sua esistenza, ed era da pochi anni sfuggito alla soppressione minacciata da Giuseppe Il con dispaccio del 5 dicembre 1783, col prestarsi alla pubblica istruzione delle figliole, allorché la calata dei rivoluzionari francesi sul finire del secolo ne segnò la definitiva scomparsa.
Con lettera del 14 Termidoro, anno quinto repubblicano, dell'amministrazione centrale di Lecco, dipartimento della Montagna, venne ingiunto alle monache di Bernaga di notificare i loro beni.
La loro proprietà terriera era di pertiche 4.060.3.

Il 29 Termidoro presentarono questa distinta:

In Besana pert. 262.12 --- Pieve di Agliate
» Aizurro » 221.4 --- » Brivio
» Brianzola » 432.2 --- » Missaglia
» Robbiate » 96.17 --- » Brivio
» Paderno » 46.6 --- » Brivio
» Sartirana » 232.15 --- » Brivio
» Biglio » 13.2 --- » Garlate
» Bernaga » 1102.15 --- » Missaglia
» Cereda » 503.7 --- » Missaglia
» Montevecchia » 480.-- --- » Missaglia
» Missaglia » 251.-- --- » Missaglia
» Perego » 43.-- --- » Missaglia
» Sirtori » 85.18 --- » Missaglia
» Viganò » 151.14 --- » Missaglia
» Rovagnate » 15.12 --- » Missaglia
» Oggiono » 122.13 --- » Oggiono

In scudati d'estimo sommavano a lire 20055, e davano una presumibile entrata di lire 18222, e che al 4 e 1/ 2 quei fondi avevano un valore di lire 404948.
Se ragguardevole era divenuta col trascorrere dei secoli la possidenza del monastero, costituita da terre, censi ed esenzioni, tuttavia i redditi annui erano modesti e di conseguenza anche le spese. Pure ammesso che i terreni non rendevano a quei tempi come oggi, si vede che le monache coi loro coloni praticavano il motto: vivere e lasciar vivere. Il cespite principale della loro entrata era costituito dalla dote che ogni figliola monacandosi portava al monastero.
Dimoravano allora nel monastero 28 monache velate e 13 converse.
Il 14 Settembre 1798 il cittadino Leopoldo Staurenghi, commissario del potere esecutivo del Dipartimento della Montagna, residente in Lecco, si recò a Bernaga, ed ivi convocate le monache; (presenti 26 professe e 13 converse), intimò loro che da quel momento la loro comunità era sciolta, e che nel termine di quindici giorni dovessero sgombrare il monastero.
Il monastero e gli annessi beni, passati all'Agenzia dei Beni Nazionali, furono alienati a diversi acquirenti.
Alle monache ed alle converse vennero liquidate le solite miserelle pensioni vitalizie.

* * * * * *


Il Convento dei Servi di Maria in S. Maria d'Hoe

Hoe è un ameno paesello, presso Rovagnate, che si annida alle falde del colle di Brianza in un placido paesaggio di quiete e di pace.
Nome alquanto strano fra gli altri della Brianza.
Parecchi studiosi si occuparono della sua origine. Il Salvioni ha pensato di allacciarlo ad un anteriore Lovée (luparium) con soppressione dell'l iniziale. (120) Ma ciò non può essere. L'accentuazione sull'e finale di Hoé è moderna, e vorrei dire arbitraria in quanto opera di scrittori relativamente recenti. Infatti nelle carte antiche, il luogo è chiamato O, Ohe, Hoe, ma senza un'accentuazione qualsiasi. Nel dialetto locale e dei dintorni viene pronunciato O e non Hoé. La sua vera pronuncia dovrebbe essere perciò Hoe. D'altra parte un intermedio dialettale Lovée, Ovée per Hoé non risulta da alcun documento.
Il Cappellini ritiene invece di farlo derivare direttamente dalla forma dialettale Oolt (alto), in contrapposizione al villaggio di Calò presso Besana Brianza che, a suo dire, dovrebbe corrispondere a Calatum, ossia calare in basso verso la vecchia parrocchiale. (121) Anche questa ipotesi non riesce a soddisfare per la ragione che in dialetto si pronuncia semplicemente Oo, e non Oolt, che significherebbe alto, voce quest'ultima che inoltre non trovo in nessun scritto antico per indicare O, Ohe, Hoe.
Cesare Cantù ed il Dozio opinarono per un'origine germanica. Il Dozio lasciò scritto che « Ohe vuolsi di origine germanica e significa luogo presso acqua perenne: nell'Holstein v'ha un villaggio il cui nome è similmente Ohe. Ebbi queste notizie da un dotto prussiano da me interrogato su tal proposito. È perciò verosimile che un tal nome fosse dato à questo luogo dalla famiglia longobarda che venne a stanziarsi qui sotto ridentissima plaga di cielo e forse si fabbricò, e certo vi abitò ampio castello dove ora stanno la chiesa di S. Veronica e le case propinque. Quel castello ebbe due forni ad uso prigione demoliti ai dì nostri coll'ultime reliquie del medesimo; fu vasto assai, e fu cospicua e potente nel secolo undecimo la famiglia dei signori d'Ohe che vi dimorava, od almeno fu tale un Unfredo appartenente ad una ricca e potente famiglia di Valvassori ». (122)
Benché tutti si brancoli nell'incertezza, la congettura di una derivazione dal germanico mi sembra la più verosimile. La stessa vicina chiesa parrocchiale di Rovagnate dedicata a S. Giorgio, ci richiama la probabile presenza in luogo di una ricca famiglia longobarda, poiché quel santo guerriero, stando al Bognetti ed al Palestra, appartiene al santoriale longobardo.
Il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani
del secolo XIII, ci ha conservata la tradizione, in merito alle nostre chiese dedicate a S. Giorgio, che « multi nobiles fecerunt ecclesias huius sancti velut quidam comes ecclesiam sancti georgii de cornate ». Sappiamo infatti che non un conte ma il re longobardo Cuniberto fece erigere la chiesa di S. Giorgio di Cornate d'Adda.
Il nome di Hoe potrebbe fors'anche avere qualche rapporto con la Hof (hove) con cui i germani e gli stessi Longobardi designavano il centro della corte, (123) ma risulta ben più attendibile la forma medioevale tedesca owe, ouwe - acqua corrente, donde O, Ohe. (124). Nella regione di Arenberg della Germania nord occidentale vi è infatti un piccolo fiume chiamato Ohe. Di conseguenza il nostro Hoe verrebbe a significare luogo presso un corso d'acqua. E per verità vi passa un piccolo torrente d'acqua perenne che scende dai monti di Nava. Comunque, sin da quando si incominciò ad avere notizie del luogo, ossia dal mille in poi, Hoe fu sempre e soltanto chiamato e scritto O, Ho, Oe, Ohe, Hoe.

*

Il piccolo comune di Santa Maria Hoe non ebbe parte, fatta qualche eccezione, in avvenimenti importanti. Ed altrettanto ben poco, per non dir nulla, possiamo accertare riguardo alla famiglia signorile che per la prima vi prese dimora, né quando e da chi fu eretto il castello, né a quali vicende andò soggetto.
La stessa famiglia o parentela dei De-Capitani d'Hoe, la più distinta del luogo e di sentimenti guelfi, non sarebbe che un ramo dei De-Capitani di Vimercate venuto a stabilirsi ad Hoe nel secolo XIII, (125) al quale taluni attribuirebbero l'erezione del castello con l'annessa chiesuola di S. Veronica.
In quei tempi Hoe si trovava frazionato in Hoe Superiore ed Inferiore ossia al di là o al di qua del torrente, in Santa Maria Hoe, e molini d'Hoe.
Hoe, Tremonte, Rovagnate, coi rispettivi cascinali costituivano nel 1456 tre comuni uno distinto dall'altro. (126)

*

Sul finire del secolo XIII, oltre la chiesa di S. Veronica presso il castello ce n'era un'altra dedicata a Santa Maria. (127)
Ora avvenne che nei primi anni della seconda metà del secolo XV la comunità di Hoe ed altri compatroni di località vicine presero la decisione di donare all'Ordine dei Servi di Maria la chiesuola di S. Maria con tutte le sue ragioni ad essa spettanti: donazione legalizzata con istrumento del 12 aprile 1456, rogato da Cristoforo Perego notaio in Perego.
Il servizio religioso veniva anteriormente disimpegnato dai rettori di S. Vittore di Brianza, ai quali quei di Hoe pagavano le decime non solo per questo motivo, ma ben anche perché facevano territorialmente parte della vasta parrocchia o rettoria di Brianza. Per cui i rettori di Brianza vollero che a loro, e non ad altri, si continuasse a corrispondere le decime.
Correvano anni piuttosto difficili. I Veneti che nel 1447 da Brivio erano penetrati nel Monte di Brianza saccheggiandolo; le successive fazioni guerresche del 1449-50 nella Brianza da parte di Francesco Sforza per la conquista del ducato contro la Repubblica Ambrosiana e i Veneti alleati, con in più la peste e la scarsità dei raccolti, produssero non poca miseria. Gli stessi soldati dello Sforza si nutrivano per lo più di castagne, rape, fagioli ed altri legumi. (128)
Ciò nonostante i Serviti, sorretti dalla generosità dei fedeli, e secondo i mezzi disponibili, si diedero a sistemare sempre in meglio, sia pure a poco a poco lungo i secoli la chiesa ed il convento, e a migliorare le loro condizioni di vita.
La chiesetta di Santa Maria era molto frequentata dagli abitanti del luogo e dei dintorni, attirati da una miracolosa immagine della Madonna, e vi lasciavano offerte e non tralasciavano talora di beneficarla con lasciti ancor prima che fosse donata ai Serviti.
C'è rimasta memoria di un Bernardo Vergano di Hoe (rogito Giacomino Perego del 17 settembre 1447), e di un Franzino Cereda pure di Hoe (rogito Cristoforo Perego del 27 aprile 1450), i quali non la dimenticarono nelle loro ultime disposizioni. Non saranno certamente mancati altri legati nel corso degli anni precedenti.
In quei tempi era il santuario più venerato del Monte di Brianza: non erano ancora sorti né quello della Madonna di Bevera, né l'altro della Madonna del Bosco.
Vi si teneva fin d'allora lì presso, nella festa patronale, una fiera nella quale soltanto quei di Hoe e di Tremonte, per privilegio ducale sforzesco, godevano il diritto di vendere pane, vino e carne.
Nel 1398 la « capella di Hoe » risulta tassata in lire 3, soldi 7, denari 2. Probabilmente si tratta della chiesa di S. Veronica annessa al castello. (129)
Il Liber Seminari Mediolanensis del 1564, nel quale è registrato quanto si doveva pagare dagli enti ecclesiastici per l'erigendo seminario, S. Veronica d'Hoe è detta rettorìa e non cappella: « Rettorìa de S. Veronica de Hoe de d.no Ioanne Alderico (Aldeghi) lire 20 ». Stando al catalogo, risulta tra le rettorìe più provviste della pieve di Missaglia.
I Servìti erano esenti, e nella loro chiesa vi ebbero poi, lungo il passare degli anni, distinta sepoltura i Perego, i De-Capitani, i Vimercati, gli Aldeghi, ecc.
Ma altri del luogo e dei d'intorni scelsero di esservi sepolti, lasciando a questo scopo legati testamentari. Così un Giacomo Bonfante di Campsirago donava una pezza di terra lavorativa di circa 8 pertiche (29 aprile 1487); un Simone Perego di Rovagnate legava una mezza brenta di vino (1498); un Gaspare Cagliano di Cagliano 3 scudi d'oro per 12 anni (1558), e successivamente altri.
Tra le persone più benefiche verso i padri è da ricordare la signora Diomira Piatti che nel 1676 lasciò loro tutti i suoi beni.

*

Al tempo di S. Carlo presso la chiesa di Santa Maria sembra che si tenessero delle fiere nelle principali festività della Madonna e nel Venerdì Santo. Il santo arcivescovo nella sua visita pastorale dell'agosto 1571 volle tolte tali fiere, e specialmente quella del Venerdì Santo, sotto pena della sospensione dei divini uffici in quei giorni, e ingiunse ai Serviti di guardarsi bene di accomodare bancarelle. (130)
Divieto richiamato nel Sinodo diocesano del 1574, col quale si impose di levare l'abuso di condurre merci e altre cose nel luogo di Santa Maria Hoe nei giorni festivi della Madonna a motivo delle fiere che colà si facevano in detti giorni.
E poiché in quelle occasioni vi accorreva molta gente, che la piccola chiesa non poteva contenere, si era soliti predicare all'aperto. Si volle tolto anche quest'altro abuso, ingiungendo inoltre che nessuno osasse entrare in chiesa e partecipare alle sacre funzioni armato di archibugi o di altre armi.
Nel 1589 vi dimoravano 4 padri, 2 conversi e 2 chierici. I redditi di cui godeva il convento non erano molto pingui, se nel 1674 possedeva un'annua entrata di 613 scudi romani.


Già da tempo i Serviti avevano eretta nella loro chiesa, a maggior bene spirituale dei fedeli, la Confraternita del S. Rosario. Con le annesse indulgenze e privilegi fu poi canonicamente riconosciuta nel 1608 al 30 di ottobre dal padre F. Serafino, Vicario Generale di tutto l'Ordine dei Predicatori.
La festa principale di S. Maria rimaneva tuttavia quella dell'Addolorata ossia dei Sette Dolori di Maria.
Successivamente eseguirono miglioramenti alla chiesa ed al convento.
Nell'esercizio delle loro funzioni giunsero talora ad esorbitare, intaccando certi diritti parrocchiali. Donde lamentele da parte del parroco di Rovagnate. Furono perciò richiamati dalla superiore autorità ecclesiastica a rimanere nei giusti limiti. Inconvenienti che accadevano anche presso altri conventi.

*

Nonostante la vigilanza nel mantenere in buon stato i vecchi fabbricati, il trascorrere del tempo li aveva resi ormai cadenti e insufficienti.
Risolsero pertanto i padri, nel secondo decennio del secolo seguente, di ricostruire innanzitutto la chiesa su più ampio disegno, e l'ebbero pressoché compiuta nel 1718.
Si accinsero quindi a costruire un convento più vasto e comodo. Ma rimasti ben presto senza denaro, nel 1722 ricorsero alla Congregazione dei Vescovi e Regolari onde ottenere licenza di contrarre un prestito di 500 scudi romani, poiché le popolazioni circonvicine non potevano più oltre contribuire.
Correvano ancora anni di depressione economica; se poi fallivano i raccolti per siccità, grandine, ecc., ai contadini non rimaneva che la fame.
La Sacra Congregazione annuì: il prestito fu contratto, ma non bastò. La fabbrica procedé a rilento, e stentatamente ultimata.

*

Nell'ultimo quarto di quel secolo i Serviti brigarono per ottenere una fiera annuale della durata di tre giorni presso il convento, e nello stesso tempo, d'accordo con le vicine comunità, un mercato settimanale centrale in Santa Maria Hoe, il quale se da una parte riusciva a bene del Pubblico, dall'altra non lo era meno per i frati in quanto non sarebbero mancate persone venute al mercato che avrebbero visitata la chiesa-santuario del convento, e lasciate offerte alla molto venerata effige della Madonna Addolorata.
Il 18 gennaio del 1784 il priore Ambrogio Ghioldi inoltrava istanza all'autorità civile per la fiera, e nel successivo luglio appoggiava la domanda dei Deputati dell'Estimo per il mercato. (131)
Le pratiche sortirono esito favorevole, e tutto fu concesso con decreto del 16 agosto.
Con avviso a stampa del 1 settembre 1784 si annunciò che essendosi degnata S. A. R. di accordare ai Reverendi Padri dei Servi di Santa Maria Ohe di poter fare annualmente una fiera sul piazzale della loro chiesa nel giorno di S. Matteo (qualora non cada in domenica) e nei successivi due giorni, come pure ai Deputati dell'Estimo di varie comunità circonvicine di potere settimanalmente fare nel giorno di mercoledì un mercato, e ciò coll'effetto di promuovere sempre più il commercio in favore dei terrieri; si dà quindi l'avviso al Pubblico che nel giorno 21 corrente mese si darà principio alla detta fiera, e continuerà per altri due giorni, ed indi il giorno di mercoledì che sarà il 26 del prossimo ottobre incomincerà il mercato di ciascuna settimana ecc.
Per l'uso a mercato del piazzale antistante alla chiesa, riconosciuto di proprietà dei Padri, la comunità di Santa Maria Hoe doveva annualmente versare settanta scudi al convento.
Fiera e mercato che, press'a poco, durano tuttora. Ma ben diversi dai loro lontani primordi! ... Allora vi primeggiavano prodotti di una povera economia casalinga e terriera: tessuti grossolani, ferraglie rozze ecc.; granaglie, pollame, uova, formaggini, stracchini, burro ecc.; castagne, frutta, verdure, ecc. Non mancava chi vendeva carne di pecora macellata e pane. L'allevare più o meno delle pecore, era molto in uso allora fra gli agricoltori. Il convento stesso teneva un proprio gregge per ricavarne lana e carne. Oggi vi predominano sul mercato mercanzie lavorate in aziende industriali sia per le confezioni che per gli alimentari: il tutto più raffinato, più vario e piacevole. Segni di un miglior benessere famigliare e sociale.
Nove erano i religiosi residenti nel 1780. Ma il loro numero non fu sempre eguale.
Nel 1783 si ha che il convento possedeva in Hoe e Tremonte 125 pertiche di terreno; in Rovagnate 345; in Cagliano 6; in Cologna 44.
In tutto pertiche 520, delle quali 175 a ronco, le altre a campi aratorii, boschi, ecc. (132)

*

Ma per pochi anni godettero i padri il loro nuovo convento, poiché con decreto della Cisalpina del 10 luglio 1798 furono soppressi con un annua pensione ai padri di lire 600, e lire 400 ai conversi o lire 500 a chi oltrepassava i cinquant'anni. I loro beni furono venduti a privati.
La chiesa fu acquistata da un Giuseppe De Capitani coll'intenzione, a quanto pare, di mantenerla ad uso della popolazione.
È rimasta la tradizione che il padre maestro Covi, bresciano, al momento della soppressione, riuscì ad asportare, oltre denaro e preziosi che divise con altri confratelli, molte carte dell'archivio che finirono poi disperse. Il Covi si ritirò al Bùttero in parrocchia di Calco, non occupandosi che di uccellagione e là vi rimase fino alla morte.
I Serviti soggiornarono ad Hoe tre secoli e mezzo circa, dediti a far del bene in luogo e nelle parrocchie dei dintorni. Durante la calamitosa peste del 1630, di manzoniana memoria, si distinsero nella caritatevole assistenza agli appestati, lasciando grato ricordo.
*

Il padre Leonetto Clavone, Delegato da S. Carlo nella sua visita alla Pieve di Missaglia nel 1567, aveva tra l'altro suggerito di erigere un'altra parrocchia a Tremonte, e questo probabilmente perché a S. Maria Hoe vi erano già i Serviti, distaccandola da quella di Brianza, date le non facili comunicazioni.
Fu pure divisamento di S. Carlo lo smembramento in più parrocchie della vasta matrice di S. Vittore di Brianza. Ma chi lo condusse a termine fu il card. Federico Borromeo come si è già accennato.
Per mezzo del visitatore Delegato Mons.r Cesare Pezzano il 6 ottobre, dopo aver eretto le parrocchie di Brianzola e Giovenzana, se ne venne a Tremonte e riunì gli anziani del luogo e di Albosco davanti alla Chiesa di s.ta Veronica in Tremonte. (133)
Agli adunati presentò la proposta di unirsi alla vicina e comoda parrocchia di Rovagnate, poiché sembrava migliore soluzione che non erigere una nuova parrocchia.
La proposta fu accettata ma a queste condizioni:
1° che il parroco di Rovagnate in un giorno della settimana maggiore (uno die hebdomadae maioris) venisse in S. Veronica ad amministrare il sacramento della Penitenza e dell'Eucaristia agli abitanti, come per il passato fu sempre fatto dal parroco di Brianza; 2° che fosse rimosso l'attuale parroco titolare della parrocchia di Rovagnate don Giuseppe Cereda; 3° che si continuasse, come nel passato, a celebrare in S. Veronica una messa nelle feste di precetto dal cappellano titolare di detta Chiesa sia prima che dopo la messa parrocchiale di Rovagnate.
E di tutto venne steso regolare istrumento.
Due anni dopo, ben appianate e sistemate le cose, Tremonte, Albosco, Hoe, Santa Maria Hoe e altri cascinali furono definitivamente aggregati alla parrocchia di Rovagnate.
Finalmente dopo oltre trecent'anni di unione, cambiati in meglio i tempi, l'arcivescovo card. Ferrari nel 1914 mise in esecuzione il suggerimento del Leonetto, concedendo che si fondasse la parrocchia di Santa Maria Hoe. I Serviti erano ormai scomparsi da molti anni: la loro bella Chiesa ne divenne la parrocchiale con annessa la casa d'abitazione per il parroco.
Distrutto il castello, a ricordare gli antichi De Capitani d'Hoe non resta che l'annessa vetusta chiesuola di S. Veronica, il cui beneficio fu dal governo soppresso nel 1867.
Su di un territorio di 272 ettari, in gran parte a ronco e a bosco, gli abitanti sorpassano ormai il migliaio. Il paesello poi si presenta ben messo e accogliente.
La valle di Rovagnate, (134) di cui fa parte Santa Maria Hoe, benché attraversata per il lungo dalla strada provinciale Como-Bergamo, è rimasta industrialmente alquanto in arretrato, così che mentre gli anziani continuano come nel passato con dura e aleatoria fatica a coltivare i campicelli collinari, i giovani se ne vanno a lavorare nei centri industriali portando in famiglia una sicura busta paga.
Non è certamente un bene la mancanza di industrie che possano occupare in luogo la mano d'opera locale, ma d'altra parte non è forse nemmeno un gran male, poiché la valle e i dintorni dall'aria salubre hanno potuto conservare un ambiente residenziale di quiete e di riposo.
Continua a rimanere, col suo tipico paesaggio non ancora gran che sciupato, un angolo che ci richiama la Brianza di un tempo.

* * * * * *

Il Monastero di Santa Maria in Lambrugo

Alle porte del Pian d'Erba, lungo la ferrovia Milano-Erba-Asso, s'incontra l'ameno paesello di Lambrugo, il quale ha lasciato memoria di sé nel passato per l'antico monastero di Benedettine dedicato a S. Maria, eretto in basso nel gruppo delle case costituenti il vecchio Lambrugo.
Chiesa e cenobio sorgevano a poca distanza dalla strada maggiore dell'abitato, lungo il ciglio che scende verso la valle del Lambro, sopra una vasta area a giardino e a frutteto, recinto d'ogni intorno d'alta muraglia, quale si addiceva ad una casa conventuale di clausura. (135)
Nelle più antiche carte, ed ancora nel secolo XV, il monastero è detto semplicemente « de Sancta Maria de Lambrugo ». L'aggiunta specifica di « Assunta » è dei secoli posteriori.
Da una relazione dell'anno 1786 di Mons. Giuseppe de Rosales, canonico della metropolitana e vicario generale delle monache di clausura, mandata al Reale Governo di Milano in obbedienza dei sovrani comandi, si ha che il sacerdote Domenico Ghigonio, maceconico della metropolitana e procuratore del monastero di Lambrugo, aveva da diligente archivista raccolte e ordinate le carte superstiti del monastero, compilandone infine un breve riassunto di notizie.
Orbene, in questa relazione, dopo essersi lamentata la perdita di quasi tutti gli antichi documenti, è scritto: « Ecco nondimeno ciò che ne dice se non autentico scritto, almeno una non disprezzabile tradizione appoggiata o a carte volanti o alla testimonianza di chi più visse e che dalle più antiche monache di mano in mano andò ricevendo le prime relazioni. La fondazione di questo monastero può riportarsi all'anno 1047 ».
L'erezione e la rispettiva dotazione di beni venne fatta, sempre secondo la sopradetta relazione, dai signori de Carcano, allora residenti in Alserio. Fu di poi posto sotto l'immediata protezione della Santa Sede, e perciò versava l'annuo tributo di 12 denari, come risulta dal registro di Cencio, Camerario pontificio, sotto l'anno 1192.

*

Nel 1348 con l'arcivescovo di Milano Giovanni Visconti le monache passarono ad una permuta con la mensa arcivescovile di beni situati in territorio di Gropello e di altri paesi vicini (Inzago, Vaprio, Pozzo, ecc.) ricevendone in cambio altri beni in territorio di Inverigo.
E' noto che Gropello divenne luogo di villeggiatura degli arcivescovi di Milano.(136)
Il monastero fruiva fin d'allora di sufficienti entrate patrimoniali, se verso la fine di quel secolo, e precisamente nel 1398, gli fu accertato un estimo di lire 13, somma a quei tempi non disprezzabile.
Ma alla discreta situazione economica non vi corrispondeva una regolare vita monastica, come portava la decadenza religiosa di quei tempi.
Da un contratto di locazione del 1407 non vi dimoravano che la badessa con una sola monaca, costituenti tutto il capitolo come si legge in quell'atto.

*

Nel primo decennio della secondà metà del secolo XV corse grave pericolo di essere soppresso.
Nel giugno del 1455 Gabriele Sforza, arcivescovo di Milano e già monaco e maestro agostiniano, intraprese la visita pastorale della pieve d'Incino. Il 19 luglio visitò il monastero di Lambrugo, ma con animo poco benevolo, a quanto pare, come si può intuire dalla definitiva deliberazione presa a favore degli Agostiniani, forse non del tutto estranei alla faccenda. Se il monastero in quel tempo non era tra i migliori riguardo alla disciplina monastica, non era nemmeno tra i peggiori.
Iniziò la sua visita col sottoporre quelle monache ad una inquisizione minuta e severa.
Vi dimoravano allora tre sole monache compresa la badessa Enrica Nava confermata tre anni prima con autorità apostolica. Era successa alla defunta Margherita Nava. Recitavano alle ore debite l'officio ambrosiano monastico. Non avevano regola scritta. Vivevano in comune, ma dormivano in celle separate non avendo luogo adatto. Mangiavano carne, (137) e dormivano in letti di piuma. (138)
Loro confessore era il prete Arnoldo rettore della chiesa di Santa Maria in Masnaga: si confessavano una volta al mese e tutte le volte si comunicavano. Al sacerdote davano dieci fiorini all'anno per la celebrazione di due messe settimanali nella chiesa del monastero.
Oltre l'Avvento (e la Quaresima) digiunavano il mercoledì e il venerdì d'ogni settimana usando solo cibi quaresimali.
Godevano di un reddito annuo in granaglia dalle 50 alle 60 moggia, e di tre o quattro plaustri di vino. (139)
Il monastero mancava di una vera clausura (come più o meno in tutti i monasteri di allora), ma le monache si dissero pronte a ricevere e ad osservare norme più severe di clausura.
L'arcivescovo si limitò ad imporre loro di non più ricevere né professe né novizie sotto pena di scomunica. (140)
Due anni dopo soppresse con formale decreto il monastero, aggiudicandolo con tutti i suoi beni agli Agostiniani di Santa Maria Incoronata di Milano, e trasferendo le monache in altri monasteri di Milano.
La badessa tre giorni dopo, con regolare istrumento, riìunciò nelle mani dell'arcivescovo la sua carica ed ogni diritto di cui era investita, riservandosi però l'usufrutto vitalizio delle possessioni di Inverigo e di Farota. (141).

*

Ma né la rinuncia né la soppressione sortirono il loro effetto.
A Novara dimoravano allora i discendenti diretti dei fondatori del monastero. Le monache li informarono della loro triste situazione. I Carcano fecero senz'altro legale opposizione, accampando il diritto di patronato e di devoluzione ad essi dei beni del monastero, qualora lo si volesse sopprimere e convertire ad altro scopo che non fosse quello dichiarato nella fondazione.
L'arcivescovo dovette desistere dal suo proposito, e i Carcano furono pronti a ridonare ciò che avevano preteso senza intenzione di arricchirsene, ma solo per impedire che non rimanesse delusa la volontà dei testatori.
Tuttavia, quasi a confermare almeno una volta tanto il loro diritto di patronato, vi trasferirono una religiosa di loro famiglia, la quale divenne poi badessa.
Con la morte dell'arcivescovo, avvenuta il 12 settembre di quell'anno stesso (1457), le cose si appianarono completamente, e tutto fu lasciato come prima. Rica Nava riprese la sua carica, poiché da un atto del 1461 risulta ancora badessa. Deve essere morta verso il 1468.
Fu eletta al seggio abbaziale la monaca Agostina de Maneris (Mauri), ma in forte contrasto con Cecilia Carcano, finché ritenne opportuno rinunciare in favore della Carcano, come appare da una lettera ducale del 31 ottobre 1468 diretta all'ambasciatore Agostino Rossi a Roma: « È stata grande controversia tra Madona Augustina de Maneris et Madona Cecilia da Carcano per casone del Abbatissato del Monastero de Lambrugo Mediolanensis diocesis. Et licet dicta Madona Augustina sia stata ala possessione de quello Abbatissato fin al presente, tamen ad persuasione de amici è rimasta contenta de renuntiarlo ad fine chel rimanga la dicta Madona Cecilia. Et per questo pare chel habia facto opportuno mantenimento ad resignar esso abbatissato in mane del Sancto Padre ». (142)
Fu quindi badessa Cecilia de Carcano, la religiosa ivi trasferita dai Carcano e ricevette la benedizione abbaziale a Milano il 12 febbraio 1469 nella chiesa del Monastero del Bocchetto per le mani del Vescovo Ausiliare. (143). Gli Annali del monastero lodano assai la Madre Cecilia e tacciono (“Ah Agnese!" direbbe il Manzoni) della citata contesa per il trono abaziale. I Carcano esercitarono nessun'altra azione di patronato sul monastero. Continuarono nondimeno per un certo tempo a collocarvi religiose della loro casata. Gli Annali citati dicono che tenne il governo abbaziale per 42 anni e diede mano a non pochi miglioramenti. Riedificò il monastero e « fece ridurre le case ch'erano ruinate per le guerre che longamente erano durate, et dopo molte vigilie, incredibili fatiche, e stenti si longhi, passò a miglior vita l'anno 1511 per ricevere il premio dal suo signore et sposo, havendo prima ricevuto alla religione l'infrascritte figliole ». Segue anno per anno l'elenco delle religiose entrate in monastero durante il tempo che fu badessa.
Stando agli Annali fu la stessa badessa Cecilia Carcano che, « desiderando maggior progresso del Monastero in bontà e virtù procurò l'anno 1510 un'ordinazione apostolica », per la quale venne ridotta a tre anni la carica abbaziale.

*

Il pontefice Giulio II nel 1510 abolì infatti la carica a vita di badessa, riducendola ad un triennio, con la facoltà che la stessa persona potesse venire rieletta per un altro triennio, ma non di più. Concesse inoltre di eleggersi un confessore e un cappellano, e vi decretò altre provvidenze opportune per favorire la buona disciplina.
Per lo più, prima di S. Carlo, i monasteri non avevano per la loro direzione spirituale un confessore stabile o sacerdote proprio; l'assistenza veniva loro prestata dai rettori delle chiese vicine, i quali vi celebravano due o tre volte la settimana e confessavano o comunicavano le monache in dati giorni e circostanze.
Altrettanto per l'andamento economico e amministrativo. Fu con S. Carlo che si istituì in ogni monastero una commissione di vigilanza composta di competenti amministratori fra i quali il vicario foraneo vi partecipava di diritto.
Gli Annali dicono che in forza della Costituzione di Giulio Il la badessa Carcano il 24 maggio 1511 rinunciò alla sua carica, tenuta per 42 anni e quasi 5 mesi, ed il giorno 25 fu eletta badessa Donna Paola di Lavizari al secolo Giovanna Lavizari, entrata in monastero nel 1470. La nuova badessa tenne l'officio per tre anni, quindi fu eletta Donna Liberata Peregrini, la quale fu poi confermata per un secondo triennio, così che depose la carica nel 1520.
Un fattaccio di Cronaca nera deve essere successo nel 1533 poiché leggiamo: « 1532 il 25 maggio fu eletta in Madre Abbadessa Donna Maura Carpana et priora D. Faustina con le altre seniore, qual Donna Maura perseverò nel governo se non mesi quindici per essere stata chiamata da N. S. a miglior vita il 24 agosto de l'anno 1533». In una nota marginale scritta dalla stessa mano si legge: « Là detta madre fu amazata nel 1533, non sendo ancora la clausura. Scritto sua morte diffusa nel Libro vecchio a foglio 63 ».
Purtroppo « il Libro Vecchio » non è reperibile e non sappiamo per quale motivo (rapina, passione, invidia ecc.) la badessa Maura fu uccisa.

*


Nel giugno del 1527 Gian Giacomo De Medici, il celebre castellano di Musso, si era impadronito del castello di Monguzzo, facendolo centro delle sue scorrerie su gran parte della Brianza: dominio che durò fino al 1531. Vi pose a guardia, per il momento, il fratello Battista con una forte guarnigione, e gli diede ordine di tosto approvvigionarlo e di porlo in assetto di difesa, perché il De Leyva non avrebbe tralasciato di mandare milizie a riprenderlo, come infatti spedì il Belgioioso il quale fu respinto con gravi perdite.
Alle violenti requisizioni in Monguzzo e nei villaggi circostanti per largo raggio non sfuggì nemmeno il nostro monastero.
Fu un susseguirsi di requisizioni e senza alcun compenso.
Le monache si trovarono costrette a consegnare di tanto in tanto pane, vino, frumento; a racconciare gli abiti dei soldati; a vedersi danneggiate nei loro fondi con tagli di biade immature per pascere i cavalli, col rapimento di bestiame ai loro coloni, per guasti recati alle case e ai molini di Camisasca, ecc. Peggio ancora dovettero alloggiare e nutrire nel monastero cento soldati per quattro giorni, ed altra volta trecento, ed infine un totale saccheggio del monastero e della chiesa da parte delle truppe mercenarie svizzere del Medici in fuga dopo, la sconfitta di Carate. (144)
Fu appunto in quest'ultima circostanza che fu manomesso anche l'archivio, e le antiche carte pressoché tutte disperse o distrutte.
Non sappiamo se le monache nei brutti momenti riparassero altrove o rimanessero nel cenobio, e nemmeno se subissero violenze da quei soldati di ventura, i quali, ad ogni modo, non avranno certamente insegnato la modestia a quelle religiose.
Questi incresciosi avvenimenti dovevano, con tutta probabilità, essere presenti alla memoria di S. Carlo, nipote di Gian Giacomo e di Battista, quando prese la decisione di trasferire in Milano il nostro ed altri monasteri brianzoli.
Papa Pio IV, fratello del Medeghino, aveva con disposizione testamentaria lasciato dei beni all'Ospedale Maggiore di Milano coll'obbligo di risarcire i danni recati dal castellano a diversi in Monguzzo e nei dintorni. Il risarcimento, si legge in una carta del monastero, si ridusse per le monache a qualche somma di denaro: ben poca cosa in realtà.

*
Ripreso dal duca Francesco Il Sforza, dopo lungo assedio, il castello di Monguzzo, Gian Giacomo De Medici si ritirò a battagliare sul Lago di Como.
Il monastero prese man mano a riprendersi, continuando altresì a godere parecchie immunità ed esenzioni concesse dagli Sforza e dal successivo governo di Spagna.

*

Usando della sopra citata concessione fatta da Giulio Il nel 1510, le monache nel 1557 elessero a loro cappellano e confessore il milanese Atlante Ghedi, sacerdote fornito di zelo, di dottrina e di buone qualità amministrative, già cappellano presso l'abbazia commendataria di S. Calocero in Civate. (145)
L'Ormaneto lo ebbe in stima e si valse più volte dell'opera sua. (146)
Verso il 1540, essendo badessa Faustina Sola, a spese e a devozione delle monache era stata eretta in Farota la chiesuola di S. Pietro, di poi col tempo ampliata e dedicata a S. Carlo. Oggi è scomparsa e ridotta ad oratorio maschile, con la piazzetta antistante dedicata a Giancarlo e Giorgio Puecher.
Rimaneva da ricostruire l'insufficiente e cadente vecchio monastero.
In quest'opera rifulse lo zelo e la capacità del Ghedi. Vi sopraintese in modo che in pochi anni il monastero fu ampliato con due ordini di portici come portava il gusto d'arte del tempo, dotato di ampio dormitorio e refettorio, con foresteria separata, e con bene intesa distribuzione di locali a diversi usi, curando nel suo complesso quanto era necessario per lo svolgimento di una regolare vita di clausura monastica.
Miglioramenti ebbe pure la chiesa del monastero. Nel 1569 vi si eresse il battistero. Di questo tempo è pure il campanile quadrangolare.
Dagli Annali risulta che tra gli anni 1590-1593 la badessa Margherita Carpana «condusse in casa l'acqua della fontana, che è in mezzo al chiostro e ad altri luoghi necessarii, ampliò la fabbrica del Monastero verso la parte di mezzogiorno ove è il lavorerio et la scala maggiore, terminò alcune liti che già da lungo tempo quasi tarme consumavano il monasterio et quello che più importa accrebbe grandemente il numero di soggetti accettando molte monache ».
Cinque anni dopo si costruì l'organo che fu collocato nella chiesa interiore che serviva alle monache, mentre la parte esteriore era per i secolari. La chiesa, stando ad una affermazione del Ghedi, sarebbe stata consacrata il 2 settembre 1518.
Il Ghedi esercitava la cura d'anime, usando la parte destinata al pubblico della chiesa e l'esercitava, come più volte si ripete nei documenti, gratis et amore Dei. Ben poca, per non dire nulla, la corrispondenza da parte della popolazione. Scrivendo all'arcivescovo verso la fine di luglio del 1574 (pochi mesi dopo la visita pastorale di S. Carlo) il Ghedi afferma: « La scuola della vita cristiana gli fu datto principio alli 30 di maggio et s'é perseverato forsi doi mesi. Venendo agli huomini et alle donne, putti et putte, io non ho mancato di trovarmi in chiesa ogni festa et star là le tre et quatro hore di longo, ma loro si sono tanto alentati et retirati al tutto che lasciano ben sonare la campanna et star il prete in chiesa che non vogliono comparire niuno che siano. Io più volte gli ho detto et esortati che volessero venire da parte de Mons. Ill.mo et che de suoi diporti gli voleva far relatione, ma per questo non han mai voluto dare audientia ne far segno di emendatione.
Della scuola del S.mo Sacramento ne ho fatto più volte esortatione, ma per dir la verità, hanno così puoca cognitione et divotione che non vogliono a pena aspettar che finisca messa che si partono, né manco vogliono sottoporsi di confessarsi ogni mese. Si che non so che fare ne che dire et desidero che si proveda ». (147)
La cura d'anime verso la quale D. Ghedi si sentiva così portato gli procurò noie e gravi dispiaceri.
Scrivono infatti le monache in un loro Memoriale: « Se intrigò di sua carità a tener conto anco delle anime della terra et questo gratis tanto al Monastero come alli vicini, et pur benemerito di tanta carità, querellato da usurpatore di indovuta autorità da i gentilhometti et da villani et villane beffeggiato et schernito così che si tien che morisse di cordoglio, stando la persona di tanto honore fama et integrità et preggio per le sue rare qualità et sufficentia.
Et per questo maltrattamento, non comportaremo mai più che nostri Preti servano a questa ingrata gente ateso che lor stessi han procurato la privatione di questo gratioso beneficio et tutavie se ne vano più rendendo indegni ». (148)
Il 22 aprile 1574 S. Carlo giungeva in Visita Pastorale a Lambrugo, e il Ghedi, che da tempo meditava di erigere in parrocchia la chiesa delle monache, e con questa intenzione aveva già esercitato qualche atto di giurisdizione parrocchiale, ne fece passare parola al cardinale. Ma S. Carlo, pur riconoscendo l'utilità di erigere una parrocchia in luogo con le circostanti cascine, non ritenne conveniente la cosa. Volle invece che fosse assegnato a questo scopo l'oratorio di S. Pietro.
Partito il cardinale, il Ghedi visto tramontare il suo disegno insinuò alle monache, le quali si trovavano a corto di denaro avendo già dovuto alienare dei beni sia per sopperire ai danni cagionati dal Medici e sia per la ricostruzione del monastero, di supplicare l'arcivescovo a sollevarle dal peso di sistemare a parrocchiale l'oratorio di S. Pietro. Come infatti ottennero.
La questione che si trascinò per tanto tempo fu quella dell'onere del mantenimento del parroco, senza del quale non era possibile costituire una parrocchia. Il popolo continuava a sostenere che toccava al monastero, ed il monastero, rispondeva che « Nullis certis, non dicam monumentis, sed nec indiciis quidem appareat curam ad Monasterium pertinuisse ». (149)
Quanto poi aveva fatto il Ghedi, l'aveva sempre fatto di sua iniziativa, gratuitamente. La questione però si ripeterà ad ogni Visita Pastorale. Nella minuta della Visita del 1569 compiuta dal Prevosto di Desio, Bernardo Cermenati, è detto: «Curatus est R. presbiter Atlas confessor monialium et ab ipsis ellectus quia ut dicitur parrocchia est unita monasterio ab annis quatuor centum vel circa, quod incontrario non est». (150)
Ma non erano che ciarle, e perciò respinte dalle monache.
Per la cura d'anime S. Carlo, come si legge negli Atti della Visita Pastorale
dell'arcivescovo Gaspare Visconti che visitò Lambrugo il 20 luglio 1596, aveva
dapprima imposto che le monache ampliassero la chiesetta di S. Pietro, vi
preparassero una casa per un prete e lo mantenessero quale parroco di Lambrugo; se invece le monache fossero state trasferite altrove, la chiesa, delle monache sarebbe divenuta la parrocchiale.
Al parroco dovevano corrispondere uno stipendio di 60 monete d'oro all'anno. (151)
L'arcivescovo Gaspare Visconti constatò che il decreto di S. Carlo per il mantenimento del parroco da parte del monastero non era osservato, e perciò ordinò che la popolazione intentasse causa al monastero (agat populus contra moniales si quid habet ad hoc ut cogantur ad dictum parochum substinendum, aliter populus ipse provideat de parocho et illum suis expensis substineat).
Nel 1615 il Card. Federico Borromeo. trovò che la questione era ancora pendente: « Quamvis S. Carolus in sua personali visitatione anni 1574 decreverit R. R. Abbatissam et Moniales... teneri augere ecclesiam S. Petri dicti loci ut in eadem possit cura animarum exerceri ac tradere stipendium competens Vicario perpetuo qui celebret atque curam animarum gerat, clericumque sustentare... hucusque tamen profuerunt nihil ordinationes Sancti Praesulis ». Il Vicario Generale omni juris ratione costringa le monache all'osservanza dei decreti del Santo, e per il momento gli abitanti al di qua del Lambro siano curati dal parroco di Monguzzo, che può servirsi come di chiesa parrocchiale dell'oratorio eretto in onore di S. Carlo.
L'oratorio è detto di recente edificato « nuper aedificato»: (152) doveva trattarsi del precedente oratorio di S. Pietro ricostruito più ampio, e dedicato a S. Carlo canonizzato nel 1610. Dalla visita pastorale del card. Federico Visconti sappiamo che misurava 30 cubiti in lunghezza e 15 in larghezza. (153)
Nulla di fatto si concluse; poiché le monache seppero far valere le loro ragioni in contrario, e Lambrugo continuò a rimanere unito parrocchialmente a Lurago.
Tra gli ordini di questo arcivescovo alle monache di Lambrugo vi è quello di non trafficare in seta.
Dopo tanto inutile discutere, la parrocchia finì coll'essere eretta finalmente, dopo
molti anni, dal card. Ferrari, arcivescovo di Milano, con decreto del 4 gennaio 1902, distaccandola da quella di Lurago.

*

Il monastero, sotto la guida del Ghedi, era tutto intento a sistemarsi sempre in meglio, quando nel 1578 si trovò colpito da un grave provvedimento che portava alla sua estinzione.
S. Carlo aveva preso la decisione, come già altrove si è detto, di trasferire a Milano le benedettine di Lambrugo, Brugora, Cremella e Bernaga. (154)
Si opposero quelle religiose, non ritenendo ad esse applicabili i relativi decreti del Concilio di Trento, e per mezzo dei loro procuratori ricorsero alla Curia Romana.
La vertenza durò a lungo; e se da una parte rifulse la tenacia di S. Carlo per raggiungere il suo scopo, dall'altra si ebbe una non meno tenace ostinazione di ripulsa da parte del nostro e degli altri monasteri insieme collegatisi nel comune pericolo.
Riuscirono infatti ad ottenere nel 1580 da Gregorio XIII di rimanere nei rispettivi luoghi e ai monasteri di Lambrugo e di Brugora di rivendere allo stesso prezzo lo stabile acquistato in Milano. Restava tuttavia la proibizione di professare nuove religiose. E su questo punto S. Carlo tenne duro, per cui la causa continuò con immutato ardore. Se non si otteneva l'abrogazione sarebbero finiti per esaurimento.
In questa seconda fase, morto nel 1582 il Ghedi, entra in scena per Lambrugo il barnabita padre Carlo Bascapé, (155) scelto da quelle religiose a loro spirituale consigliere, il quale scrisse loro più volte, e più volte le visitò personalmente.
Cercò egli di indurle ad assecondare la volontà dell'arcivescovo « legittimo et canonico et santo che è di più », e, tra l'altro, in una lunga lettera del 26 settembre 1584 insistette in modo particolare presentando a sostegno le più sante ragioni.
Da questa insistenza si intuisce il fine a cui mirava: rompere il fronte unico dei quattro monasteri. La resa del monastero di Lambrugo, avrebbe facilitata quella degli altri col diminuirne la forza di resistenza.
Sembra che il Bascapé riuscisse a persuaderle al duro sacrificio, tranne una sola, come si afferma in questa e in altra lettera del 31 ottobre 1585, la quale rimaneva ostinatamente contraria. (156)
Ma ritengo che ce ne doveva essere più d'una, se il fatto diede origine ad una grave scissione fra quelle religiose.
Probabilmente quell'unica ostinatamente contraria era la caporiona del partito opposto.
La pillola era troppo amara perché tutte si sentissero di inghiottirla. Infatti in una postilla, alla lettera del 1584, di mano ignota si osservava, pur domandando perdono se avesse sbagliato, di non poter convenire con quanto suggeriva il Bascapé, perché la loro non era ostinazione, ma doveroso obbligo di essere prudenti e considerate, come lo devono essere coloro che governano.
Bisognava perciò, continua l'annotatrice, ben considerare dove si volesse condurre e ben sistemare un gregge di 40 persone; e come reperire i mezzi per acquistare un luogo adatto: « ch'io li dico non saprei dove prendere 50 scudi se non si vendesse la proprietà del sostentarsi », ossia i beni dai quali traevano di che vivere. Beni inoltre, difficilmente alienabili in modo conveniente, com'era avvenuto altra volta allorquando l'arcivescovo impose loro la compera di un altro monastero in Milano: non si era trovato alcuno che volesse comperarli.
Sicché per questo ed altri motivi era da ritenersi soluzione praticamente migliore il rimanere e continuare a professar monache nel luogo dove già si trovavano.
La postillatrice, con finezza monacale, concludeva affermando di trovarsi in gran tormento non volendo essere ribelle e pregava di soccorrerla perché lui sapeva come stavano le cose in verità, e finiva col dire: « Habiamo anchora gran fede ci debe essere favorevole epso Monsig.r lll.mo in farli vedere la verità se li è colpa nostra o nò, et se ci debono compatire o nò, perché possiamo ben dire come dise il popolo di Egitto a Gioseph, la salute nostra è nelle vostre mane: la vostra misericordia guarda sopra di noi: noi non cerchiamo aiuto da niuna banda che dal Sig.r et da le sue carità havendo escluso li alti favor; et questo ne da uno pochino di respiro in Dio ».
Il Bascapé non raggiunse il suo intento, poiché non solo le monache non si mossero né allora né dopo da Lambrugo, ma nemmeno si ritrassero dalla causa in corso presso la Curia Romana, la quale continuò ininterrotta per ottenere di professare nuove monache, finché i quattro monasteri ebbero partita vinta dalla Sacra Congregazione nel 1587, e relativa conferma pontificia nell'anno seguente.
Già nell'ultimo di febbraio del 1588, Mons. Paolo Salodio, canonico del Duomo di Milano, insieme con Mons. Gabrio Biumi, procedettero alla cerimonia di vestizione di nuove monache, cerimonia da anni sospesa per la causa pendente: «Benedicatur Deus per secula perhennia », conclude la monaca annalista (Annali, 63 v.).

*

Il Ghedi fu veramente benemerito del monastero. Non dubitò, tra l'altro, di recarsi anche a Roma a perorarne la causa. Si spense nell'età di 70 anni il 19 aprile 1582, beneficando il monastero con disposizione testamentaria in suo favore, del 29 agosto 1571, presso il notaio Benedetto Amati di Oggiono.
Fu sepolto nella chiesa delle monache con questa iscrizione:
Hic situs est
Reverendus D. Presbiter Atlas Ghedus
Moribus vitaque probatus. Rector et confessor
per annos 25. Qui Monasterium hoc
sacrum. varia. magnificaque structura
auxit et ornavit. Obiit annos natus 70
19 aprilis 1582.

Il Ghedi tenne l'ufficio di confessore fino alla fine di maggio 1579. Da parecchie sue lettere (157) si rileva che già fin dal 1570 si trovava malandato in salute. Era stato inoltre più volte incaricato di dare aiuto spirituale alle monache del monastero di Cremella. (158)
*

Il monastero col passare degli anni veniva assestandosi sempre in meglio.
Al tempo del Cardinal Federico Borromeo le monache godettero tranquillità, e l'arcivescovo le visitò più volte. La prima volta fu il 18 agosto 1604, alla quale ne seguirono altre nel 1606 e nel 1609. La più affettuosa fu quella del 20 maggio 1623 in cui il Cardinale « donò di sua spontanea volontà un fiore naturale a tutte, e ci benedì tutte le nostre corone, imponendo alla Madre Abbadessa che la stessa sera in Refettorio et dopo l'esame di coscienza ci desse di nove da parte sua la Benedizione et la seguente matina al Pranzo ci fece dare sopra l'ordinaria porzione un regalio di più che fu una tagliata di persuto con dire questa ce lo da il nostro signor Cardinale, in soma ne fecce molte careze con nostro gran gusto et contento ». Ritornò il sabato 22 giugno 1624. Celebrò la S. Messa, poi esaminò ad una ad una le monache « et a molte diede un fiore naturale co' benedizione particolare conforme i lor bisogni temporali cioè corporali e spirituali ». La domenica 23 celebrò ancora per le monache e usò i paramenti stessi del monastero, comunicò tutte le suore « con suo et nostro grandissimo gusto et contento », e dopo la Messa le radunò in parlatorio e diede loro « molti ammaestramenti per vincere et superare le tentationi ».
Nel pomeriggio andò di nuovo a visitarle e ad ammaestrarle. Importante in questa visita è l'ordine, od almeno il permesso, dato di « largarci dentro la clausura del giardino havendo lui in propria persona visitato et desegnato il terreno che vole si tira dentro, co' dire che per ogni modo voleva che le sue figliole havessero esito di poter andare a ricreatione et starsene allegre per meglio servire al suo Celeste Sposo, et lasciò questo ordine in scritto di suo proprio pugno ».
Un'altra visita del Card. Federico Borromeo avvenne il sabato 23 settembre 1628 e vi rimase fino a lunedì: ogni giorno celebrò e distribuì la S. Comunione alle monache. Tenne anche discorsi: il primo ebbe come oggetto il testo di S. Paolo: Caritas patiens et benigna est. Il secondo discorso (uno al giorno) fu il commento al versetto di un salmo: Posui ori meo custodiam. « Ci ammaestrò a custodire la lingua per la quale risulta tutto il danno dell'anima nostra » commenta la cronista.
La morte del pio Card.Federico avvenuta il 21 settembre 1631 è così descritta dalla cronista: « L'illustrissimo signor cardinale Borromeo doppo la fatica del governo della chiesa di Milano per spacio de anni 36 finalmente è morto il dì et anno sopra detto havendo con tanto spirito et zelo della salutte delle anime governato detta chiesa, né mi pare di dover pasar con silenzio la liberalità et grande carità verso le sue pecorelle massime nel tempo della grande calestria et pestilenza che ben si po' con verità dire che abbi seguito le peddate di Carlo Santo et in soma à lasciato chiaro indicio di santità di vitta sì che si spera col favor di Dio et sua intercessione impetrar delle gratie et noi in particolare per essere da questa anima santa molto amate et molte molte volte à havutto a dire che eravamo la pupilla de soi hoccbi ».
Il 24 maggio 1640 il monastero accolse il card. Cesare Monti in visita pastorale. La gente di Lambrugo aveva riferito all'arcivescovo che le monache erano tenute a far esercitare la cura d'anime nella chiesa di S. Pietro. Visitata detta chiesa diede ordine di far sgombrare gli inquilini della casa annessa. Le monache ubbidirono prontamente, ma poi presentate le loro ragioni di non essere in alcun modo tenute a questo, il cardinale arcivescovo non disse più nulla. Esortò le monache « alla frequenza dell'orazione, dicendo ancor che si compiaceva che questo nostro monasterio si fosse conservato senza debiti o al men pochi in tempi tanto calamitosi, che li altri monasterii non havevano pottuto tirarsi a porto si sicuri ».
A proposito di tempi calamitosi gli Annali ricordano la carestia del 1629, che precedette la famosa peste dell'anno seguente di cui parla Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi.
La cronista racconta che la fame era davvero rabbiosa ed il monastero contava allora 45 monache e 14 converse. « Questa carestia che il 1629 ò veduto io con li miei propri occhi per necessità le creature mangiare come fanno le bestie, mangiar dico rane crude, fusioni di verze, la crusca così pura tal quale la potevano avere, in soma non potrei a pieno esprimere la grande carestia che quest'anno è statto poiché trovatte delle creature morte per necessità ». Le monache fecero la carità anche perché « naturalmente il sesso femminile è tratto a misericordia » nota la cronista. Davano tutto quel che avevano: dovette però intervenire il Superiore ecclesiastico e la Madre badessa perché non si desse nulla senza permesso.
Dovevano essere scene pietose quelle che avvenivano alla porta del monastero se « le povere portinare gli ò vedutte alle volte fugire per non vedere tal compassione ».
Di notte entravano dei ladri nel monastero « ma non li devo chiamar ladri ma piuttosto famelici », commenta la cronista, « per che altro non rubavano che pane et farina », e sebbene le monache vegliassero ed anche alle porte vi fossero sentinelle e li vedevano entrare ed uscire, tuttavia « Dio non permise mai che si potessero conoscere perché andavano sollo alla volta del prestino ove levavano la fenestrella et toglievano la lor necessità. La qual necessità si suol dire non à legge ».
In mezzo a tanta penuria le monache pregavano « per questi poveri, poi continuamente facevano oratione, se si andava al bavorerio ivi si sentiva cantare laude alla Signora Maria, dire una parte del rosario tutte di compagnia, se alla cucina
ancora si faceva orazione in soma hera un vero paradiso ».
Le monache fecero anche celebrare 100 Messe per i morti e tutto a fine di veder
cessare il flagello.
Dopo la carestia l'altra terribile sorella la peste.
Le monache erano quasi tutte milanesi e quindi erano ansiose di sapere cosa avveniva dei loro parenti a Milano. « Mai passava giorno che non venisse nove crudelle et dolorose della morte del Padre, della Madre, del fratello, della sorella, del amico o del parente di questa o di quell'altra monacha ». Ogni giorno le buone monache fanno, scalze, la processione con la corda al collo. Intanto il morbo dalla città si diffondeva nelle campagne. Il 19 marzo 1630 il parroco di Masnaga, confessore del monastero, si licenza dalle monache perché deve attendere alla sua parrochia infetta dalla peste. Le monache ne furono costernate: aumentarono le preghiere, i digiuni, le penitenze ed il monastero non fu colpito dalla peste, nonostante che alla spezieria del monastero si presentasse a chieder medicine qualcuno infetto.
Un episodio gentile di carità è pure registrato per l'inverno del 1614. Era venuta tanta neve che « giongeva alla centura l'hommo formato ». Precisamente una di queste mattine così fredde la Madre Badessa, Arcangela Castelletta, sentendosi ammalata rimase a letto e non scese in coro. Mentre era a letto sentì una voce: «Arcangela, tu stai quà agiata, et comoda et li miei fratti Capuccini di Santo Salvatore se ne morano di necessità. Levati e mandali da vivere ». Si levò la buona Badessa ed appena poté radunò il Capitolo e disse dell'accaduto e fu deciso di mandar viveri ai Cappuccini. « Il travaglio hera grande non retrovando chi volese colà su andare », nota la cronista: finalmente un tal Iacomo Mambreto sopra nominato il Cardinale accettò di compiere l'impresa, ed attestò « questo tale che né lui né la cavalcatura sentirono molestia alcuna del viagio », e sembrava loro di sfiorare appena la neve, nonostante avessero un bel carico. Giunto allo eremo di S. Salvatore presso Erba trovò « tutti li Padri Capuccini in orazione afflitti et mezi morti di necessità et disero che heno giorni quindici che non havevano veduto creatura umana, et giorni doi che non havevano provisione in casa ne pur un bocon di pane ».
Il nostro Giacomo concludeva il suo racconto alla Badessa così: « Havete pur fatto bene o Madre a mandarli che si morivano di necessità et havendomi visto han pianto d'allegrezza ».
Altri soccorsi mandarono quelle buone monache ai sopradetti frati: una volta « 30 micche et brenta meza de vino nero », ed un'altra volta « 15 micche e brenta meza de vino ».
Così il Monastero assolveva la sua opera di preghiera e di carità,
Tra i fatti degni di rilievo in questi secoli sono:
1) - Il cambiamento del rito nell'ufficiatura.
Secondo gli Annali si salmeggiava all'ambrosiana « et il restante del divino officio era alla Romana ». Ma nel 1633 il confessore straordinario D. Clemente Cattaneo le obbligò a recitare tutto l'ufficio alla romana. « Et così il giorno di S. Gregorio del 1633 alle horre si diede principio à salmegiare alla Romana con allegrezza de le Giovane et tristeza delle povere madre vecchie, per la pratica che havevano al uso vechio ».
Le monache poi usavano nella settimana santa recitare, oltre l'ufficiatura del giorno, tutto il salterio « con l'intencione di sodisfare a tutti li mancamenti comessi nel divino officio in tutto l'anno, et ancora per tener compagnia al nostro sposo in quei giorni della sua santissima passione ». Il confessore Cattaneo tolse tale uso e la Madre Badessa corse ai ripari sostituendo la recita del salterio con tre rosarii. Levò anche l'usanza di recitare il salterio intero per le monache morte. Tale uso era antichissimo nei monasteri e nel rito ambrosiano. (159) Al salterio subentrò la recita dei tre rosari.
2) - Un altro fatto degno di nota è l'introduzione dell'uso di fiutar tabacco, e perciò il 23 settembre 1786 Mons. Alessandro Olivazzi diede facoltà alle monache di usar fazzoletti di « color ceruleo non essendo decente portarli bianchi secondo in fin allora s'erano usati », impondendo però alla Madre Badessa d'invigilare a ciò non ne introducessero d'altro colore.
3) - Le visite del Card. Giuseppe Pozzobonelli, arcivescovo di Milano.
Il 12 giugno 1752 l'arcivescovo che era a Lurago, venne piedi al monastero, celebrò la S. Messa nella chiesa del monastero, poi in parlatorio tenne un discorso alle monache. Verso sera ritornò ed entrò col suo seguito nel monastero. Le monache erano velate fino al mento: in processione l'arcivescovo venne accompagnato fino alla chiesa. Visitò le Reliquie, poi uscito di chiesa « ci fece levare la cocula e ci invitò ad andare per il Monastero in Sua compagnia ». Le ammise anche al bacio della mano e dell'anello di S. Carlo che portava in dito. La cronista nota che negli altri monasteri l'arcivescovo non s'era lasciato baciare la mano, ma che essendosi ritrovato nella cancelleria arcivescovile che il Card. Federico Borromeo le aveva ammesse al bacio della mano, anche il Card. Pozzobonelli acconsentì. Un'altra visita dello stesso arcivescovo avvenne il 24 novembre 1774.

*

L'imperatore d'Austria Giuseppe II già da tempo aveva deciso di sopprimere i monasteri di clausura come inutili al bene pubblico, a meno che si adattassero tenere scuole gratuite per « le fanciulle della classe del Popolo o insegnare a queste ultime alcuni speciali lavori donneschi, conducenti al progresso dell'Industria Nazionale relativamente alle Manifatture », oppure « educare le Figlie di Nobili e Civile condizione ».
Venne la volta anche per il monastero di Lambrugo. Il 24 gennaio 1786 fu spedito ad ogni monaca il decreto governativo onde liberamente esprimesse il parer suo.
Le monache raccoltesi in Capitolo il successivo 18 febbraio si impegnarono per l'apertura di una scuola per le fanciulle del popolo.
« A scegliere il luogo, è detto negli Annali, furono delegati l'Ill.mo D. Giuseppe Giudici Preposto d'Incino e nostro Protettore, e il sig. Preposto Ferno di Missaglia. Entrarono perciò nella clausura il giorno 21 maggio, ed osservato avendo dove farla si potesse con risparmio di spesa e a maggior comodo, giudicarono di aprire un uscio alla metà della scaletta che mette alla forestiera di sopra per quindi servirsi d'una stanza esteriore che vi ha in sito appartato. Nel giorno 6 dicembre dell'anno suddetto 1786 venne poi dalla Regia Intendenza di Como per ordine di Governo il decreto di principiare la suddetta scuola, la quale, allestito il luogo tantosto secondo il di.su esposto disegno, si cominciò subito. Piaccia al Signore che per questo mezzo abbia a susistere questo nostro Monistero sicome speriamo dalla sua infinita misericordia
Correvano per verità anni duri per le monache di clausura, poiché più che a riforme si mirava a sopprimere. La monaca cronista su questo punto ha dei particolari interessanti, poiché mostra che nel monastero si capiva benissimo che cosa vi fosse sotto gli speciosi pretesti dell'imperatore. « Siamo stati esenti dal funesto e tormentosissimo fatal colpo della soppressione anche per aver avuti boni consigli da persone da bene e di giusta coscienza, per lodevole delle boni Madri tutte dal Cielo assiste per tenersi salde nella vocazione e dar solo ascolto a chi si doveva.
Con bel sembiante adunque si incominciò a divulgarsi, come il nostro Imperatore e Arciduca di Milano bramavano che tutte le religiose fossero ben trattate epperò mantenute dal Monastero senza loro discapito ne propri uffici. Sentendo questo riglievo in apparenza lodevole, alcune Religiose sempliciotte, le prestarono una compita Fede e su di questa si animarono a far ricorso co' Milanesi (?), non badando che per esser vera tal premura, era troppo disparato quei loro tiraneggiamenti fatti nella crescita dei carichi, con l'ordine di levarci ogni esenzione di sale, oglio, carne e dogane il che non porto poco danno alle Religioni, epperò come poteva unirsi la brama vera d'esser queste ben trattate con levarci dette esenzioni e incaricarci di pesi così gagliardi; unito a questo vi furono gli mali consigli e le animosità di ricorrere, giaché di certo dovevano disfarsi tutti gli Monasteri con simili apparati, molte di cervello legiero, e materiali, massime poi chi stava per esser cacciate da Genitori, in poco tempo fu sentito d'esser mandati all'Imperatore circa ottocento Milanesi (?) chi per una cosa e chi per l'altra, il fatto si è che questi ricorsi fecero che il nostro nominato Imperatore vie più si accendesse e accrescesse l'inclinazione e il pensiero da disfargli, per tanto s'incomincio a soprimere vani monasterii principiando quelli poveri. Capucine onde si diceva esser solo quelli ridotti in povertà; ma in seguito a questi furono sopressi anche i richi e con questo si scoperse essere quelle che son ricorsi benché fossero solo due o tre per Monastero, quindi andarono avanti con le oblazioni e al vedersi praticamente questa distruzione diedero fiato per rinforzarsi tal fissazione da disfarsi tutti, epperò non si sentiva altro che il tal Monistero vende la tal cosa; esitano la tall'altra; fanno di tutto danaro; queste ànno giudizio e sono saviamente consigliate di accrescere il borsello; mentre tali Monache hanno spartito tanto e si sono ben proviste, e queste son brave, avendo levate anche alcuni impieghi lasciati debiti alla gionta e così va fatto; epperò non dormite ancora voialtre se avete senno e non date ascolto a chi vi dice diversamente. Mentre li Monisteri devono levarsi tutti essendo tale la mente del nostro Sovrano epperò certamente sarà disfato anche il vostro, abbiamo veduto noi; abbiamo sentito noi da Persone degne di tutta fede. Simil discorsi erano frequenti e colla maggior estensione che si possa esprimere
Le nostre monache ebbero invece l'idea di ricorrere al loro Superiore ecclesiastico, il quale, diede saggi consigli: vietò che vendessero cosa alcuna; chi veniva a cercare di comperare qualcosa doveva essere rimandato « con male parole »; raccomandò alle monache di non fidarsi di nessuno neppure dei loro parenti. Non permise che avessero a toccare i capitali; le obligò a stroncare « alla porta ogni discorso di soppressione »; in ogni occorrenza ricorressero all'Arcivescovo. Le monache ubbidirono e fecero speciali preghiere a Santa Caterina. Stavano « salde tutte » e, aggiunge la nostra annalista, c'era non solo un guadagno spirituale, ma anche un benessere fisico, perché venivano a sapere che quelle che erano uscite « si ritrovavano senza pace interna, essendo fuori del loro stato e riguardo al corpo fanno delle figure triste perché non si acordano sino colli propri genitori; all'uscire alcune del Monastero hanno fatto Osanna per le espressioni di benevolenza, tratamenti, e passato qualche tempo, Crocifige. Povere Religiose per essersi pascolate materialmente e non fondamentalmente, sono a questo stato specialmente quelle che sono concorse a dar qualche motivo, dal quale Dio ci liberi, giaché queste tali vengono assai sapirate per punto della lor morte. Oltre tutto questo v'è il timore di poter perdere la lor pensione la quale succedendo comincerà da quelle ch'ebbero troppa cura da distrugere per mettersi in tasca. La detta pensione si è di L. 600 le Cittadine, e L. 500 le forense epperò li è pur giusto quel proverbio che chi troppo vuole, niente ha col tempo ».
La pagina ha un'importanza storica che supera il contingente del monastero di Lambrugo; si comprende così come Giuseppe II potè sopprimere molti monasteri: è una pagina su cui gli storici dovranno fermarsi prima di giudicare l'operato dello imperatore sagrestano. Le monache si salvarono coll'accettare la scuola, e conservarono anche la spezieria.
La spezieria fu visitata per ordine del Governo il 28 gennaio 1789 dal protofisico Antonio della Porta di Como, il quale la trovò « al pari di qualunque altre maggiori officine si nella pulizia, come nell'ottima direzione che tutta ben istrutta speziale veniva diretta ». In seguito alla relazione di questo Protofisico il Governo per mezzo dell'Intendente Giuseppe Pellegrini concedeva che la spezieria del monastero servisse non solo per l'interno (monache, inservienti, massari), « ma tutti i ricorrenti che si fossero presentati all'ufficina. Con molta consolazione nostra e onore si è incominciato a estendersi a qualunque ricorrente e si crede di proseguire mediante la subordinazione agli ordini governativi »; tra questi ordini vi era quello dell'ispezione annuale della spezieria. Di fatti fu visitata ogni anno e sempre trovata in ordine. Ogni anno si doveva però anche pagare una tassa.
Nel 1787 tre monache del monastero di Cremella, ormai soppresso, furono accolte nel Monastero di Lambrugo: erano Donna Teresa Bonacina ex priora, Donna Costanza Luigia Redaelli di Ello, e la conversa Innocente Paggia di Bosisio (Annali, 173). Il 17 luglio 1792 vi entrarono due benedettine del soppresso Monastero di S. Lorenzo di Vimercate: Donna Apollonia Pecora e Donna Marianna Bussola. Il monastero di S. Lorenzo di Vimercate fu soppresso nel 18 marzo 1785 e contava 26 coriste e 7 converse. (160) Queste due monache, rimaste ritirate per sette anni in una casa data loro dai parenti, ritenendo che tutto ormai volgesse in meglio, scelsero di entrare nel monastero di Lambrugo. La cronista tèsse l'elogio del loro fervore e conclude: « Dio faccia che si conservino in questa loro edificante condotta per quindi arrivare a quella beata sorte, che il nostro Celeste Sposo ha apparecchiata e a loro e a tutte noi la sù in cielo, se gli saremo fedeli come dobbiamo essere » (Annali, 180).
Ma anche per il Monastero di S. Maria di Lambrugo, che in quel momento appariva come asilo e rifugio alle colombe disperse dalla bufera, era segnata la fine.
Il monastero possedeva oltre quattromila pertiche milanesi di terra, delle quali ben 2028, ossia la metà, erano situate in territorio del comune di Lambrugo. Le restanti si trovavano ad Inverigo, Camisasca e Brenno, Lurago, Penzano, Fregolo, Nibionno, Mariano.
Da un bilancio consuntivo del 1792, firmato dalla badessa Parravicini, si ha che l'entrata complessiva dei terreni, livelli ed altri cespiti raggiungeva lire 38129.5 contro un'uscita di lire 25383.3, con un avanzo di lire 2742.2.
Dal che si vede che si sapeva amministrare con saggezza e prudenza.
Le monache, che avevano resistito non solo alle esortazioni del Bascapè, ma anche ai tentativi di soppressione di ben due arcivescovi di Milano (Gabriele Sforza e S. Carlo Borromeo) e saputo evitare le mene di Giuseppe II, dovettero alla fine cedere di fronte alla forza bruta dei rivoluzionari Francesi scesi in Italia nel 1796.
L'8 novembre del 1798 la Repubblica Cisalpina decretava la fine del monastero con tutti i suoi beni che passavano alla Nazione, e venduti a privati. Ad ognuna delle 36 monache fu assegnata l'annua pensione vitalizia di lire 800, e alle singole 15 converse lire 500 annue pure vitabizie oppure lire 600 qualora avessero superato i 60 anni.
Nell'inventano eseguito al momento della soppressione si trovò il monastero sobriamente arredato, e la chiesa provvista di due calici, tre pissidi ed altri oggetti per il culto. Vi sono elencati tre quadri: uno dell'Assunta, un altro di S. Domenico, e un terzo del fondatore del monastero. Non si conosce dove siano andati a finire e di quale valore artistico fossero. Sul campanile, ora ridotto a semplice torre, stavano due campanelle e un orologio.
Il fabbricato del monastero fu ridotto ad abitazione civile. Dopo non poche trasformazioni e trapassi di proprietà dal 1798 in poi, è oggi ritornato, almeno in parte, ad essere casa di preghiera e di istruzione delle suore Figlie di Gesù di Verona per interessamento del parroco di Lambrugo.


DOCUMENTI

Lettere inedite del Venerabile Padre

Carlo Bascapè

I.

Monza 26 settembre 1584.

Molto Rev.de Madre in Christo oss.me
Io sperava pure di haver alcuna nuova del stato delle Rev.ze V.re la quale me consolasse del dispiacer ch'io presi quando io le visitai; ma io non ho potuto haver tanta grazia, et tuttavia pareami di non dover esser privo di sì fatta consolatione, sì per la virtù et spirito che infimo a qui havete mostro nelle vostre attioni, et sì per la sincerità et fede con la quale io venni a consolarvi et consigliarvi, conforme alla gran confidenza che dimostraste meco chiamandomi con tanta instanza, et ricevendomi con tanto giubilo di spirito, si come mi pare di comprendere. Et perché pure io non posso persuadermi che quelle serve di Dio, che per il passato diedero così buon saggio di virtù perfetta, hora non restino capaci de' sani et sancti consigli che son loro fedelmente et dirittamente dati, ho voluto di nuovo con questa renovar quell'Ufficio, che mi convien di far seco, se voglio corrispondere a quella fede ch'esse dicono d'havermi. Due pericoli Madri Rev.de scorsi in voi quando venni, che pel vero mi toccarono gravemente: l'uno di disunione et scisma fra di voi, l'altro di proprio parere. Guardivi, o sorelle, la Bontà di Dio da qual si voglia de due, che vi porrebbe, come si dice, sul Tavoliero, tutti quei guadagni ai quali è indirizzata la vostra Professione per non dirvi di peggio. Io non so come habbiate ben messo in pratica quel rimedio di non solo astenervi di contender fra voi supra questa traslatione; ma, non farne anchora pure una parola, o moto, cosa che dovreste serrare con ogni diligenza per fuggir le Contentioni indegnissime di serve di Dio, con le quali si distrugge la Carità, si perde lo spirito, si scandalezzano le picciole, si fanno cader le grandi, et si apre le porta a' Demonij, ch'entrino a dar il guasto alle povere Congregazioni. Egli è ben vero che bisogneria andar più avanti, et intenerire la durezza del proprio parere, la quale è come una nuvola che ci asconde i raggi della divina verità, et talvolta ci priva d'ogni lume di sopra. Che se questa maledetta radice non ci si cacciasse nel Cuore, non potrebbe produrre le Contentioni, le Disobedienze, i Giudicij, i Sospetti vani, le Mormorationi che bene spesso produce. Chi volesse discorrere contro questa peste non finirebbe in grande spatio di tempo, tanto ce ne somministra la Scrittura Santa et i Santi Padri.
Questo male se non havesse havuto luogo fra voi, chi non sa che non vi sareste inquietate nel modo che havete fatto? O Vergini benedette non squarciate la veste, che è poi tanto difficile da ricongiungere. Guai a chi ne sarà stata la cagione; sarebbe meglio a Colei che non fosse mai stata Monaca, o più tosto che non fosse mai nata. Chi è quella così miseramente audace che tenga il parer suo per infallibile, et non si contenti di rimettersi alle altre, et più poi a chi deve et a chi Iddio comanda? Et se non è di quest'audacia come può tenere il parer suo così fisso nel cuore? Pongasi ciascuna la mano al petto, si esamini bene in questo punto, che se non ci sarà durezza di proprio parere et persuasione, al sicuro io non temerò di contentione o scisma. Un'altra cosa anchora non lascierebbe che fosse contentione o divisione fra voi per questa causa: et ciò è se foste veramente spogliate dell'affetto di questo mondo. Sorelle, io ve lo dico apertamente, tutto è mondo questo che v'inquieta. O sorelle, dove è la rinuntia che havete fatta a questo secolo? dove è la nudità con la quale pensate di seguire Christo nudo? per pietre et calce v'inquietate tanto? per affetto di terra mettete in compromesso il Cielo? Quelle che publicamente avanti agl'Angeli et a gl'Huomini fecero professione di spogliarsi di tutte le cose di questo mondo, stanno attaccate a case et a possessioni? Quelle che fecero già libero dono a Dio et a suoi Ministri della propria volontà, hora non solo havranno volontà propria ma qualche cosa di più anchora? Se questo non ha luogo in voi, se sete quelle ch'esser dovete, onde tanta inquietudine per dover mutar luogo, onde tanto interesse, onde tanta turbatione? Poniamo che siete mosse a torto: è però questo causa di gettarvi così infelicemente sotto sopra? Donne che hanno la loro patria nell'altra vita, che stanno a inquietarsi di puoche miglia di mutatione? che hanno a fare tutti gli interessi di questo mondo con un puoco di virtù che si perda? Sorelle care, non si finiria mai di essaggerare degnamente questo punto. Non conviene, non vi sta bene, fate una gran vergogna alla vostra vita passata a dare in queste inquietudini per un niente; et se seguiterete darete a credere che il vostro spirito era una total superficie solamente, senza sodezza veruna.
La terra lasciate che travagli le persone terrene; le cose di questo mondo lasciate che pungano et inquietino i mondani; ma voi che sete spirituali, che trafficate beni invisibili, che non volete il Mondo per goder il Cielo, che havete a fare di tutta la terra et di tutto quanto è sotto il Cielo? Dicami alcuna di voi, io sento che non sia espediente nel S.re di mutar luogo, s'io sono di questo parere non ho a dirlo? et anco delle case et possessioni et più d'una che d'un'altra, i servi di Dio non hanno forsi ad havere pure un pensiero? Sia parere ma che non faccia contentione, né tocchi la Carità; sia parere ma non ostinatione; sia parere ma non escluda la santa humiltà, et la verace obedienza. Tengasi conto delle case et possessioni, ma sia senza inquietudine, sia senza offesa della pace, sia senza perdita delle cose più importanti, sia col debito modo. O che stiate o che andiate, le mie sorelle, vi è necessaria sempre questa preparatione d'animo di non offender mai per qual si voglia cosa di questo mondo la pace et l'unione. commune; et di non havere attacco a cosa veruna di questo mondo se non volete essere spirituali solo in apparenza, et Monache di abito solamente Ma havendo animo, come pure dite, di voler fare la volontà di Dio, cioé di volere elleggere sempre quello che è di maggior perfettione, che questo è il voler di Dio che siamo perfetti, massime noi posti in stato di perfettione, io sopra ciò vi dirò due parole, perché me ne date occasione, et mi pare a dirvi il vero che la pigliate da cattivo capo. Chi non sa che la volontà di Dio è che ci spogliamo et di cose et di volontà quanto più si può, et che ci appigliamo alle Croci et alle mortificazioni gagliardamente? Chi non sa che è meglio lasciare la patria et l'havere, i parenti et noi stessi che restarne in possesso? Se potete havere alcuna commodità temporale, chi non sa che è meglio lasciarla per amor di Dio che trattenerla? Et voi pur dite che non sapete se è volontà di Dio che lasciate la vostra casa et il vostro Lambrugo per obedienza, cioé per amor di Dio, dovevate dire avanti che vi faceste monache che non sapevate se era volontà di Dio che lasciaste i parenti et roba et voi stesse per donarvi a lui; et pure così stimaste che fosse, se bene niuno ve ne faceva istanza. Et hora havete il santo Concilio di Trento che incarica i Prelati a ritirare i Monasteri dentro alle terre murate; havete il vostro Prelato legittimo et Canonico santo che è di più, (161) il quale ve ne fa istanza et ve ne fa proteste tremende, havete ogni amico; lasciamo i secolari che parlano secolarmente. Chi vi dice che la perfettione così vuole, et voi pur dite che non sapete se è volontà di Dio. Chi vi ha da interpretar questa volontà di Dio se non il vostro Prelato, i ministri di Dio, et le persone spirituali? Mi pare che non vogliate credere che sia volontà di Dio se non quella alla quale è conformare la vostra volontà. Vi par dovere che la volontà di Dio si conformi alla vostra o la vostra a quella di Dio? Pensate di non accettar mai per volontà di Dio quella dove havete ripugnanza? Dite che facendo orationi non sentite però che sia volontà di Dio. Meglio direste che non ci potete inchinar voi la vostra volontà.
Madri Rev.de questi sono errori troppo manifesti. Dite che dubitate di far contra l'obedienza del Santiss.o Papa, et questo è inganno certo. Che sua santità non ha comandato né ha dichiarato esser sua volontà che non siate mosse, ma solo ha concesso che si soprasedesse dal negotio, et in ogni caso niente ha detto a voi, ma al vostro Prelato, al quale dovete lasciare il carico di questo, et dovete credere per ogni ragione che egli non si mova contro la volontà di Sua Santità. Dite poi anco che le Monache de gli altri Monasterij stanno allegre, perché non cercano tanto di consigliarsi et vedere se devono consentire alla loro traslazione, ma senz'altro si risolvono di nò. Che è questo che dite? Provano ancora gli huomini che si danno a Dio molti travagli interiori per la ripugnanza che hanno all'opre virtuose et di mortificatione. All'incontro poi i mondani stanno allegramente, senza tante punture di dentro. Per questo hanno quelli da invidiare lo stato di questi? Dicano dunque anchora quei che si danno ad ubedir Dio et servirlo, Sig.re perché io ho voluto fare la vostra volontà et attendere al Consiglio degli amici spirituali m'intraviene questo: io son travagliato et gli altri allegri. O sorelle, che parole son queste? Ben si sa, che se volete seguitar la Carne, già che niuno vi sforza per hora, potete liberarvi con dire fermamente di nò et gittarvi ogni scrupolo et rimorso dopo le spalle; ma se havete animo di far il meglio, come lo dovete havere, non potrete fare così. Bisognerà che elleggiate la parte migliore et elleggendola ne sentirete delle punture perché ci è dentro mortificazione, o che vi dichiarate di non voler fare ciò che è di maggior perfettione, et di voler più tosto ubedire al senso che alla ragione, più alla carne che allo spirito; overo che havete da fare ciò che sete persuase et consigliate da ministri di Dio et amici spirituali. Eleggete hora qual volete de' due partiti, et non vogliate lasciar che il senso et l'imperfettione si copra sotto pretesto spirituale et apparente di non conoscere la volontà di Dio. Ma io spero che vorrete che questa ellettione sia conforme alle altre vostre attioni passate, che vi hanno dato nome di spirituali et ben disciplinate, et che accettarete questa occasione dalla man di Dio, che con tal mezo v'habbia voluto spingere a maggior perfettion di spirito, con che darete consolatione al vostro Prelato et agli amici che vi consigliano fedelmente, et senza fallo farete un gran guadagno di più in questo negotio spirituale ch'andiamo traficando. Il che tanto maggiormente dovrete fare quanto che tanta parte di voi consente a questa traslatione; alla quale essendo la cosa in sé tanto probata voi altre non dovete in alcun modo contradire, et chi lo farà non sia l'anima mia partecipe della sorte sua, perché queste non sono le vie che ci ha insegnato il Salvator nostro, né i nostri Padri hanno caminato. Io tengo per fermo che ad ogni modo vi converrà fare questo passo, et se voi vi unite a farlo hora volontariamente le cose vostre andranno di bene in meglio, se nò io dubito forte che il Monasterio di Lambruco non sarà più quello per l'avvenire. Io non pensai di scrivervi sì lungamente, ma la comodità di trovarmi questo giorno fuori, me ne ha dato campo. Io chiamo Dio Benedetto in testimonio che io vi ho scritto con tutta quella fedeltà et sincerità ch'ho saputo, et se in alcuna cosa forse avrete sentito alcuna puntura non lo assegnate ad altro che al desiderio del vostro bene, et a vero amore, ch'io vi porto in Christo che così mi è parso di dovervi scrivere a volervi essere o Padre fedelissimo come mi chiamate, o Fratello et Servo sincero nel Sig.re come intendo di esservi.
A Mons.re Ill.mo ho detto semplicemente lo stato et dispositione vostra, il quale ha opinione che tutte voi siate disposte da una in fuori. Pregate il Sig.re per me vil peccatore. Di Monza alli 26 di settembre 1584.
Delle R.ze V.re
Servo in Christo
Carlo Bascapè chier.o reg.e


II
31 ottobre 1585

Molto Rev. Madre nel Sig.re oss.

Pax vobis.
No potrei esprimere in carta il gaudio ch'io sento nel cuore, quando mi danno delle buone nuove de' suoi santi profitti, et non mi si può mettere a' fianchi maggiori stimoli per farmi movere, et lasciata ogni altra occupatione venirle a rivedere, che le nuove di questa sorte. Io so che con ogni sincerità et affetto in Christo metto loro inanzi, et a tutte insieme et a ciascuna in particolare ciò che il Sig.re mi mostra essere bene per loro nel suo S.to cospetto, et se si potesse scoprire le viscere del cuore, lo vedrebbero più chiaro. Sia benedetto Iddio che supplisce con la sua occulta virtù alle mie imperfettioni, et penetra i cuori di coteste sorelle, se bene mi sta tuttavia nell'animo il dolore della durezza di quella povera infelice, che non vuole aprire il cuore alla verità, et vuole più tosto cadere come lucifero dal Paradiso nell'inferno, come in brieve le avverrà. Io ringrazio V. R. et tutte le sorelle della prontezza che prestano a questi miei pochi indrizzi: io la presenterò avanti al S.re accioché l'aggradisca, et ne dia loro retributione. La priego con l'occasione di questa solennità voler fare particolare meditatione sopra le Beatitudini del S.to Evangelo corrente che in compendio ci mette avanti tutta la via del cielo, e spero che specialmente eseguiranno quella Beati pacifici, quoniam filij Dei vocabuntur, et vorranno tutte essere ver figliole di Dio con tenere quella pace, ch'io m'ingegnai di spiegare loro alla mia partenza. Vuole pace Iddio, et vuole amore nelle sue creature, per ciò si chiama Prencipe di pace, Dio di pace et di dilettione.
Ricordo che sono obligate a qualche particolar profitto quelle, alle quali truasino i libri divoti in sorte. V. R. poi faccia animo percioché è buono combattere contra ogni contrario in virtù dell'Altissimo, et io non mancherò nella medesima virtù di aiutarla: potrà tenere ancora essercitio di dire qualche volta il salmo Dominus illuminatio mea.
N. S.re et tutta quella gran Corte del cielo siano loro favorevoli et larghi in questa gran solennità de' Santi della quale oggi è la vigilia.1585.
Di V. R. et di tutte le sorelle
Servo in Christo
Carlo Bascapé Chierico Regolare


III.
Milano 9 novembre 1588.
Molto R. Madre nel S.oss. Pax Christi etc.

Hoggi sono venuto a Milano. Farò quanto prima l'officio che desidera con Mons.r Giussano; ne ocorrerà che V. R. gli scriva altro. Se havesse dubbio che il s. Francesco Conti non ricusasse la cura loro per quello obbligo, che già gli fu imposto di farla senz'altra mercede, si potrebbe levare.
Ho sentito gran consolatione che tutte le sorelle procurino di fare profitto secondo che nel mio partire ricordai loro. Nostro S.re conceda per ciò a tutta la comunità ogni abondanza di gratie.
Quella sorella, della quale V. R. mi chiede consiglio, non si prenda travaglio di uscire di chiesa per quel tale accidente, che per ciò la chiesa non si dissacra, è tuttavia bene provedere se si può che quella cosa non scorra in terra per decenza, non per necessità. Quanto alla s.ta Comunione ancora, può restarsene quando per ciò non è per dare ammiratione alle altre, altramente si vada. In ogni caso se la cosa fusse così frequente, che dovesse restare più volte senza comunicarsi per ciò, si vada ancora nel nome del S.re che questo accidente non fa necessità d'astenersi, ma decenza o convenienza. Et talvolta è bene di non curarsene, perché forse il Demonio ha parte in ciò per privare la creatura della S.ma Comunione. S'aiuti la sorella con le orationi sue et altrui, et con le proteste che ha ciò per pena, et usi altri remedij che V. R. le saprà dare.
Per rispetto del P. confessore faccia quel che le parrà espediente di dire o tacere, che in ciò habbia preso consiglio da me: la verità sta come le ho detto di sopra.
Saluto tutta la comunità con ogni affetto, et le priego dal S.re ogni benedittione di gratia: non lascino di pregare per me.
Da Milano a 9 di novembre 1588.
Di V. R.
Fratello et servo nel S.re
D. Carlo B. Cher.o Reg.e

* * * * * *

Il « rus Cassiciacum » di S. Agostino

Nell'autunno del 386 S. Agostino si ritirò a Cassiciaco nella villa dell'amico Verecondo, un milanese professore di grammatica ma ancora pagano, trascorrendovi i mesi che precedettero il suo Battesimo. Da Cassiciaco ritornò a Milano in tempo opportuno per iscriversi fra i battezzandi di quella prossima Pasqua. Le Ceneri del 387 furono il 10 marzo, e la Pasqua il 25 aprile. (162)
Come fosse quella villa, che in quella circostanza accolse S. Agostino con sua madre Monica, suo fratello Navigio, il suo giovane figlio Adeodato, i suoi cugini Rustico e Lastidiano, il suo amico Alipio, ed i suoi discepoli Licenzio e Trigezio, non sappiamo né da S. Agostino né da altre fonti. Tuttavia, se non una dimora sontuosa e da gran ricco, doveva essere per lo meno una casa padronale di campagna discretamente ampia e non priva di quelle comodità richieste da una persona di esigenze civili, com'era il professionista Verecondo: tanto vero che alquanto lontano sorgeva un edificio per i bagni. Davanti alla casa, che con gli annessi fondi era di proprieta di Verecondo, si stendeva un prato con un vecchio e fronzuto albero.
Pretendere che quella villa non fosse altro che una « casupola campagnola »... «piccola... modesta e piena di sorci, per il fatto che S. Agostino, Licenzio e Trigezio dormivano nella stessa camera, e che Licenzio sentisse una notte dei sorci rosicchiare del legno, è, a mio avviso, esagerazione. (163)
Il perché dormissero in tre nella stessa camera non sappiamo. Si può ben ritenere che, essendo S. Agostino malandato in salute, i due discepoli prediletti stessero a lui vicino per assisterlo e tenergli compagnia. La presenza di sorci in campagna, e specialmente in case non sempre abitate, non deve far meraviglia: ce n'erano ai tempi di S. Agostino, e ce ne sono ancora adesso.
Ma dov'era situato il « rus Cassiciacum? » Due sono i luoghi che presentemente si disputano l'onore di avere ospitato S. Agostino: Cassago e Casciago. Il primo si trova in Brianza, il secondo nel Varesotto. Nondimeno dai più si propende per Cassago. (164)
Orbene, è oggi possibile un'identificazione precisa, indiscutibile del luogo con prove tolte dalla linguistica e dalla corografia, dall'archeologia, dalla tradizione, e dai pochi e non sempre precisi accenni che direttamente o indirettamente ci fornisce del luogo lo stesso santo nei suoi scritti? Pongo la questione in questi termini, perché siamo di fronte a due tesi opposte: per il Rota è scientificamente vero, matematicamente sicuro che il Cassiciaco di S. Agostino sia l'odierno Casciago; per Filippo Meda invece è assiomaticamente vero e sicuro il contrario, che cioè sia Cassago. (165)
Allo stato attuale delle indagini non mi sembra ancora possibile un'identificazione chiara, precisa, e tale da togliere qualsiasi ulteriore controversia in merito. Si può soltanto discutere, a mio giudizio, di una maggiore o minore probabilità.
Cassiciaco sarebbe il termine usato dai più antichi e migliori codici, mentre Cassiàco sarebbe lezione meno sicura. Si dovrebbe pertanto con P. Knòll ritenere Cassiciaco come il vero nome originario del luogo. (166) Perciò Salvioni, un distinto cultore di linguistica, giunse alla conclusione che, secondo le regole normali del dialetto lombardo, da Cassiciàco non poteva derivare né Cassago né Casciago. « Nell'ambiente dialettale lombardo Cassiciaco poteva solo dare o Cacésag (-ci-) o Cacezag. Toscanamente questa forma avrebbe sonato Cassicciago-co, a non tener conto, s'intende, di Cassizzago o Cassisciago, che sarebbero le forme lombarde rintonacate alla toscana». (167)
*

Le ragioni del Salvioni, con le quali si lusingava di avere spazzato via Cassago e Casciago, non furono naturalmente ritenute convincenti dai sostenitori delle tesi contrarie.
Ecco infatti:
a) Le argomentazioni in favore di Cassago.
Il Morin, un dotto benedettino studioso delle opere di S. Agostino, rispondendo a Salvioni, mentre per quello che riguarda Casciago lo ritenne a suo giudizio basato su ragione, vorrebbe invece, pur ammessa come autentica e originale nel IV secolo la forma Cassiciaco, che più tardi, dall'epoca carolingia in poi, si avesse in effetto l'abbreviazione di Cassiaco. E tale sincope egli trova pienamente naturale, non solo perché se vi era un nome destinato a perdere fatalmente qualcuna delle sue sillabe era proprio Cassiciaco con questo ssci così strano nel mezzo, ma altresì perché lo stesso Salvioni ammette che nei dialetti del Piemonte e dell'Emilia non mancano esempi di simili accorciamenti, e che anzi qualche caso si trova pure in Lombardia. (168)
Similmente l'Olivieri, al contrario di Salvioni, pensa « che nella forma Cassici - potè verificarsi, in un certo momento, la sincope dell'i protonica: così che l'esito di Cass'ci finì coll'essere pari a quello di Cassi », donde il Cassiàco dell'epoca carolingia. E soggiunge, d'altra parte, che Casciago non può riflettere un Cassiciaco per inesorabili ragioni fonetiche: Casciago non può risultare che da un antico Castelliaco. (169)
Filippo Meda in modo più esplicito dichiara che Cassago deve assolutamente corrispondere al Cassiciaco di S. Agostino. Egli ritiene in sostanza quanto già asserì il Biraghi che cioè « da Cassiciaco viene ovvio e naturale l'abbreviato nome di Cassiaco e Cassago colla omissione non solo di un i, ma anche di due, di tre, di più lettere, come da Inticiaco, venne Inzago, da Badagio Baggio, da Ledesmo Lesmo, da Madiosente Misinto, da Cistellago Cislago ». (170) Sostiene il Meda che « c'è un processo identico, inconstrastabile in un altro nome di paese lombardo ricordato dal Biraghi e dal Morin; quello di Anticiàco (poi Inticiàco) divenuto indubbiamente l'attuale Inzago. Si avverte infatti l'identità del processo fonetico: Inticiaco ha trasformato le due sillabe centrali tici in una z che sta a rappresentare il raddolcimento del t forte seguito dal dittongo ia; cioè Inzago non è che la formulazione definitiva di un Intiàco (e non monta se nelle carte sopravvissute non vi si trovi), derivato dall'Inticiàco; così in Cassiciàco le sue sillabe centrali sici sono ridotte ad un s producendo il moderno Cassago attraverso un Cassiaco che, se anche non fosse documentato, si dovrebbe ammettere per necessità fonetica. Ond'è che, a voler essere empirici, basterebbe dire che Cassago è l'antico Cassiciaco, per la ragione stessa per la quale, incontestabilmente, Inzago è l'antico Inticiàco ». (171)
A mio avviso si potrebbe tuttavia osservare al Meda, che questo sia avvenuto per Inzago, come per altri nomi locali milanesi, nessuno lo contesta; è evidente perché documentato. Infatti si conosce con certezza, attraverso le pergamene e le carte medioevali raccolte nell'Archivio di Stato in Milano, che l'attuale Inzago si chiamava negli anni premillenari Anticiaco, poi successivamente Inticiaco, e quindi Intiago e Inziago per finire in Inzago. Ma che questo identico processo di trasformazione sia indiscutibilmente avvenuto per Cassago resta ancora da provarsi per la ragione che di Cassago manca il termine primo a quo, cioè di Cassiciaco, poiché la forma più antica premillenaria che si conosca è Cassiaco e non Cassiciaco.
Non intendo con questo misconoscere la linguistica, per quanto ancora tanto difficile e oscura, e che per il Meda è fondamentale nella controversia; ma è pure evidente che nell'applicazione pratica al nostro caso regna l'incertezza: per uno studioso una o più vocali e consonanti, una o più sillabe mediane sono dolci e quindi soggette ad elisione; per un'altro invece sono forti e dovevano rimanere, e via dicendo, così che qualcuno come il Gabotto è giunto persino ad asserire che tanto Cassago quanto Casciago hanno una medesima origine, facendoli derivare da uno stesso nome personale romano Cassius. (172)

b) Le argomentazioni in favore di Casciago:
Contro il Biraghi, Salvioni, Morin, Meda, ecc., insorse il Rota, il quale dopo aver respinte le loro asserzioni come erronee, mise fuori quattro leggi da lui elaborate per escludere Cassago, e per affermare che il Cassiciaco di S. Agostino corrisponde precisamente a Casciago, perché quì si tratta di una questione corografica, e che quindi spetta alla corografia il compito di risolvere la controversia. (173)
Egli dichiara che la vera ragione per la quale da Cassiciaco non poteva derivare Cassiaco, si è che quest'ultimo è nome romano incorrotto, e quindi di origine e significato diverso. « In Lombardia - sempre a dir del Rota - i nomi locali romani passano attraverso le burrasche delle invasioni, tra il dominio dei Longobardi, tra il regno dei Franchi, degli imperatori di Germania e re d'Italia, ed arrivano sin dopo il mille non abbreviati né raccorciati, ma incorrotti nella loro integrità (la legge); ed è soltanto « nei secoli XII, XIII, ed in seguito che i nomi locali cominciano a subire variazioni, contorsioni, aferesi, metatesi, apentesi, apocopi, sincopi..., e le sincopi, così in corografia come in medicina, colpiscono le parti più deboli: le vocali e le consonanti mediane afone » (II.a legge). (174)
E poiché prima del mille non si conosce la forma Cassiciaco per Cassago, ma bensì dall'845 in poi quella di Cassiàco-go, Caxago, Cassago, il Rota ne dedusse come impossibile l'equazione Cassiciàco = Cassiàco.
Quindi, secondo lui, Cassiàco avrebbe per base un gentilizio Cassius, e invece Cassiciàco un Cassicius. (175)
Perciò egli afferma « come certo, come scientificamente vero, come matematicamente sicuro che l'antico villaggio romano di Cassiciaco è l'odierno villaggio di Casciago sopra Varese », poiché, sempre a suo dire, questi due nomi sono identici, precisi, perfetti, e l'unica differenza che fra essi corre si è che il nome moderno si presenta mancante di un si mediano afono ».
Nega quindi che nell'alto medioevo Casciago si chiamasse Castiàco sia perché egli non ne ha trovato esempio, sia perché Salvioni e gli altri si richiamarono in modo generico a carte medioevali senza citarne gli atti. (176)
Quale valore hanno queste affermazioni del Rota? Vediamolo.
Qualunque sia il valore che, in linea di massima, possono avere le due leggi su esposte del Rota, (e diciamo subito che molti nomi romani di luogo non aspettarono fino al secolo XII, XIII a subire variazioni), ci dobbiamo innanzi tutto domandare, in base a queste stesse leggi, qual è la forma più antica che si conosca di Casciago. Orbene non solo ci manca la voce Cassiciàco per Casciago, ma vi conosciamo invece quella di Castiàco.
Infatti in una pergamena, senza data, di S. Maria del Monte (pergamene che datano dal 922 in avanti), ma che si deve porre nel secolo X-959, abbiamo precisamente, e per la prima volta, Castiàco ad indicare l'odierno Casciago.
Il Rota negò ch'essa possa appartenere al secolo X, ponendola dopo il primo quarto del secolo XI. (177) Ritengo invece che essa, benché senza data, sia di quel secolo perché scritta nella minuscola cartolina libraria del tempo, e perché vi si nomina l'arciprete Leone. Quando il Rota afferma che « Forcius qui et Leo » dell'atto del 922 è una persona diversa dal Leo della nostra carta, dimentica che il « qui et » sta appunto per indicare il nome col quale di solito si indica una persona, cioè il soprannome. Così pure quando dice che nel documento in questione, se si fosse trattato della stessa persona, si sarebbe dovuta menzionarla come in quello del 922 «Forcius qui et Leo » o anche semplicemente « Forcius », non ha posto mente alla natura diversa dei due atti. Quello del 922 è un atto notarile dove l'arciprete non poteva figurare col solo soprannome senza pericolo della validità dell'atto stesso; quello del secolo X-959 è un elenco dei beni della Chiesa di S. Maria del Monte, scritto da un ecclesiastico addetto alla chiesa, cioè dallo stesso arciprete, (la scrittura minuscola carolina non era ancora usata per gli atti notarili), al quale per far capire che parlava di sé non era necessario ricordare accanto al suo soprannome il suo vero nome. Non era documento destinato ad avere valore giuridico. D'altra parte spostare la data con ragionevolezza occorrerebbe provare che ci fu un altro arciprete di nome Leone.
Ad ogni modo, pur prescindendo da questa pergamena, (178) si deve osservare che per tutto il secolo XI ricorre sempre negli atti di S. Maria del Monte, quando si nomina l'odierno luogo di Casciago, la forma Castiàco-go, e Castiàsca aggettivo sostantivo. (179) Sembra quindi evidente, anche per questo, che la forma di Casciago doveva essere per lo meno nel secolo X, Castiàco-go, ed è la più antica che si conosca.
Nel secolo XII troviamo, con questa, altresì usata in quegli atti la voce Casciago (raramente Cascliago, Casclago, Cascago, Casgago ecc., probabilmente da attribuirsi ad imperizia degli scrittori), col cambiamento del t in c, e che finirà poi coll'imporsi alle altre tutte.
Casgiàgo e Casciàgo sono pertanto un derivato da Castià-go e non viceversa, come volle sostenere il Rota, il quale ha erroneamente affermato « che la voce originaria, genuina, la più antica e perfetta è Casciaco-go, e che Castiago non può essere che un'alterazione posteriore, perché i primi documenti danno Caslago, Cascliago, Casgiago, Casciaco». (180)
Ora, se i nomi locali romani, secondo Rota, arrivarono a noi incorrotti e perfetti sin dopo il mille, ed incominciarono solo a corrompersi nei secoli XII, XIII, ed in seguito, ne viene di conseguenza che non solo Cassiaco-go per Cassago, ma anche Castiàco-go dovrebbe essere il vero nome originario, incorrotto e perfetto di Casciago. Se poi per eccezione si dovessero supporre delle elisioni nel nome di Cassiciaco nei secoli anteriori al mille in favore di Casciago, queste potrebbero pure essere invocate, con non minor ragione, anche da coloro che si sono dichiarati per Cassago.
Le due regole elaborate dal Rota coll'intento di escludere Cassago dal corrispondere al Cassiciàco di S. Agostino, verrebbero perciò stesso ad escludere pure Casciago; regole che hanno fallito allo scopo per il quale furono messe in campo. (181)
*

Soggiunge inoltre il Rota che « i nomi locali dell'alto milanese e del Varesotto che escono col suffisso di ciago, ciaco lo conservano attraverso i secoli; mentre gli stessi nomi con le medesime desinenze del basso Milanese, del Lodigiano, del Bergamasco, lo tramutano in sago - zago (III legge). Posto quindi il Cassiciaco di S. Agostino nell'alto milanese, il Rota ne deduce che anche per questo Cassago non può derivare da Cassiciaco, avendo perduto il suffisso ciago - ciaco, mentre invece lo ha conservato Casciago. (182)
A questo riguardo si può osservare che, per lo meno nella Brianza la quale fa parte dell'alto milanese, i nomi locali col suffisso ciaco - ciago, alcuni lo hanno ritenuto, come Bulciago, Colciago, Cucciago, mentre altri lo hanno trasformato in zago come Barzago, Verzago, Dolzago, e in sago come Imbersago.
Se Cassiciaco, egli aggiunge, fosse stata la forma originaria di Cassago avremmo avuto la voce Cas-zago. E perché, se egli vuole ammettere questa combinazione fonetica, non Cassago dal momento che il ciaco di Imbersago (Amberciacum) si è cambiato in sago?
Del resto ogni regola o legge può avere le sue eccezioni, e tanto più in materia di derivazione di nomi locali, perché non è escluso che il popolo nel ridurre i nomi possa fare un po' a modo suo, seguendo di preferenza usi locali, anziché leggi o norme fisse.
Nemmeno persuasiva è la quarta legge, e cioè che « i nomi che perdono le vocali e le consonanti mediane afone vengono dal popolo pronunciate in modo tale che nella pronuncia si sente il punto ove avvenne l'elisione». (183) Si ha invece che il popolo - ordinariamente - nella sua pronuncia rifugge da nessi mal pronunciabili, per cui quasi mai sulla sua bocca si sente il punto dove avvenne una o più elisioni. E' lo studioso che adeguando la pronuncia del nome odierno all'antico ne rimarca il punto dove avvennero le elisioni. Così, ad esempio Marelliano - Mariano; Anticiaco - Inzago; Ledesmo - Lesmo; Cistellago - Cislago; Badagio - Baggio; ecc.
Nulla pertanto di scientificamente certo si può ricavare dalle leggi del Rota in merito alla nostra controversia. Perciò Cassago può conservare la tradizionale probabilità di corrispondere al Cassiciaco di S. Agostino.

*
Se dall'argomentazione linguistica corografica si passa a domandare luce all'archeologia, si rimane parimenti all'oscuro. Non mancano, è vero, ricordi romani in Casciago e Cassago, per cui si può affermare ch'erano luoghi abitati al tempo dei Romani, ma nulla finora si è rinvenuto da cui presumere che vi abbia abitato S. Agostino o che vi fosse la villa di Verecondo. (184)
Si dice che a Cassago, nel sottosuolo di un giardino di fronte all'ex-casa Padulli, a valle del palazzo Visconti Modrone, si siano trovati, ad un metro di profondità, delle condutture in mattone, che il vecchio conte Padulli ritenne di costruzione antichissima, e, con la premessa che in Cassago abbia dimorato S. Agostino, ne argomentò che in quel giardino doveva sorgere l'edificio dei bagni di Verecondo. Ma dato pure per ammesso che quelle condutture fossero antichissime, benché nessun competente ch'io sappia le abbia studiate così da saperci dire a quale epoca realmente risalissero, se romane o medioevali, non ne segue per questo che si possa affermare che colà con certezza sorgessero i bagni della villa di Verecondo, col dire che l'acqua condotta ai bagni « ligneolis canalibus », come scrisse S. Agostino, sia stata poi più tardi trasportata con condutture in muratura. (185)
Inoltre il Morin, visitando i sotterranei del palazzo Visconti Modrone rimase colpito dalla grossezza di quelle muraglie, e, nell'idea che in quel luogo sorgesse probabilmente la villa di Verecondo, le sospettò di origine romana, pur aspettando in merito il responso di visitatori competenti. Non si può negare che il palazzo, situato nella parte più alta del paese sull'altura che dolcemente culmina a Cremella, possa avere occupata l'area della villa di Verecondo: tra l'altro vi è ancora davanti alla villa, nonostante gli adattamenti a cui andò soggetto il luogo ridotto a vasto giardino, un prato che declina nella piana sottostante.
Ma la possibilità non è certezza. Fossero pure quei sotterranei ruderi di una villa romana, non per questo sarebbe provato che quella in verità fosse la villa di Verecondo, pur rimanendo un indizio, sia pur tenue, in favore di Cassago. La questione sarebbe risolta soltanto se si potesse trovare qualche cosa che si riferisca a Verecondo o a S. Agostino.
Il desiderio del dotto benedettino venne tenuto in considerazione dalla benemerita Società Archeologica di Como. Nell'agosto del 1930 una commissione, presieduta dal prof. E. Ghislanzoni sopraintendente alle antichità della Lombardia e del Veneto e della quale faceva parte l'ing. Antonio Giussani di Como, avrebbe dovuto visitare quei sotterranei. Per difficoltà insorte il sopraluogo non poté essere effettuato, e ciò fu un male, perché, a parte tutto, era già molto, a puro scopo archeologico, il poter provare che quelle grosse mura fossero o contenessero ruderi di un edificio romano.

*
Manca inoltre qualsiasi antica ed ininterrotta tradizione relativa al soggiorno di S. Agostino tanto a Casciago quanto a Cassago.
Casciago inizia le sue pretese d'aver ospitato S. Agostino dopo la nota lettera di Alessandro Manzoni del 1843 al Poujoulat, l'autore della Histoire de St. Augustin. Ed è detto tutto.
Il Rota, per sostenere a qualunque costo la sua tesi, vuole invece che antichissima ed ininterrotta sia la tradizione della dimora di S. Agostino a Casciago per le seguenti ragioni:
Liutprando, re dei Longobardi, fondava in Pavia il monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro, che affidava ai monaci Agostiniani; e verso il 725 dalla Sardegna vi trasportava il corpo del santo. A decoro del tempio e per il mantenimento dei monaci donava dei beni posti su quel di Pavia, Piacenza, Lodi, Tortona e una quantità di possessi nell' arcivescovado di Milano e precisamente nel Varesotto. Orbene, dal fatto di avere Liutprando donati beni nel Varesotto (nei quali però non è compreso Casciago), afferma che « bisogna convenire che nei circoli di Corte, negli ambienti della Curia, che fra i dotti di Pavia fosse radicata la tradizione della dimora fatta da S. Agostino sui monti di Varese, perché questa è l'unica ammissibile e plausibile ».
Ma se, come pretende il Rota, si suppone radicata questa tradizione fin d'allora nei circoli della Corte, negli ambienti della Curia e fra i dotti di Pavia, perché mai nessun cenno ne abbiamo negli scrittori e nelle carte dei monaci stessi di S. Pietro in Ciel d'Oro? Evidentemente perché non esisteva tradizione qualsiasi della dimora di S. Agostino a Casciago.
In realtà, come è noto, i re longobardi usavano donare a monasteri, a seconda del bisogno e dell'opportunità, dei beni indifferentemente situati nelle diverse regioni dei loro regno.
L'altra ragione si è che verso la metà dei secolo XV sul sacro monte di Varese sorse un monastero di Agostiniane. Alcune buone giovani si misero insieme per condurre vita monastica. Scelsero la regola di S. Agostino, e ne ottennero l'approvazione da Sisto IV il 10 novembre 1474. Perché quelle ragazze scelsero quella regola e non altra? Il Rota vuoi trovare un addentellato con monache che vivevano presso S. Maria del Monte verso il mille e nel secolo seguente, monache che, dal fatto susseguente sopradetto, vorrebbe esse pure Agostiniane, perché a suo dire, qui si viveva in un ambiente squisitamente agostiniano. (186)
Una deduzione di nessuna attendibilità, perché da una parte nulla sappiamo della regola sotto la quale vissero quelle antichissime monache (in quel tempo la regola che ordinariamente si seguiva era la benedettina), e dall'altra parte tra queste e la fondazione del monastero delle Agostiniane nel secolo XV è ben difficile supporre una relazione qualsiasi, poiché si tratta di una fondazione nuova a sé stante col distacco di più secoli. Monasteri di Agostiniane sul finire del secolo XV ce n'erano anche altrove, e sorgevano a seconda dell'opportunità.
Ad ogni modo se il monastero fu eretto lassù, e si scelse, ad esclusione d'ogni altra la regola di S. Agostino, proprio per la tradizione che questo santo avrebbe dimorato a Casciago, ce ne sarebbe pure rimasta traccia nelle carte e memorie di S. Maria del Monte e del monastero. E se proprio per questa tradizione, supposta e non concessa, perché allora non scelsero il luogo stesso di Casciago per erigervi il monastero?
La supposizione del Rota, basata su le esposte ragioni, di dichiarare antichissima ed ininterrotta la tradizione della dimora di S. Agostino a Casciago manca di serio fondamento.
Altrettanto per Cassago tutto è muto prima del secolo XVII, sia perché non vi fanno parola né le non poche carte riguardanti la parrocchia, né gli atti di visita pastorale ed i relativi decreti del padre Leonetto Clavono (1567), di S. Carlo (1571 e 1583), e di Federico Borromeo (1608, 1611, 1624), (187) e sia perché tra le feste che, per voto o consuetudine, vi si celebravano, quella di S. Agostino non vi ricorre. (188) Nemmeno risulta che vi fosse un oratorio, una cappella, un altare, una reliquia, una statua, un quadro o una pittura qualsiasi che ricordasse comunque S. Agostino.
Presentemente nella chiesa, rifabbricata come si è detto nel 1759-60, vi è una cappella dedicata a S. Agostino con la statua dei santo. Ma di questa cappella e statua nella vecchia chiesa demolita non vi è cenno alcuno nella particolareggiata visita fatta dai card. Pozzoboneili nei 1757, ossia un anno prima della sua demolizione. Dev'essere quindi posteriore e in correlazione al fatto che nel 1797 il marchese Gio. Vincenzo Modrone istituì un legato per l'annua celebrazione della festa di S. Agostino. (189)
Tanto la tradizione popolare quanto quella dotta, benché più antica di quella di Casciago, sono di origine relativamente recente: la popolare è emanata, a mio giudizio, dagli scrittori.
Ed in vero: benché il Calchi sulla fine del secolo XV scrivesse che S. Agostino si ritirasse in « suburbano Cassiaco», (190) probabilmente desumendolo da qualche copia manoscritta milanese delle Confessioni del secolo XI o XII, (191) nondimeno è col brianzolo Giuseppe Ripamonti che espressamente si pone il ritiro del santo fra i colli briantei, e cioè a Cassiciaco in pieve di Missagiia, donde al dire del Ripamonti, ne venne al luogo tanta rinomanza. (192) Prima di lui non conosco scrittore che accenni a tale celebrità.
Le asserzioni dello storico brianzolo passarono in altri scrittori, presero voga, e non molto tempo dopo quei di Cassago si accorsero di avere un tempo il loro paese ospitato S. Agostino. Si scriverà che gli abitanti dei luogo, per grazia di Dio e per i meriti « sanctorum Patronorum huius ecclesia: Iacobi, Brigida, et Augustini » furono liberati dalla peste, (193) e galoppando sulle ali della fantasia si arriverà poi a identificare le stanze occupate dal santo nel palazzo oggi Visconti-Modrone; a trovare la pietra su la quale avrebbe celebrata la S. Messa dopo che fu ordinato prete; a chiamare fontana di S. Agostino una fontana alimentata dall'acqua sorgente presso il sopradetto palazzo e a dedicare a S. Agostino una via del paese.
S. Agostino ebbe nella diocesi milanese poche chiese a lui dedicate, come per io meno si desume dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani della fine dei secolo XIII, ma se la tradizione a Cassago fosse stata veramente antichissima e costante, mi sembra poco verosimile, dopo che S. Agostino divenne santo e dottore della Chiesa di gran fama, che nemmeno una chiesetta od un altare ivi sorgesse in suo onore.
Se una chiesetta, supposta eretta, fosse andata distrutta attraverso le vicende dei secoli, ce ne sarebbe pure in qualche modo rimasta memoria. È noto, per esempio, agli indagatori di memorie locali, che l'esistenza di chiese scomparse è rimasta spesse volte legata al nome di qualche cascinale o appezzamento di terra (campo, prato, ecc.). E poiché i piccoli luoghi, ancor più delle città dove gli avvenimenti si incalzano e tendono a sopraffarsi, tengono a dare risalto alle poche glorie locali, e specialmente in fatto di religione, anche per questo gli abitanti di Cassago non potevano sì a lungo dimenticarsi di S. Agostino.
Il Liber Notitiae sopra citato ci ricorda invece come esistessero a Cassago due chiese rispettivamente dedicate a S. Brigida e a S. Maria; e a Casciago una chiesa dedicata a S. Eusebio e un'altra a S. Giovanni Evangelista. Nessun cenno di un culto a S. Agostino nei due villaggi. (194)
Il Morin ammette egli pure la mancanza di una tradizione locale veramente antica per Cassago, ma spiega il fatto col dire: I) che nel 386-87 S. Agostino era un uomo qualsiasi di passaggio, un rétore forastiero senza celebrità che non doveva interessare i contadini del luogo; Il) che d'altronde il luogo stesso lungo i secoli dev'essere passato attraverso varie vicende e delle quali non ci è rimasta traccia alcuna; III) che, ad esempio, senza la testimonianza di scrittori estranei non ci sarebbe stato conservato il ricordo del soggiorno a Treviri di un Atanasio, d'un Gerolamo, d'un Ambrogio, di un S. Martino stesso.
Comunque sia di queste ragioni del Morin, sta il fatto che nessun scrittore antico accenna ad una dimora di Sant'Agostino non solo a Casciago ma nemmeno a Cassago.

*

Da ultimo rimane a dire delle notizie che S. Agostino ci ha lasciate riguardanti la località dov'egli soggiornava. Sono pochi, fugaci, e non sempre precisi accenni sparsi qua e là nei suoi scritti. Il nome stesso di Cassiciaco non ci è ricordato che una sola volta. (195)
Il santo ci lascia intendere che doveva essere un luogo situato in altura, ameno, verdeggiante e fertile; che lì vicino si stendeva un prato nel quale discendeva a filosofare quando il tempo lo permetteva; (196) che vi erano i bagni alimentati dall'acqua trasportata con canali di legno; (197) e che vicine stavano pure le abitazioni dei rustici dipendenti dalla villa. (198). Non la minima allusione, osserva giustamente il Morin, ad un fiume o ad un torrente in senso odierno, ad un'altura un po' considerevole, ad un panorama, oppure a notevoli accidentalità del suolo.
Il Biraghi, il Meda, il Morin, ed altri ritengono, e non senza ragione, che il luogo di Cassago possa corrispondere molto bene a quel tanto che S. Agostino ci ha detto circa la località dove passò il tempo della dimora che precedette il suo Battesimo. Di contrario parere è il Rota; egli propende non solo per Casciago, ma forzando le espressioni del santo, vorrebbe escludere Cassago. In realtà, chiunque, alieno da preconcetti, compie un sopraluogo nei due paesi, tenendo presenti quegli accenni, deve convenire che, se in linea di massima non si può escludere né l'uno né l'altro, meglio corrispondono al luogo di Cassago. Del resto quei pochi e generici accenni si adattano a molte altre località dell'alto milanese.
Si deve tener calcolo che il santo non si è preoccupato di darci una descrizione sia pur breve, ma precisa e particolareggiata del luogo e dei dintorni. Mi pare quindi che non si possa precisare, se non con grande cautela, quello che è indeterminato e oscuro, per non fare deduzioni arbitrarie, così da adattare cose e fatti alle nostre idee, invece che oggettivamente le nostre idee alle cose e ai fatti.
Perciò non è nel vero il Rota quando, per negare a Cassago di poter corrispondere al luogo di Cassiciaco, ci parla di stazione climatica, di sanatorio naturale, di conifere, di un torrente d'acqua viva, di un panorama di impareggiabile bellezza, ecc.: e tutto questo per affermare che a Cassago non vi si trovano nessuna di quelle condizioni speciali che consigliano il soggiorno agli ammalati di petto (Rota, op. cit., p. 65). Orbene di tutte queste particolarità locali il santo nulla dice, né si possono con certezza ricavare.
Ad ogni modo Cassago, benché goda di una minore altezza sul livello del mare e di una minore bellezza panoramica in confronto di Casciago, è nondimeno situato in amena posizione nel centro della Brianza, circondato da alti colli e in vista di alte montagne, con aria pura e salubre, senza quei nebbioni che d'inverno infestano la pianura, discretamente ventilato d'estate, con boschi, prati ed acque correnti. S. Agostino che aveva bisogno di rimettersi da una salute un po' scossa, poteva perciò trovarsi benissimo, tanto più che l'inverno trascorso a Cassiciaco fu in quell'anno abbastanza mite, e probabilmente non dev'essere nemmeno caduta la neve giacché non vi accenna. Quando la stagione è piuttosto mite nelle colline si ha la pioggia, mentre nei luoghi più alti nevica.
Un elemento sul quale insiste il Rota per negare che Cassago possa corrispondere al Cassiciaco di S. Agostino si è la mancanza d'acqua corrente in luogo, e tira in campo, nientemeno come una prova, la cascina detta dei Campi Asciutti, la quale sorge molto al disotto di Cassago.
Prima di discutere dell'acqua della quale parla S. Agostino dobbiamo innanzitutto vedere se realmente il territorio di Cassago è privo di acque correnti. Orbene il territorio, oltre che dal torrente Gambaione, che scende dal territorio di Cremella, è percorso da un altro grosso ruscello che scaturisce poco sotto il cimitero di Cassago; alimenta una fontana, e quindi, scorrendo nei prati sottostanti, passa sotto la frazione di Rosello, e ingrossato da altri rigagnoli va a sboccare nel Lambro. Quest'acqua è chiamata nelle carte medioevali « flumen de roxello ». (199) Non mancano altre piccole sorgenti che danno acqua alla così detta fontana di S. Agostino presso la villa Visconti di Modrone e ad un lavatoio pubblico. Queste sorgenti dovevano anticamente, con tutta probabilità, dare un maggior getto d'acqua perenne, quando si osservi che Cassago e la sopradetta villa non occupano un colle a sé stante, ma si appoggiano all'altura che s'innalza sino a Cremella da una parte, e dall'altra sino al Bagiolago: altura oggi ridotta a coltivo e in parte chiusa nel vasto giardino della villa, ma che nell'alto medioevo era, più che a campi, coperta di boschi e selve. È noto che l'abbondanza dei boschi dà maggior vigore alle sorgenti e un regime più costante alle acque.
Ciò premesso, vediamo cosa in realtà scrive S. Agostino.
Ricorda il santo in termini vaghi, un'acqua che chiama promisquamente acqua, unda, meatus, flumen, canalis. E ci informa che l'acqua per gli usi di casa e per i bagni veniva trasportata mediante canali di legno (ligneolis canalibus). I fautori di Cassago pensarono che l'acqua fosse presa dal torrente Gambaione che, attraversa il territorio di Cassago; quelli di Casciago dal torrente Tinella che scende dal Campo dei Fiori e passa per Casciago.
Ma S. Agostino non dice né da dove provenisse né come fosse incanalata. Fa pure menzione di un'acqua fluente dietro i bagni, e che, scorrendo in basso fra i sassi, produceva un suono ora distinto ora depresso, da lui avvertito, mentre una notte vegliava. Di questo fatto gli diede spiegazione Licenzio, dicendogli che ciò proveniva dalle foglie che vi cadevano, le quali di tanto in tanto facendo argine, ne impedivano il deflusso regolare. (200)
Ora, che acqua poteva essere quella che scorreva dietro i bagni (pone balneas) e che strepitava scendendo tra le pietre, dando talora un suono or più debole or più chiaro per le foglie che vi cadevano? Non era certamente quella che scorreva nei canali di legno nei quali mancavano i sassi per cui non poteva far strepito alcuno, e nemmeno trattenere le foglie che eventualmente vi cadevano avendo le pareti levigate.
Poteva perciò, a mio avviso, senza ricorrere a un fiume o ad un torrente, essere l'acqua che, dopo aver servito agli usi di casa e dei bagni, poiché uno scarico doveva pure averlo, andava a scaricarsi nella pianura sottostante scorrendo in un alveo o canale sassoso con alberi lungo le sponde.
Non deve trarci in inganno il termine flumen (praecipitanti se flumini) usati da S. Agostino, pensando necessariamente ad un fiume o torrente vero e proprio nel significato odierno, perché è noto che dai latini e dai medioevali era adoperato per indicare una qualsiasi corrente d'acqua fosse anche piccola.
Daltra parte se fosse stato un grosso corso d'acqua, le foglie che man mano vi cadevano non avrebbero avuto la forza di rallentare ad intermittenza il corso, ma sarebbero state man mano travolte. Pertanto il suono or distinto or nò che produceva scorrendo in basso fra i sassi, è più ragionevolmente spiegabile con una piccola corrente che abbia alquanta pendenza: nel silenzio profondo della notte ogni rumore è facilmente percettibile, rumore che di giorno può passare inosservato con altrettanta facilità.
Comunque sia, se oggettivamente ci domandiamo donde originasse e dove e come fosse presa quell'acqua che veniva trasportata con canali di legno per gli usi domestici e dei bagni; se da un fiume, o da un torrente, o da sorgenti; se da un luogo relativamente vicino o lontano (la frase unus eius itenere è indeterminata), nulla sappiamo. E similmente nulla sappiamo dell'acqua che scorreva dietro i bagni silicibus irruens; se fiume, o torrente, o ruscello, o acqua che usciva dai bagni; il santo nulla dice. Si possono fare delle congetture più o meno probabili, ma niente di più. Questo è però certo che il territorio di Cassago non mancava allora di acque sufficienti per renderci ragione di quanto ci ha lasciato scritto S. Agostino, nonostante le asserzioni in contrario del Rota.

*

Da ultimo che la località di Cassiciaco non debba cercarsi nella Liguria intesa nel significato odierno, come si è immaginato nel supplemento all'Holder, interpretando erroneamente le parole di S. Agostino « cum essemus in agro Liguriae » è evidente. Il Morin dall'espressione usata dal santo « in urbem ierant », (201) riferendosi ad Alipio ed a Navigio quando vi si recavano per affari, vorrebbe che la villa di Verecondo non fosse troppo distante da Milano, e quindi probabilmente a Cassago. La frase di S. Agostino è generica e indeterminata, tuttavia se si pensa che, quando nel marzo del 387 se ne ritornò a Milano per il Battesimo, Alipio volle fare il tragitto a piedi nudi in segno di devozione, benché la terra fosse ancora gelata, si può supporre il luogo di Cassiciaco non molto lontano da Milano. (202) Tragitto più ragionevolmente ammissibile da Cassago a Milano (33 km.) che non da Casciago per la doppia distanza (65 km.).
*

Da quanto sono venuto esponendo, mi pare, in definitiva, che la controversia intorno a Cassiciaco non potrà essere definitivamente risolta fino a tanto che ulteriori indagini linguistiche e corografiche ci provino in modo veramente sicuro quale sia il villaggio che vi corrisponda, oppure nuovi documenti o scavi rivelino qualche cosa che ci attesti che in quel dato luogo sorgeva la villa di Verecondo.
Ad ogni modo, chi oggettivamente e serenamente studia la questione non potrà a meno di convenire che, oggi come oggi, non si possono fare che delle supposizioni più o meno probabili, e che Cassago, conserva tuttora, se non la certezza, seri indizi di corrispondere al Cassiciaco agostiniano.


* * * * * *

Il Monastero dei Santi Pietro e Paolo

di Brugora presso Montesiro e i Casati

I Casati, delle cui origini leggendarie ne parlano il Fiamma e il Corio, sarebbero di provenienza longobarda, e assunsero il cognome dal luogo della residenza.
Nel medioevo il cognome si forma e si diffonde col sorgere e con lo svilupparsi del Comune, dove alle molteplici magistrature comunali vengono man mano a partecipare le diverse classi cittadine accresciute coll'immigrazione di gente nuova del contado, e le industrie ed i commerci ne moltiplicano i rapporti, e non già nel periodo precedente feudale e nel ristretto ambito dell'economia curtense, dove il signore è distinto dagli altri col nome proprio, e i dipendenti hanno troppo scarse relazioni gli uni con gli altri perché si senta il bisogno di essere pubblicamente differenziati.
Infatti prima del Mille troviamo nelle carte il nome di battesimo o il soprannome ad indicare gli individui, perché facile era allora la conoscenza di ciascuno da parte di tutti.
I cognomi provennero dai nomi di luogo, oppure dal nome proprio di qualche ascendente, dai soprannomi, da dignità o da mestieri.
Verso la metà del secolo XII la stirpe dei Casati, fin d'allora tra le più ricche e influenti della Brianza meridionale, la troviamo già divisa in più rami o famiglie.
Una di queste abitava in Brugora della quale conosciamo i nomi di alcuni membri: il padre Pietro, i figli Eriberto prete e Giovanni, e Nicondilla figlia di Giovanni. Una famiglia inclinata alla pietà ed alla religione « onnibus de Caxate Longobardis sed lege romana viventibus ». (203)
Eriberto vi aveva eretta una chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo insieme ai genitori e coll'aiuto dei fratelli consanguinei (imprimis fui inceptor una cum patre meo et matre, adiuvantibus fratribus carnalibus in nostra proprietate). Presso di essa egli viveva tutto dedito al servizio del divin culto insieme alla nipote pur essa tutta consacrata al Signore.
Morti i genitori e il fratello Giovanni, col consenso degli altri famigliari, e con gioia di Nicondilla e di altre sue compagne con essa monasticamente conviventi, convertì la sua dimora coll'annessa chiesa in monastero sotto la Regola di S. Benedetto. Lo dotò di beni paterni, e con istrumento del l° dicembre 1102, lo pose sotto l'immediata tutela della Santa Sede, obbligando ogni persona che volesse entrarvi ad offrire in segno di sommissione, dodici denari d'argento di Milano.
Nicondilla fu la prima badessa.
Il Pontefice Pasquale II, con bolla del 6 novembre 1103 diretta ad Eriberto, accettò sotto la sua protezione il monastero coi suoi beni presenti e futuri, liberandolo da ogni peso, e in ricambio pagasse ogni anno 12 denari di Milano alla Curia Romana.
Successivamente Callisto II, con altra bolla datata da Piacenza il 21 aprile 1120, confermava al monastero la sua protezione, liberandolo da ogni gravame e concedendo alle monache il ricavo dei loro lavori manuali. La badessa e le monache dovevano ricevere gratis la benedizione dall'arcivescovo di Milano, sempre che fosse cattolico, diversamente dovevano rivolgersi ad altro vescovo. Per tutto questo stava l'obbligo dell'annuo tributo al sacro palazzo Lateranense di 12 monete d'argento di Milano.
Nel 1127 moriva Eriberto, sacerdote degno di lode per la distinta pietà, e per il merito di aver cooperato a stabilire e a ben avviare il monastero.
Altra riconferma, con in più altri favori, ottenne la badessa Beatrice da
Innocenzo II il 7 Febbraio 1139, interposta la mediazione dell'arcivescovo Robaldo. Veniva in essa dichiarato che il monastero si trovava innanzitutto sotto l'immediata tutela e protezione della Santa Sede; che aveva la libera amministrazione dei suoi beni e degli altri proventi; che poteva dare sepoltura nella chiesa del monastero a coloro che per divozione o per ultima volontà lo avessero desiderato, a meno che fossero scomunicati; e che dall'arcivescovo di Milano doveva dipendere per la consacrazione degli altari e per la benedizione della badessa e delle monache. Concedeva inoltre alle monache di scegliere fra il clero della diocesi un proprio sacerdote come cappellano e ritenerlo presso di loro. Rimaneva fermo pertanto l'annuo tributo alla Curia Romana di 12 denari d'argento milanesi.
Della badessa Beatrice rimane altresì ricordo in un atto del 1154, riguardante una vertenza, per confini di terreno presso il Lambro, col prevosto di S. Vito. Vertenza composta dall'arciprete di Monza per delega di Eriberto cardinal legato pontificio.
Papa Alessandro III, con bolla datata da Tosculano del 28 giugno 1180 diretta alla badessa Margherita, riconfermava egli pure quanto avevano concesso i precedenti pontefici, e concedeva inoltre che nessuno potesse esigere decime sia delle messi che coltivavano con le loro mani o a loro spese, e sia dei nutrimenti delle loro bestie, ma coll'obbligo di pagare come per il passato l'annuo tributo alla Santa Sede. (204)
Dopo il secolo XIII non vi è più cenno di questo annuo tributo.
Si comprende come queste bolle venissero invocate dalle monache in difesa dei loro diritti, e per richiesta di nuovi favori. (205)
La vita del monastero sembra si svolgesse regolare nei secoli XII e XIII e in gran parte del secolo seguente, vivendo secondo la regola e lo spirito di S. Benedetto, a giudicare per lo meno dai pochi documenti rimastici di quel tempo.

*

I guai incominciarono sul finire del secolo XIV.
In un atto del 19 agosto 1399 vi si dice che le sette monache (delle quali sei della stirpe dei Casati), adunate in capitolo e presiedute da Petrola Casati, la più anziana, eleggevano in badessa Mafiola Casati « volentibus et consentientibus dominÌs de Caxate laicis ». (206)
E' il primo documento in ordine di tempo, nel quale si parla dell'intromissione dei Casati nell'elezione della badessa.
Non mi risulta che anche prima i Casati esercitassero tale diritto, per quanto nel 1333 vi fosse badessa Caracosa Casati, e nel 1380 Catelola Casati.
Nei primi anni del secolo XV, turbinosi per l'accanimento sanguinoso delle fazioni guelfe e ghibelline, le monache in un dato momento dovettero abbandonare il monastero per quale motivo occasionale non è detto.
Nell'atto di elezione della badessa Ambrogina Giussani (de Gluxiano de Caxate) del 9 luglio 1413 vi si afferma infatti che, morta la badessa Mafiola Casati, « propter maledictas gueras et partialitates que viguerunt iam transactis annis et adhuc vigent sicut magistra rerum scilicet experientia rerum demonstrat et dem.ostrant in civitate, diocesi et ducatu Mediolani », le monache erano state costrette a lasciare il monastero.
Il sacerdote Paolo Casati, riuscì a convincerle a far ritorno nel monastero, incitandole ad eleggere la nuova badessa. Ridotte a sole quattro, si raccolsero in capitolo sotto la presidenza dell'anziana Caterina Besana.
Premessa la solita formula come nell'elezione del 1399, e cioè che essa non intendeva procedere all'elezione con qualsiasi scomunicata o interdetta, e che se qualcuna fosse presente si allontanasse dal capitolo, si convenne di passare l'incarico dell'elezione al prete Paolo Casati, al quale gli stessi Casati avevano dato preventivamente il loro consenso.
Fu eletta Ambrogina Giussani. Ciò fatto, le monache « submissa voce decantaverunt Te Deum laudamus ».
Ottenuto il consenso dell'eletta, si richiese a Roma la conferma apostolica. Venne inoltre dichiarato procuratore del monastero lo stesso Paolo Casati.
L'atto fu rogato in Monte nel brolo di una casa di proprietà delle monache.
Gli atti successivi, riguardanti elezioni di badesse, parlano sempre dell'intervento dei Casati. Intervenivano talvolta nei capitoli a dar voto per la elezione della badessa; tal'altra fu da loro presentata scegliendola fra le monache d'altri monasteri; e altre volte la nomina fu eseguita col loro consenso o da essi confermata.
Di un diritto di patronato Casati sul monastero non vi è cenno nell'atto di fondazione e nemmeno nelle bolle pontificie. Dev'essersi introdotto per via di fatto, e non di diritto, che poi divenne consuetudine.
Dati i tempi procellosi turbati dalle fazioni guelfe e ghibelline con vendette, incendi, saccheggi. uccisioni non solo nelle città ma altresì nei piccoli borghi e villaggi, non risparmiando né chiese né monasteri; e tenuto calcolo che nel monastero di Brugora la maggior parte delle monache appartenevano allora alla stirpe dei Casati, niente di più verosimile che, ad un dato momento le monache si appoggiassero ai loro parenti per una più efficace protezione, il che portò alla pretesa dei Casati di intromettersi nelle faccende del monastero.
Comunque sia, rimase costante fra le monache la tradizione che l'intromissione dei Casati era abusiva.
Un tentativo di emanciparsi da quell'incomoda influenza avvenne il 29 giugno 1430. Le monache avevano eletta badessa Caterina Isella. Rifiutata dai patroni, in quello stesso giorno dovette dare le dimissioni, protestando i Casati che a loro spettava di eleggere la badessa. Fu perciò eletta Petrina Osnaghi monaca professa nel monastero Maggiore di Milano. A conferma dell'elezione regolarmente avvenuta Ambrogio de Aplano, arciprete di S. Giorgio in Cornate pieve di Pontirolo, (207) aiutato dalle stesse monache, le impose il velo nero abbaziale. Quindi le monache, genuflesse davanti alla nuova badessa ricevettero l'abbraccio e il bacio della pace.
Le monache dovettero così rimangiarsi la libera elezione da loro fatta.
Premeva ai patroni, a quanto pare, che le monache e le badesse fossero a loro legate da vincoli di parentela o di favori, per sempre meglio rafforzare il loro constratato diritto di patronato, che alle volte esercitavano in modo eccessivo, col ficcare talora il naso persino nell'accettazione delle novizie, e come patroni e avvocati del monastero anche nell'amministrazione dei beni.
Un'altro tentativo di liberarsi dai Casati si ebbe il 27 giugno 1448.
Venuta a morte la badessa Petra Osnaghi, le monache elessero la cinquantenne Caterina Riboldi, ma Enrico del titolo di S. Clemente, cardinal legato nelle nostre parti, tenne calcolo delle proteste e istanze dei Casati, e impose badessa Stefanina Giussani monaca del monastero di Lambrugo, « que etiam laicorum suffragio suffulta fuit
La Riboldi ricorse alla Santa Sede, dichiarando illegittima tale nomina, non avendo il card. legato giurisdizione nel caso, e insinuando che la Giussani non aveva ancora 24 anni e che « prolem enixa fuerit seu peperit ».
Il Pontefice Nicolao, un mese dopo, rimise la soluzione della vertenza al prevosto della chiesa di S. Pietro in Vicoboldono.
Come sia andata a finire non ho trovato, ma poiché in documenti successivi vi è accennata come badessa la Giussani, è verosimile che i Casati ebbero anche allora partita vinta.
Senonchè la badessa, pur essendo stata eletta dai Casati, nel 1464 dovette ricorrere alla Romana Sede affinché il monastero, che a stento aveva di che vivere, fosse liberato dal grave peso di dover versare ad Alberto Casati l'annua somma di 20 fiorini d'oro.
Il papa trasmise la soluzione della causa al vescovo parmense Iacobo Antonio abitante in Milano, il quale dichiarò tale onere assegnato « absque rationabili causa », mentre i redditi del monastero non superavano i 60 fiorini annui, e che perciò più oltre non doveva essere soddisfatto.
L'Alberto Casati, il quale probabilmente si sarà adoperato nel favorire la nomina della Giussani, aveva trovato modo, consenziente il card. Enrico, di farsi ricompensare, quale avvocato e procuratore del monastero, con quella pensione vitalizia.
Che il monastero in quegli anni e nei seguenti non versasse in floride condizioni economiche, lo si può arguire dal fatto che nel 1479 le monache, data la scarsità dei loro proventi « sive ex bellorum turbinibus sive ex aliis sinistris » così da non poter mantenere un proprio sacerdote per il servizio religioso, supplicarono e ottennero dal card. legato Ascanio Maria Sforza (208) che un sacerdote binasse nella loro chiesa tanto per esse quanto per gli altri fedeli nei giorni festivi di precetto purché non avesse purificato nella prima Messa, e ciò fino a tanto che avrebbero avuto i mezzi per mantenere un proprio sacerdote.
La Giussani ottenne successivamente dal pontefice con bolla del 28 novembre 1488 che fosse riconosciuta, come era stato concesso ad altri monasteri riformati dello stesso Ordine, l'esenzione del monastero da ogni giurisdizione all'infuori di quella della Santa Sede, e che la badessa liberamente eletta dalle monache non fosse nominata a vita, ma ogni triennio, e che potesse ricevere novizie e dar loro l'abito regolare, e ciò contro le mene dei Casati e loro sostenitori.

*

Il 12 gennaio del 1491, passata a miglior vita la badessa Giussani, che si era dimostrata una badessa di polso, le monache decisero di farla finita col patronato Casati anche in base alle concessioni pontificie del 1488.
Tennero capitolo ed elessero liberamente a badessa triennale Beltramina Omati, fattone consapevole il vicario arcivescovile Giovanni Battista Ferri, il quale sembra fosse stato prima interpellato e pronunciatosi favorevole. Il Ferri non fu mai arcivescovo di Milano, ma soltanto Vicario.
I Casati protestarono e seppero tirare dalla loro parte lo stesso Mons. Ferri.
L'1l di febbraio il sig. Bernardino Casati, quale procuratore di tutta l'agnazione dei Casati, fece affiggere alla porta del monastero e intimare alle monache un atto giudiziale, in cui si certificava che il diritto di nominare e presentare la badessa spettava ai Casati.
Costoro, raccoltisi numerosi nella sagrestia meridionale degli Ordinari del Duomo, elessero solennemente in badessa Marta Casati, monaca nel monastero del Lentasio. La presentarono alle monache ma queste la rifiutarono. I Casati iniziarono allora la causa presso il Vicario stesso.
Le monache ricorsero al pontefice, il quale ordinò che la vertenza fosse esaminata e definita dal Rev. Gerolamo Landriani, maestro generale degli Umiliati e prevosto di S. Abbondio in Cremona, dimorante in Milano.
I Casati avevano fatto di tutto perché la causa rimanesse nelle mani del Ferri, ma il pontefice, al quale pur essi avevano ricorso, li accontentò solamente coll'assegnare in aiuto al Landriani un'altro umiliato Pietro Morigia prevosto della prepositura di Bregnano pur egli abitante in Milano.
Il Morigia, influenzato dai Casati, prese a tirare in lungo la causa, inceppandone ad arte il regolare svolgimento con grave danno e spese delle monache.
Queste allora ricorsero di nuovo al pontefice, e questi vi aggiunse un terzo prevosto umiliato, il Rev. Giovanni Medici della prepositura di S. Giovanni in Conca, con la clausola che la decisione presa concordemente da due di loro avesse valore di giudicato.
Il Landriani e il Medici « doctores clarissimi », discussa la controversia, riconobbero il buon diritto delle monache.
I Casati interposero appello alla Santa Sede, la quale rimise la definizione della vertenza al prevosto Andrea Bossi di S. Tecla in Milano e a Giovanni Battista Visconti del Duomo.
Le monache ebbero costoro in sospetto, e perciò contro appellarono ed ottennero che la causa fosse rimessa a persone fuori di Milano dove i Casati potevano molto.
I discendenti della famiglia di Eriberto, il fondatore del monastero, si erano fatti numerosissimi come risulta dagli atti processuali. Parte in umile condizione vivevano in Casate, nei dintorni, o altrove, ma altre famiglie stabilitesi in Milano erano divenute potenti per censo e per cariche.
Il pontefice diede allora incarico al prevosto di S. Fedele in Como, in qualità di commissario e di delegato apostolico Rev. Battistino Viola o de Violata, di risolvere definitivamente la questione.
Svolto regolare e canonico processo in Como nell'abitazione del prevosto, col prendere in esame ragioni e vecchi istrumenti, fatti e leggi canoniche, si dichiarò conforme a verità la sentenza già emanata dal Landriani e dal Medici.
I Casati furono tassati in 12 ducati d'oro per risarcimento spese incontrate dalle monache.
Non mancò tuttavia il procuratore del monastero di farsi risentire per una così esigua somma di compenso.
Successivamente nel 1533, con bolla pontificia del 4 dicembre, ottennero di essere liberate da decime e imposizioni; esenzione confermata anche dal Senato di Milano.
Il monastero, sciolto ormai dal pesante patronato Casati e ritornato alla primiera libertà, prese a prosperare, ampliando e sistemando il fabbricato, da divenire uno dei più regolari in quei tempi non molto propizi alla disciplina monastica. E questo lo si deve probabilmente ascrivere allo zelo dei sacerdoti, tra i quali un Pietro Carcano, i quali presiedettero al governo spirituale di quelle monache, così che quando nel 1562 il vescovo di Casale visitò il monastero, nel quale vi erano allora 30 religiose, trovò più che altrove argomento di edificazione. (209)
Trascrivo in appendice una curiosa e interessante nota del 14 ottobre 1581 nella quale vengono elencati i libri di divozione che ogni monaca usava per alimentare la sua pietà spirituale. Ci porge un'idea del grado della coltura religiosa delle monache in quegli anni.
*

Un'altra ben più grave controversia dovettero successivamente sostenere le monache non più coi Casati, ma addirittura con lo stesso S. Carlo Borromeo arcivescovo di Milano.
S. Carlo, dopo aver visitato i quattro monasteri del Monte di Brianza, come si è già accennato, e nonostante fossero già emanati dai suoi visitatori delegati e da lui stesso per ciascun monastero i relativi decreti per una migliore sistemazione, (210)
prese nel 1578 il radicale provvedimento, di trasferirli, in base ai decreti del Concilio di Trento, in luoghi più sicuri ossia a Milano.
Si opposero le monache dei quattro monasteri, insieme collegate nel comune pericolo, e ricorsero alla Santa Sede per mezzo dei loro procuratori.
Si trattava della vita o della morte di quei monasteri.
Come abbiamo già detto altrove si aperse tra le monache e S. Carlo una lunga e dibattuta vertenza, condotta per un decennio con pari perseveranza. Benché i monasteri avessero ottenuto da Gregorio XIII, con breve del 12 dicembre 1580, di rimanere nei loro rispettivi luoghi, durava tuttavia l'interdetto di professare altre monache. Su questo punto S. Carlo fu irremovibile di fronte all'ostinata resistenza delle monache: voleva raggiungere, dilazionando nel tempo, il suo scopo prefisso.
La causa continuò pertanto con immutata costanza, finché fu definitivamente chiusa in favore delle religiose con breve pontificio nel 1588, quattro anni dopo la morte di S. Carlo.

*

Superata anche questa procella, il nostro e gli altri tre monasteri si fecero premura di eseguire quanto man mano veniva prescritto dalle superiori autorità ecclesiastiche nelle visite pastorali. Si tratta di decreti di relativa importanza, che per brevità tralascio, tendenti però sempre al miglioramento spirituale e materiale.
Per via del maggiorasco, le femmine che venivano educate nei monasteri, erano in parte destinate a monacarsi, come i cadetti maschi erano spinti ad abbracciare la carriera ecclesiastica o quella militare.
Infatti le monache professe dei nostri monasteri briantini durante il governo spagnolo, provenivano in gran parte da ricche o nobili famiglie.
Nella supplica alla Sacra Congregazione dei signori del Monte di Brianza, perché fosse concesso di poter continuare a professar monache nei quattro monasteri, si notificava appunto che la loro scomparsa recava un « inestimabile danno alli padri di famiglia di detto paese, i quali come spesso occorre, gravati di numerosa famiglia non havevano più comodità di collocare le loro figlie per monache ». E questo può essere inteso sia per collocarle in educazione e sia per monacarle.

*

Se da una parte l'aumentare delle religiose e annessi servizi importava maggiori spese alla comunità, dall'altra crescevano i provventi con le doti versate dalle monacande, con le rette sborsate dai parenti delle figlie tenute in educandato, e coi redditi delle loro proprietà.
Da una relazione della prima metà inoltrata del settecento si ha che il monastero possedeva 4.500 pertiche milanesi di terreno, delle quali 1.257 nel territorio di Brugora, coltivate a campi, vigne, prati, e boschi con relative case da massaro, ed altre case da pigionanti.
La masseria di Valle Guidino (di 387 pertiche) era provvista di un torchio e di una cantina a disposizone delle monache. Possedevano pure un molino a sei ruote sul Lambro presso Macherio affittato a due molinai. Sembra che tenessero un'altro molino ad Agliate del quale si servivano per macinare i loro grani.
Gli affitti che riscuoteva il monastero consistevano in una data quantità di uva, frumento, segale, orzo, miglio, legumi; più gli appendizi in capponi, pollastre, uova. Non si parla né di bozzoli, né di granoturco.
In denaro riscuotevano i livelli e gli affitti dei boschi.
Nel 1770 nel monastero vi dimoravano 42 monache e 12 converse, le quali nel 1786 seppero schivare il pericolo di una soppressione, in base alle riforme di Giuseppe II, coll'accettare una scuola gratuita popolare per l'istruzione delle figliole.

*

Sull'orizzonte politico venivano intanto profilandosi dense nubi foriere di gravi avvenimenti, dato il fermento di nuove idee e di nuove esigenze sociali.
Il 15 maggio 1796 le truppe rivoluzionarie francesi entrarono vittoriose in Milano. Cessava la dominazione austriaca, e vi subentrava l'anno dopo la Repubblica Cisalpina.
Nel 1798, per sopperire alle ingenti spese dell'esercito, il governo repubblicano soppresse il monastero di Brugora con altri monasteri e conventi, incamerandone i beni.
Vi erano dimorati in quel momento 30 professe e 10 converse alle quali venne assegnata una pensione vitalizia. (211)
Fabbricati e terreni furono venduti ad un Tomaso Giussani fornitore di scarpe dell'armata francese per lire 12.095, soldi 8 e danari 4. Il possesso effettivo doveva incominciare col S. Martino del 1799, escluse la chiesa, la sagrestia e la casa del cappellano, e coll'obbligo di lasciare un dato numero di locali per quelle ex-monache che volessero rimanere, corrispondendogli ognuna lire 20 annue per affitto.
Il Giussani, un freddo affarista, non fece altro da parte sua che infastidire e molestare le 12 monache e le 6 converse che intendevano probabilmente rimanere: le altre si erano subito allontanate.
Col perdurare della insostenibile situazione, le monache si ridussero ben presto a 4, e da ultimo a 2 cioè alla badessa Bonanomi ed alla priora. Quest'ultime tennero duro fino all'ultimo nella speranza che le cose si potessero accomodare in meglio. Vana speranza!
Il 2 agosto 1803 si trovarono costrette a partire. Il monastero restava totalmente vuoto a disposizione del Giussani.
Dal Giussani, morto nel 1816, casa e terreni annessi passarono in proprietà degli Scola, finché la signora Angelica Ferrario, vedova Lorenzo Scola, con testamento 12 marzo 1907, nominò erede della sua sostanza la Congregazione di Carità di Besana coll'obbligo di fondare un'ospedale per gli ammalati poveri, dedicandolo al nome della defunta unica sua figlia Giuseppina.
L'Angelica Ferrario morì il 21 ottobre 1919.
Quel ricovero è oggi la Casa di Riposo di Brugora, la quale continua in certo qual modo, e attraverso altra forma, l'opera benefica di Eriberto Casati, il fondatore dell'antico monastero.

*

La chiesa attuale col suo campanile non nasconde i segni della sua antichità.
Le colonne con i capitelli romanici ora visibili e già murate nella parete di mezzo della chiesa, ed il portale con l'archivolto decorato d'animali mostruosi e sorretti in basso da mensoloni con teste rozzamente scolpite, ci richiamano la romanica chiesa primitiva del tempo di Eriberto.
In origine era coperta con tetto a capriate.
Fu notevolmente rimaneggiata nella prima metà del cinquecento, e subì altri notevoli ritocchi nei secoli successivi con impostazioni barocche.
Nel coro vi si scorgono resti di notevoli affreschi (scuola del Borgognone?), ed altri ai lati dell'altare del 1750 ma quest'ultimi di scarso valore artistico.
Il chiostro nella sua ricostruzione maggiore rimonta pur esso al cinquecento, e vi si accede passando dall'antica foresteria.
È ad arcate a tutto sesto, con colonne senza unghie protezionali fra il toro e plinto, ed ha al di sopra aperture trifore con colonnette reggenti piccoli archi pur essi a sesto acuto.
Nell'ex-refettorio domina ancora un'impressionante affresco cinquecentesco della Crocefissione di oltre sei metri di lunghezza per un'altezza di cinque.
Dei quattro monasteri di benedettine del Monte di Brianza, è, si può dire, quello che ha conservato le migliori tracce originarie. (212)

DOCUMENTO

« Lista de tutti li libri dil nostro mon.o di Brugora latini et vulgari che in esso si trovano questo dì 14 ott. 1581:
Ciovè una bibia latina, le meditationi di Landolffo sopra la vitta di Gesù Christo latina, li soliloquij di s.to Bonaventura latini, le meditationi i soliloquij il manuale di s.to Augustino latini, il Sumario de la vitta di s.to Gioseffo dil Reverendo p. Isidoro de Solani del ordine di predicatori, duoij libri de colacione (collazione) de s.ti padri latini, uno legendario, una espositione sopra li vangelij dil Reverendo frate Iacob di Voragine, il Marialle di frate Bernardino de Busto: tutti latini.
Il Landolfo, doij legendarij, una espositione sopra li vangelij di Ludovico pictor, le epistole di s.to Hieronimo ad Eustochio, espositione sopra li vangelij di Simone Cassia, il dialogo di s.to Gregorio, le prediche di frate Roberto, la vita di s.ti padri, li avvertimenti monachali di Ludovico dolce, discorsi de la vitta di s.to Paulo di D. Giovan Pietro Besozzo di s.to Barnaba, doij concilij provinciali, doij altri tridentini, lettere spirituali sopra alcune feste di D. Giovan Pietro Besozzo, le regole dil nostro s.mo padre s.to Benedetto: tutti vulgari.
In particular de le moniche portati et donati da solij parenti ad usso però comune:
Prima: D. Antonia Abbadessa: il libro dei Gerson, il manualle del Granato, il Desideroso, il rosario, la vitta de le Vergini de Dionisio certosino, i sermoni di s.to Bernardo, i soliloquij di s.to Augustino. (tutti vulgari).
La Reverenda Priora D. Luduvica: il faretra del divino amore de Gio. Lanspergie certosino, il libro giamato (chiamato) Pange Lingua senza autore, devotte meditationi di s.to Bonaventura sopra la passione dil nostro S.r, spegio (specchio) di Croce, il Gerson: tutti vulgari.
D. Laura: una bibia latina, le due parte dil monte Calvario dil Mondognetto, il Climico, Stimulo di s.to Bonaventura, regula di penitenza di s.to Hieronimo, discorsi della vitta di s.to Paulo di don Gio. Pietro (Besozzi), il rossario de la Madona, discorsi de la Beata Maria Magdalena di D. Gio. Pietro Besozzi, espositione sopra li salmi, le prediche di frate Roberto, oratorio de religiosi del Mondogneto, giardino spirituale di frate Paolo Morigia: (tutti vulgari).
D. Francescha: il faretra del divino amore simile s.to (al soprascritto), il dialogo di s.ta Caterina da Siena, il Stimulo di s.to Bonaventura (tutti vulgari).
D. Benedetta: le meditationi de la passione dii nostro S.r di s.to Bonaventura, i sermoni di s.to Bernardo (tutti vulgari).
D. Arcangela: pratica de la ora.ne mentalle de frate Mathia de Belintano da Sallo (Salò?), giardino spirituale di frate Morigia, brevi avertimenti monacalli di Don Gio. Pietro Besozzo, il dialogo di s.ta Caterina da Siena: tutti vulgari.
D. Candida: guida de peccatori, la vitta di s.ta Caterina da Siena, giardino spirituale dei Morigia, la vitta di s.to Hieronimo: tutti vulgari.
D. Beatrice: fonte di carità di Gio. Bernardo savonese, spegio di Croce, meditatione di s.to Bonaventura sopra la passione dil nostro S.r: tutti vulgari.
D. Hieronima: la vitta di s.ti padri, spegio di Croce, rossario de la Madona, la vita di s.to Francesco, pratica de la oratione del soto autor, tratato de la humiltà, essercitio de oration del Granato, la passione del nostro S.r tradota per Giulio Gratiano Comiliano, tratato del amor di Giesù Christo di frate Hieronimo da Ferrara, essercitio de la vitta cristiana, conforto de li afliti, suma de la dottrina cristiana di m.r Angelo di Vitiobibiena: tutti vulgari.
D. Ellissabetta: pratica dei oratione mentalle di frate Mathia Blintane da Sallo, il Gerson, i sermoni di s.to Bernardo, il Dessideroso, legendario de la Vergine: tutti vulgari.
D. Biancha: dialogo dil Catiaguerra, essercitio de la vitta cristiana, il rossario, guida de peccatori: tutti vulgari.
D. Ippolita: i discorsi di s.to Paulo di D. Pietro Besozzo, la vitta di s.ti padri, il Gerson, la conversione de la Madalena, libro del rossario: tutti vulgari.
D. Costancia: il faretra del divino amore, le meditatione spirituale, guida di peccatori, il ben pensare del ordine di predicatori, tratato de la humiltà dil medemo, i sermoni di s.to Bernardo: tutti vulgari.
D. Colonba: spegio di Croce, dotrina di ben morire di D. Pietro da Luca, li soliloquij et manualle di s.to Augustino, oratorio di religiossi: tutti vulgari.
D. Lucretia: essercitio di vitta cristiana, avertimenti monacali di m.r prete hieronimo di Arabia, pratica de la oratione mentale: tutti vulgari.
D. Brigida: il faretra del divino amore, vitta di s.ta Marta, i miracoli de la madona, il Gerson: tutti vulgari.
D. Aurelia: statto di religiossi di frate Morigia, dialogo spirituale del Catiaguerra, vitta di s.ta Redegonda, Gerson, miracoli de la Madona: tutti vulgari.
D. Cecilia: le meditationi di s.to Bernardo, tessauro de la sapientia evangelica, vitta de la beata Angela de Folino, le rivelationi de la beata Ellissabet et Metilda: latini. Il Climaco, la seconda parte del memorialle del Granato, il spegio de la perfetione di...(rottura del foglio) hieronimo de l'ordine di Capucini, le colationi di s.ti padri, l'istoria de la traslatione de la s.ta Casa de la madona a Loreto, il paradiso di delicie spirituali di D. Serafino da Bologna: tutti vulgari.
D. Angelica: legendario de s.ti del Voragine, espositione de li sermoni di s.to Bernardo sopra la cantica, despressio (disprezzo) del mondo di Giovan Gerson, Spegio di Croce, Spegio de la conscientia di prete Francesco da s.to Erentio: tutti vulgari.
D. Flavia: le meditationi di s.to Bonaventura sopra la passion del nostro S.r, tutte le opere dil Granato, tratato del divino (di) Dionisio certosino: tutti vulgari.
D. Catherina: una bibia, i sermoni di s.to Augustino alli eremitani, tratatto di D. Dionissio Cartusiano sopra la morte, epistole di s.to Ignatio, vocabulario ecclesiastico, Gerson: tutti latini. Le due parti del monte Calvario, il Dessiderosso, pratica de la oratione mentalle, il dispressio dil mondo del ordine de Capucini, vitta di s.to Hieronimo, instrutione spirituale dil nostro S.r di Ludovico Biossia: vulgari.
D. Paula: le vitte de le vergini, faretra del divino amor, la vitta de la beata Caterina bolognessa del ordine di s.ta Giara (Chiara): tutti vulgari.
Veronica: ... (in bianco nel foglio).

* * * * * *

Il Monastero di S. Lorenzo in Brianzola

Chi da Dolzago si incamminava verso il colle di Brianza, quasi a metà strada, incontra il piccolo villaggio di Brianzola, o Brianzora come pur dicevasi anticamente, e oggi impropriamente chiamato Castello di Brianza.
Il ridente paesello fu sede di un antico monastero dedicato a S. Lorenzo martire, ma delle cui vicende ben poco ho potuto rintracciare.
Il tempo e gli uomini hanno disperso le carte del suo archivio.

*

Si ignora pertanto quando e da chi fu eretto.
Il Dozio ci assicura che esisteva già fin dal 1163, e che fosse un monastero di monache benedettine lo si afferma nell'atto di soppressione. Il Dozio lo ha ritenuto in origine un monastero di vergini agostiniane, e che ai tempi di Sisto IV la dignità abbaziale fu soppressa, e tramutata in priorato da governarsi dai canonici dello stesso Ordine, nei modi già prescritti da Paolo II.
E' altresì ricordato nel Liber Notitiae ecc. (op. cit.) del secolo XIII: nella chiesa vi era un altare dedicato a Santa Maria.
Rimase sempre un piccolo cenobio, scarso di redditi, e per conseguenza di poche monache, così che nel 1398 fu estimato per sole lire 3, soldi 12 e denari 8.
Finì soppresso nel 1470, e ridotto coi suoi beni a semplice beneficio.
« Papie ij Martii 1470.
Venerabili D. David de Lanterijs Canonico Comensi. (213) Precipuam gerentis fiduciam de doctrina et bonitate vestra, contentamur sicque vobis scribimus, ut ad executionem mandati apostolici vobis directi de extinguendo dignitatem prioratus et ordinis Sancti Benedicti in Monasterio Monalium Sancti Laurentij de Brianzola Mediolanensis diocesis, et erigendo Monasterium ipsum in beneficium seculare debite procedatis, conferendo deinde illud Venerabili Magistro Ambrosio de Maynerijs ordinis minorum Sacre Theologie professoris, si iuxta dicti mandati dispositionem et alias suas dispensationes retinere ipsum licite, et sine cuiuspiam iniuria posse cognoveritis, quod eo pacto nobis vehementer gratum erit.
Ia. episcopus Papie ». (214)
*

Senonché in un istrumento di locazione del 14 novembre 1510, da parte del commendatario Andrea Biglia, il monastero è chiamato Priorato di S. Lorenzo «ordinis S. Augustini ecclesiae mediolanensis »; e negli Atti di visita del luglio 1611 del card. Federico Borromeo la chiesa è detta « olim ordinis S.ti Augustini canonicorum regularium lateranensium, nunc vero perpetuo commendata sub titulo Prioratus, quam obtinet presbiter Iacobus de Ripa ». (215)
Quando e per qual ragione sia stato un tempo Priorato agostiniano non mi risulta. Ma questo non è motivo per escludere che il monastero, nel suo antico passato, possa essere stato commendato o appartenuto ai canonici regolari lateranensi dell'Ordine di S. Agostino.
Trovo scritto che le ultime monache furono trasferite nel monastero di Bernaga.
Comunque sia, nei primi anni del secolo seguente vediamo il nostro priorato, beneficio semplice, commendato al milanese Ill.mo e Rev.mo Andrea Biglia « iuris utriusque doctor »... « decretorum doctor ».
Il Biglia, essendo la chiesa di S. Lorenzo quasi distrutta e inabitabili le case dei massari e quella annessa alla chiesa, e i terreni malandati, e trovando perciò necessario riparare il pessimo stato dei caseggiati cadenti e dei terreni isteriliti, domandò al Sommo Pontefice di essere autorizzato a concederli in livello perpetuo a Giovanni Antonio Biglia.
Ma da furbacchione, non per nulla era un legisperito, nella supplica non fece menzione che quell'Antonio era suo fratello, ed asserì falsamente che i beni del priorato fossero incolti zerbidi ed in ultima ruina per le guerre, e che detti beni ammontassero a non più di circa 300 pertiche.
Aggiunse che il ricavo di detti beni non era che di lire 200 imperiali, e che l'Antonio Biglia ne avrebbe pagate 240 annue a livello perpetuo coll'obbligo di sborsare una volta tanto lire mille per riparazioni.
La domanda fu esaudita.
Ma quando si passò alla misura di quei beni si trovò che ammontavano a 805 pertiche, ben coltivate a campi, prati e vigne.
Quei terreni erano situati per la maggior parte in Brianzola e nei territori dei dintorni (Rovagnate, Ello, Dolzago, Molino Nellone), e pochi altri in Ruginello, in territorio di Brivio oltre l'Adda (Valsanmartino), in Merone (Pieve d'Incino), e in Seregno.
Vi erano inoltre annessi parecchi livelli e legati privati, che gli obbligati non si curavano più di soddisfare.
I maggiori proprietari del luogo, dopo i Biglia, erano i Canali, nobile famiglia, agli ascendenti dei quali si deve probabilmente l'erezione del piccolo castello di Brianzola (in un locale si osservano tracce di affreschi trecenteschi rappresentanti caccie), (216) e dell'attigua chiesuola o oratorio di S. Margherita: chiesuola già quasi tutta distrutta nel 1567, e fatta perciò demolire da S. Carlo nel 1571, trasportando le sacre reliquie in S. Lorenzo. E' ricordata fin dal secolo XIII da Goffredo da Bussero. (217)
I Canali furono tra le principali famiglie briantine che abbracciarono e sostennero la causa di Francesco I Sforza nella conquista del ducato di Milano e da lui privilegiati.
All'Andrea Biglia nel 1558 successe nella commenda Mons. Melchiorre Biglia figlio del sopradetto Antonio.

*
In quali condizioni versava la chiesa di S. Lorenzo, sotto i Biglia, prima che S. Carlo venisse personalmente in visita? Ce le fa conoscere il padre Leonetto Clavono nella sua visita del 22 ottobre 1567. (218)
La chiesa era a tre navi, divise da colonne di pietra; lunga 30 braccia e larga 20 « tota fere ex lapide siliceo, antiquissima », e con le volte cadenti per vetustà; di tre parti due erano coperte di sole tegole. Pavimento rotto. Una campanella pendeva da un pilastrello arcuato eretto sopra la porta della chiesa. (219)
Nella chiesa trovò adunato miglio e panìco triturato, e molte immondizie.
Non aveva paramenti per celebrare la messa: il cappellano Gio. Battista Ripamonti doveva farsegli imprestare dal curato di Dolzago, Bernardino Pallavicini.
Nella navata di destra vi era un muro con una grata di legno intermedia, dal che, osserva il Leonetto, appare che vi stava il coro delle monache, come infatti attestarono gli uomini del luogo.
I locali dell'antico chiostro o clausura, erano occupati dal cappellano, dal massaro del beneficio, dal granaio, ecc.
Lì vicino si stendeva il piccolo cimitero.
Il cappellano, il quale godeva altro beneficio o cappellania in Oggiono, celebrava nei giorni festivi e una volta entro la settimana in S. Lorenzo, e percepiva per compenso cento lire e due brente di vino all'anno.
Il commendatario Mons. Melchiorre Biglia aveva promesso di aumentare il salario a lire 150 annue.
Gli uomini di Brianzola dichiararono al visitatore che i beni del priorato erano stati perpetuamente livellati a vil prezzo con grave danno della chiesa. In realtà rendevano lire duemila (e non duecento come aveva affermato l'Andrea Biglia), e che solamente quelli del territorio di Brianzola fruttavano lire 500, più il vino raccolto a metà (circa 100 brente), e gli appendizi.
È da osservare che in quei tempi la cavata del vino era la maggiore nella Brianza collinosa. Si coltivava miglio, panico, fagioli, fave, rape, segala, frumento. Non era ancora entrato nell'uso la coltivazione del granoturco, e ignota era allora la patata. Nell'alimentazione avevano molta parte le castagne e la frutta. Quel tanto di frumento che si raccoglieva spettava quasi tutto al padrone.
Quei di Brianzola supplicarono il Leonetto di erigere il luogo in parrocchia indipendente da S. Vittore di Brianza, data la lontananza e la strada faticosa, assegnando al parroco residente i beni spettanti al priorato situati nel loro territorio.

*

In quella circostanza il Leonetto se ne venne a Bevera, dove visitò un oratorietto privato eretto nella casa del nobile Gio. Ambrogio Perego. Che ci fossero altri oratorii, cappelle o tabernacoli non vi è cenno, e nemmeno che corresse voce di un'apparizione della B. Vergine ad una giovinetta.
Recatosi il successivo novembre a visitare la parrocchia di Barzago, gli si presentò un nobile Gio. Paolo Perego, il quale a nome suo e di quei di Bevera lo pregò di unire il luogo di Bevera al vicino Barzago, distaccandolo dalla lontana cura di Brianza. E l'anno seguente, certamente dietro relazione del padre Leonetto, S. Carlo mandò al vicario foraneo di Missaglia di unire a Barzago le cascine di Bevera, Nellone, e Siraga col molino.
La definitiva unione di Bevera con Barzago (esclusi Nellone e Siraga che rimasero a Brianzola) avvenne più tardi col card. Federico Borromeo nel 1611, per via di un santuarietto che stava sorgendo in onore della B. Vergine, in seguito alla voce che ivi fosse apparsa la Madonna ad una fanciulla.
Noti il lettore che siamo in un'epoca di facili credenze, ma di fervida pietà, e che tale presso a poco fu l'origine in quei tempi dei santuari della Madonna del Bosco, di Concesa, ecc.
Quando sorse e si divulgò in Bevera e nei paesi circonvicini tale credenza, e che dapprima siasi costruito sul posto una cappelletta campestre in onore della Madonna non mi è possibile precisare.
Negli atti delle visite pastorali di S. Carlo nei villaggi della pieve di Missaglia nel 1571 e nel 1583 non vi è cenno esplicito qualsiasi, e nemmeno risulta che il santo arcivescovo si recasse a Bevera.
Tuttavia tra le carte della visita del 1571 a Barzago vi si trova un enigmatico e rudimentale schizzo di quattro linee, senza data, quasi uno scarabocchio, con sotto la parola Bevera. Qualcuno ha congetturato che S. Carlo abbia con questo suggerito di costruire una cappella sul luogo della creduta apparizione; altri invece che possa indicare una cappella ivi già esistente. Ma non sono che congetture: cosa in realtà volesse significare l'autore di quel tracciato, e a quale scopo, non e detto, e nemmeno si riesce a comprenderlo chiaramente.
Ad ogni modo col passare del tempo incominciò a prendere consistenza l'idea di erigervi un decoroso oratorio. Il vescovo Francesco Cittadini, venuto a Barzago l'11 ottobre 1603 a consacrarvi la parrocchiale, avrebbe colto l'occasione per eccitare gli abitanti, nobili e popolo, alla devota impresa. E alcuni signori avrebbero promesso il loro aiuto.
La fabbrica venne iniziata nel 1605 su disegno dell'architetto milanese Bernardi Sassi. Il terreno per la costruzione fu donato dal nobile Alessandro Sirtori del luogo di Sirtori.
I nobili Gio. Antonio e Gio. Pietro Perego si obbligarono, con istrumento 8 febbraio 1605, rogato da Giacomo Antonio Cerruti cancelliere arcivescovile, di farvi celebrare due messe feriali settimanali, obbligo che il card. Federico Borromeo richiamò in vigore nella sua visita pastorale del 1611, onerandoli a sborsare ogni anno a questo scopo, lire 60 imperiali, e imponendo una sollecita e definitiva sistemazione del nascente santuario dedicato alla Natività di Maria.
Il santuario divenne poi uno dei più venerati della Brianza.
Nel 1750 ebbe interamente rifatta la facciata, nel 1902 fu decorata e affrescata dal decoratore Secchi e dal pittore Morgari. (220)
Non sarà del tutto inutile ricordare, che quanto si è scritto nel passato, e talora si continua a ripetere, intorno ad un preesistente tabernacolo e relativi avvenimenti, non è che un'invenzione storicamente romanzata di Cesare Cantù nel suo racconto: La Madonna d'Imbevera, come del resto afferma lui stesso nel volume terzo della Grande Illustrazione del Lombardo Veneto.
Di positivo intorno a questa apparizione non si conoscono, almeno finora, che i brevi e generici accenni del card. Federico nella sua visita pastorale del 1611, dei quali ne fa parola anche I. Cantù nelle sue Vicende della Brianza, vol. 2, pagina 58 e sgg.; ossia che si era incominciato a costruire un oratorio in occasione, come correva voce, di una qual visione ch'ebbe una fanciulla, la quale aveva riferito di aver visto e parlato con la Madonna, o come viene espresso nei decreti: « Hoc Oratorium quod aedificari coeptum est ex elemosinis collatis intuitu B.me Virgins et praetextu quod quaedam puella retulisset vidisse se B. Virginem quae eam collocuta etiam fuisset quam primum perficiatur. In hanc causam erogentur omnes oblationes adhuc factae et quae in dies fiunt. Verum quia populi concursus paulatim refrigescit, ita ut sperandum non sit Oratorium elargitionibus eius perfici brevi tempore, necesse erit ut pollicitationes per nonnullos fideles ac pios factae impleantur, et nobiles ceterique huius pagi incolae quod defuerit, suppleant ne diutius fabrica imperfecta remaneat.
Perfecta fabrica, ita ut iudicio Vicari foranei possit ididem celebravi, missae duae feriales in singulas hebdomadas per sacerdotem a nobis approbatum celebretur, cui per D. Io. Antonium et Io. Petrum Peregos solvantur quotannis lib. sexaginta. Imp. servata forma instrumenti promissionis et assegnationis per eos facta coram Vicario nostro Generali anno 1605 die 8 februari recepto per Iacobum Antonium Cerrutum notarium actuarium Cancelleriae nostrae Archiepiscopalis.
Declaramus insuper ad omnem bonum finem et effectum, dictum Oratorium esse et perpetuo censeri debere membrum parochialis Ecclesiae Barzaghi.
Et ideo nullas functiones parochiales nisi per eumdem parochum, aut per alium sacerdotem de illius licentia in eo exerceri non posse, sub poena Oratorii interdicendi».
È strano che nessun ecclesiastico o laico contemporaneo ci abbia lasciato una qualsiasi particolare relazione di tale apparizione, se realmente avvenuta.
*

A conclusione della sua visita a Brianzola il Leonetto emanò questi ordini:
1) Il massaro e gli altri, dimoranti nei locali del chiostro o casa della chiesa, sgombrino per S. Martino, ritornando ad abitare nei loro vecchi locali colonici, e tutta la casa sia lasciata a disposizione del cappellano.
2) Nella chiesa non vi sia più libero passaggio, e nemmeno si conservino in essa cose profane: il cappellano tenga chiusa la chiesa nei tempi debiti.
3) Si eseguiscano le necessarie riparazioni alla chiesa, e si rimettano gli altari secondo le prescrizioni sancite nelle Istruzioni Generali.
4) Si faccia la sagrestia dov'è il coro delle monache, e si provvedano i paramenti necessari al divin culto.
5) Sia posto sotto sequestro il vino (51 brente in tre botti) esistente nella cantina coerente alla chiesa, il miglio e gli altri grani adunati nel granaio di detta casa della chiesa. Le chiavi della cantina e del granaio siano consegnate al console del comune di Brianzola (Ottaviano de Manzochis), e da rimettere a nessuno senza speciale licenza dell'arcivescovo.
Il prete Francesco Civilini, cappellano di Giovenzana e Cagliano dovrà esser presente all'esecuzione di questi ordini, e gli sarà data per questo congrua mercede.
Ordini che solo in minima parte ebbero esecuzione, essendovi di mezzo i nobili Biglia. Coi Biglia non c'era da scherzare. Se qualche villano del luogo avesse osato ficcare il naso nelle faccende di quei signori, avrebbe corso il pericolo di qualche archibugiata nella schiena o qualcosa di simile, come non di raro avveniva da parte dei signorotti, o dei loro rappresentanti, durante il dominio spagnolo.

*

Il desiderio della popolazione di Brianzola di far parrocchia in luogo fu anni dopo soddisfatto dal card. Federico con definitivo istrumento del 7 settembre 1609, aggregandovi inoltre Beverino, Boffalora, le case dei molini di Bevera, Nellone, Siraga, Caraverio, Colombario, Ceppo, Cologna.

*

I Biglia avevano concesso una casa d'abitazione (la così detta casa della chiesa) presso la chiesa di S. Lorenzo per i rettori o curati del luogo, con la clausola che qualora la casa fosse loro abbisognata, il curato la doveva senz'altro sgombrare.
Nel 1617 il parroco D. Giacomo Riva, appoggiandosi a decreti emanati da S. Carlo, cercò di liberarsi da tale obbligo ricorrendo alla Santa Sede. Apertasi la causa, il Riva ebbe dapprima sentenza favorevole dal vescovo di Bergamo a ciò delegato, ma il conte Baldassare Biglia ricorse in appello ed ebbe causa vinta dal Vicario Generale della Curia di Novara eletto a trattare tale appellazione. Il Riva fu condannato alle spese del processo.
Anche il vescovo Francesco Biglia non venne meno alla pignoleria del suo casato, sfruttatore dei detti beni ecclesiastici, riguardo a questo precario.
Quando con istrumento del 30 maggio 1650 investì il curato D. Alessandro Raulo, impose che l'uso della casa fosse di triennio in triennio finché fosse piaciuto a detto vescovo e suoi, e coll'obbligo di tenerla in efficienza e di consegnare ogni anno due tordi grassi.
Ai conti Biglia successe, per via di compera, nel godimento dei beni del priorato il causidico milanese Biagio Locatelli, il quale con istrumento del 4 luglio 1663 concesse la casa in uso al parroco con le stesse clausole del vescovo Francesco Biglia, non esclusi i due tordi grassi.
Il figlio erede Giuseppe richiamò per suo uso quella casa, e col parroco venne a questa transazione, e cioè che il Locatelli, gratuitamente e per sua liberalità, assegnava in perpetuo al parroco D. Carlo Mauri e successori una casa in Brianzola, presso la gradinata della chiesa, coll'obbligo di celebrare ogni anno dieci messe da morto in suffragio dei defunti della famiglia Locatelli, dichiarandosi con ciò libero da qualunque impegno in merito, e senza pregiudizio dei suoi diritti sui beni dal priorato (Istr. 10 giugno 1674).
Così ebbero fine i non pochi contrasti ch'ebbero a sostenere i parroci di Brianzola coi commendatari per questo precario.

*

Recentemente il parroco D. Paolo Gallizia trasportò il centro parrocchiale nella sottostante Cologna, il punto più popolato della parrocchia ed ove già esisteva l'antico oratorio di S. Donato menzionato fin dal secolo XIII, costruendovi una moderna chiesa parrocchiale con casa d'abitazione per il parroco. (221)

* * * * * *

Il Monte di Brianza

e i Privilegi di Francesco I Sforza

Monte di Brianza, come denominazione territoriale e precisamente di quella parte collinosa al nord-est della Martesana superiore, lo trovo usato per la prima volta in un atto ufficiale del 1412.
Il 10 luglio di quell'anno prestarono giuramento di fedeltà al nuovo duca Filippo Maria Visconti, per mezzo di procuratori, i comuni di Olginate, Garlate, Ospitale, Villa, Capiate, Barzanò, Greghentino, Mellianico, Aizurro, Veglio, Biglio (Bulli), Dozio, Consonno, Beverate, Arlate, Imbersago, Robbiate, Paderno, Verderio superiore, Verderio inferiore, Sartirana, Cassina, Calco, Olgiate, Olchielera, Monticello, Mondonico, Camsirago, Fumagallo, Cagliano, Giovenzana, Nava, Sarizza, Tegnone, Bestetto, Piecastello, Marconaga, Figina, Vergano, Villa Vergano, Ello, Imberido, Oggiono, Castrum Perachis (Castello presso Oggiono), Annone, Civate, Dolzago, Cogoredo, Brianzola, Cologna, Beverino, Prestabio, Zerbina, Hoe, Rovagnate, Tremonte, Bosco, Cascinago, Sala Crescenzago, Cereda, Galbusera (Vallebissera), Crippa (Crepa), Viganò, Monticello (in pieve di Missaglia), Casirago, Casate Vecchio, Missagliola, Contra, Tignoso, Missaglia, Cassina de' Barriani, Cassina d'Albareda, Cernusco Lombardone, Cremella: « omnia communia Montisbriantie contrate Martexane ». (222)
Osservando una carta topografica della Brianza si vede che questi comuni non erano tutti raggruppati intorno al colle di Brianza, ma, in buona parte, qua e là situati nei territorio delle pievi di Garlate (ora di Olginate), Oggiono, Brivio e Missaglia, per cui è da ritenere che anche gli altri comuni di queste pievi, e non nominati nel sopradetto documento, facessero allora parte del Monte di Brianza, per quanto, ad esempio, il comune di Cassago, confinante con Cremella, nell'atto di giuramento prestato il 17 luglio sia detto semplicemente in pieve di Missaglia. (223)
Si tratta però sempre di una plaga dai confini ancora non ben definiti anche negli atti ufficiali. Infatti il 30 giugno avevano prestato il giuramento di fedeltà molte delle primarie parentele briantine delle quattro pievi sopracitate e di altre terre circonvicine della pieve di Agliate ultra Lambrum e delle squadre dei Mauri e di Nibionno, ma nel documento non ricorre la locuzione territoriale di Monte Brianza, benché il territorio da esse abitato fosse il briantino, quale fu poi definito da Francesco Sforza nel 1451, in base ai privilegi concessi da Filippo Maria nel 1440 nei quali appare altresì per la prima volta il termine di Università del Monte di Brianza. (224)
Tale indeterminatezza di confini, che troviamo riflessa in questi come in altri documenti della prima metà del secolo XV, si spiega col fatto che la nuova locuzione di Monte di Brianza, come rappresentativa di un notevole territorio, veniva introducendosi a poco a poco, mentre gli atti ufficiali ritenevano ancora per lo più la vecchia denominazione di territorio martesano. (225)

*

Spontanea viene qui la domanda del come e del quando nacque la nuova denominazione territoriale.
Brianza, oggi piccola frazione di Nava, sorge in vetta al colle dello stesso nome, propaggine del monte San Genisio.
Il prof. Carlo Salvioni ritenne, e mi pare con ragione, che la base etimologica del nome non possa essere che la celtica brig (collina, monte, altura): quella base celtica da cui derivarono Briançon e tanti altri nomi. La forma Bruanzu invece di Brianza (forse da attribuire ad imperizia dell'ammanuense), al postutto, può dipendere da bri, visto che vi hanno esempi di un b che influisce su la vocale anche non immediatamente attigua assimilandosela, riducendola cioè ad o ovvero u. (226)
Non poche leggende fiorirono intorno a Brianza, delle quali la maggior parte probabilmente elaborate, a quanto sembra, dagli stessi cronisti e storici milanesi, i quali ce le tramandarono nei loro scritti. (227)
In ordine di tempo è Galvano Fiamma (1283 - 1344) il primo che nelle sue Cronache pretese dar credito alla leggenda, ricavandola da cronisti forse a lui anteriori, che un eroe troiano chiamato Briono fondasse la città di Brianza. (228) Tristano Calco, scriverà che la regione briantina fu così detta « a Briantia olim oppido... (229)
Forse, se non di una città, potrebbe trattarsi di un castello ivi eretto - a parte i Troiani - in epoca medioevale indeterminata, come lascerebbe supporre il nome di Piecastello, che porta un gruppo di case ai piedi di quel colle.
Vi è inoltre memoria che in S. Vittore di Brianza fu sepolto un Merabaudo, come
da iscrizione lassù reperta: potrebbe darsi che sia il generale romano sconfitto dall'usurpatore Massimo nelle Gallie nel 383. (230)
Comunque sia, qualcuna di queste leggende, avente un certo qual fondamento storico, deve aver data e conservata, fin da tempo antico, celebrità al colle, così che volendosi designare la posizione di un villaggio in quelle parti si prendeva come punto di riferimento il colle o monte di Brianza.
Benché negli atti ufficiali della seconda metà del secolo XIV la plaga circostante al colle di Brianza venga chiamata comunemente col termine di Martesana e i paesi classificati sotto le rispettive pievi, (231) è tuttavia altrettanto certo che nel linguaggio popolare correva già l'uso di riferire quei luoghi, sia pure in modo indeterminato, al Monte di Brianza. Non è logico argomentare che siasi introdotto di sbalzo nei primi anni del secolo XV. Infatti il Fiamma nella cronaca Manipulus Florum, scritta verso il 1340, parlando della città di Barra, presso Civate, la dice situata nel Monte di Brianza. (232)
Il Dozio congetturò che si introducesse a grado a grado l'uso volgare di chiamare così quella regione dal fatto dell'erezione in cura o parrocchia della chiesa di S. Vittore in Brianza nel 1429, smembrandola, dalla lontana plebana di Missaglia, coi paeselli di Nava, Bestetto, Brianzola, Peslago, Perego, Rovagnate, Hoe, Giovenzana, Cagliano e terre limitrofe fino alla Molgora da Mondonico e Monticello. (233)
La congettura del Dozio non regge per il motivo che tale uso lo troviamo già accolto nel citato documento officiale del 1412. Se mai, avrà servito a rinforzarlo, poiché l'avvenimento dell'erezione della vasta parrocchia di S. Vittore assumeva per quei tempi una certa quale importanza ecclesiastica e civile.

*

La ragione principale, se non forse l'unica, per la quale sorse e prese effettivamente consistenza la denominazione territoriale Monte di Brianza per la piaga nord-est della Martesana superiore, mi pare si debba vedere, più che in altro, nelle esenzioni concesse ai ghibellini di quel territorio da Gian Galeazzo Visconti nel 1385, confermate e allargate dai suoi successori, per cui quella regione venne ad assumere una situazione particolare.
Queste immunità ed esenzioni traggono la loro prima origine dalla guerra del 1373.
Già Bernabò aveva concesso privilegi alle fedeli pievi ghibelline di Garlate e di Oggiono, e ad altre famiglie ghibelline della Martesana, (234) quando Gian Galeazzo, agli inizi del suo dominio (1385), per conquistarsi le simpatie dei suoi sudditi, sbigottiti per il modo col quale aveva trattato lo zio confinato a morire nel castello di Trezzo, riconfermò ed ampliò i privilegi ai ghibellini della Martesana e perdonò ai guelfi. (235)
Giovanni Maria, successo al padre nel 1402, volle abolite nel suo dominio tutte le immunità ed esenzioni, tranne quelle concesse da Bernabò ai parenti del Duca ed alle pievi di Garlate e di Oggiono e loro aderenti. (236)
Filippo Maria alla morte del fratello (1412) aveva trovato il dominio paterno in completo sfacelo. Egli si mise tosto con faticoso e tenace lavoro a ricostruirlo. Nei primi anni del suo governo sappiamo che riconfermò a parecchie parentele briantine i privilegi loro conferiti dai suoi antecessori, finché ne1 1428 al 20 di febbraio riconfermò ai ghibellini quelli concessi dal padre il 1 giugno 1385, e che dodici anni dopo (1440) volle rendere più larghi. Il duca nel Monte di Brianza aveva una popolazione di fiducia, e all'occassione ne traeva dei soldati fedeli alla sua causa. Naturalmente egli veniva ricompensandoli con privilegi.

*

Nel 1428 l'Adda segnò definitivamente il confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica Veneta.
La regione circostante al colle di Brianza, prospettante la valle bergamasca di S. Martino in prevalenza guelfa, ebbe molta importanza nei fatti guerreschi della seconda metà del secolo XIV e della prima metà del secolo seguente. Gli abitanti, nella maggior parte ghibellini, furono sempre ligi ai Visconti. Verso Francesco I Sforza, nei momenti per lui difficili e decisivi per la conquista del ducato, mantennero poi una fedeltà a tutta prova.
Il tradizionale ghibellinismo dei brianzoli affonda le sue radici negli avvenimenti della abbazia di Civate fin dal tempo di Federico Barbarossa.
Non è il caso di richiamare avvenimenti già noti.
A premiare tanta fedeltà lo Sforza non solo confermò le esenzioni concesse dai suoi predecessori e particolarmente quelle del 1440 di Filippo Maria, ma volle ancora « maiorem concessis per prefatum nunquam delende memorie patrem et socerum nostrum honorandissimum, suosque predecessores Ill.mos dominos Vicecomites liberalitatem et gratiam impartiri atque concedere ».
Con lettere patenti del 25 dicembre 1451 erigeva il Vicariato del Monte di Brianza con un particolare Vicario, avente giurisdizione fino a venti lire terzole, indipendentemente dal Capitano della Martesana, e, per conseguenza, dal suo Vicario.
Non vi è determinato il luogo nel quale doveva risiedere il Vicario, e fu forse per questo che il Monte di Brianza non ebbe un capoluogo fisso.
Il Dozio e il Pagani hanno pensato che fosse Barzanò. (237) I documenti sforzeschi, per lo meno quelli ch'ebbi alla mano, ci assicurano che il Vicario, nei primi tempi, teneva il suo banco giuridico in Oggiono, poi susseguentemente in Barzanò, ed anche a Merate per più secoli, al dir del Redaelli, ma senza recar prove. (238)
Il vicariato comprendeva le pievi di Garlate, Oggiono, Missaglia, Brivio con Ronco, (239) e, in quanto tale, confinava a nord con le pievi di Lecco e di Incino, ad ovest con le squadre dei Mauri e di Nibionno e con la pieve di Agliate, ad est con l'Adda, a sud con le pievi di Pontirolo e di Vimercate.
Invece l'Università del Monte di Brianza (Universitas Montis Brianzie) in forza delle esenzioni comprendeva inoltre le squadre dei Mauri e di Nibionno (della pieve d'Incino ma separate dal Lambro), (240) la parte della pieve di Agliate ultra Lambrum, e parecchie località situate nelle pievi di Vimercate e Pontirolo, nelle quali vi erano degli esenti.
Veniva pertanto a confinare a nord con le pievi di Lecco e di Incino, ad est coll'Adda, ad ovest col Lambro. I confini a sud appaiono alquanto incerti. Qualora, e forse non a torto, si vogliano comprendere la Pieve di Pontirolo al di qua dell'Adda (oggi vicariato di Trezzo), e quella di Vimercate per il fatto che in esse vi erano dei privilegiati, i confini a sud dovrebbero raggiungere la pieve di Monza e quella di Gorgonzola.
Più di così non è possibile allargare il territorio che costituiva allora collettivamente l'Università del Monte di Brianza, (241) ossia l'originaria Brianza.
Le pievi di Cantù, Asso (la Vallassina si reggeva con statuti propri), Incino, (242) Mariano, Carate, Desio non ebbero mai a che fare coll'Università briantina.
Si noti inoltre che nel 1523, allorquando Francesco II Sforza prese il divisamento di rifare in modo più perfetto l'estimo fatto eseguire dal nonno, il bando fu pubblicato nei capoluoghi di Oggiono, Garlate, Missaglia, Agliate, Brivio, Tabiago e Bosisio per le squadre dei Mauri e di Nibionno, ma non a Pontirolo o a Trezzo e nemmeno a Vimercate che pure era il capoluogo della Martesana.
Dal che ritengo verosimile che gli esenti delle pievi di Pontirolo e di Vimercate erano praticamente convenzionati con le pievi briantine confinanti.
E poiché non mi fu dato di rintracciare una qualsiasi carta geografica anteriore al secolo XIX che delineasse con una certa qual precisione i confini dell'antico Monte di Brianza, (243) l'atto di Francesco I Sforza del 1451, è da ritenersi fondamentale in merito.
Il Ripamonti, il quale dimostra, a differenza di altri storici briantini, di aver conosciuto e tenuto calcolo dei privilegi dello Sforza, dopo aver circoscritto in modo indeterminato la Brianza dei suoi tempi tra l'Adda e il Lambro e tra Lecco e Monza, e questo forse per prospettare al lettore un facile riferimento, scrive che « quinque regionibus universa Briantea provincia terminatur et definitur, extra quem limitem nihil est Briantaei sanguinis et iuris; atque contermini quidam pagi sive propter immunitates et privilegia, sive propter caeteram eius nominis gloriam, quoties ut in id corpus assumerentur, efflagitavere, pubblice sunt confutati ». (244)
Perché poi solamente cinque regioni, o pievi, costituissero, secondo il nostro storico, la provincia briantina, non lo dice. Dai privilegi sforzeschi dovrebbero essere quattro e non cinque le pievi formanti il vicariato. La quinta regione dovrebbe perciò corrispondere a quella parte della pieve di Agliate situata oltre il Lambro (ultra Lambrum). (245)


*

Nonostante che lo Sforza entrasse signore in Milano nel 1450, la guerra tra il duca e i veneziani durò ancora quattro anni. Perciò nel 1452 diede ordine al capitano della Martesana di ridurre, tra l'altro, a fortezza il Montebarro.
Conclusa la pace nel 1454, e ritornata l'Adda confine tra i due stati, due anni dopo

per togliere delle ingiuste ineguaglianze fece redigere un nuovo estimo dell'Università briantina, incaricandone Gio. Francesco de Mangano vicario generale e commissario. (246)
I brianzoli fin che visse il primo Sforza, in complesso si trovarono bene. Una sol volta trovo che abbia spiegato contro di essi una certa energia, e cioè quando nel 1459 ingiunse a Paolo Vimercati, vicario del Monte di Brianza, di procedere contro i medesimi alla riscossione di somme arretrate dovute alla Camera ducale, incominciando dalle calende di gennaio del 1458 in dietro. Trattandosi di una riscossione sforzosa concedeva al vicario e ai suoi dipendenti, di portare liberamente le armi giorno e notte.
L'Università brianzola, per non inimicarsi il duca e vedersi magari annullati i privilegi, decise di aumentare l'anno seguente il tributo annuo convenzionato da duemila e quattrocento fiorini, computato il fiorino a trentadue soldi imperiali, a quattromila. Il duca aggradi più che volontieri, e si capisce, quella decisione, per cui il 15 settembre 1460 riconfermò i privilegi già concessi nel 1451, assolvendo comunità e persone che fossero incorse in multe o condanne.
I privilegi di Francesco I Sforza segnarono il massimo delle benevolenze viscontee sforzesche ai brianzoli, e divennero la loro Magna Charta alla quale naturalmente ci tennero molto.
In seguito non si ebbero tutt'al più che delle riconferme sia dalla stessa casata ducale che dalle successive dominazioni straniere.

*

Le dolenti note incominciarono con la morte di Francesco Sforza (1466). Il figlio Galeazzo Maria non ne voleva sapere di riconfermare i privilegi del padre.
I brianzoli ricorsero alla duchessa madre Bianca Maria, presentandole un memoriale, nel quale si dimostrava, dopo tutto, quanto da essi si pagava al tempo di Filippo Maria in confronto di allora. La duchessa, la quale aveva anche di recente potuto apprezzare la loro fedeltà, quando cioè l'anno prima, temendosi gravi complicazioni per il Ducato, i brianzoli si dichiararono pronti « ad esponere oltre le loro persone ogne sue facultate », e di prendere le armi al minimo cenno, (247) ne prese a cuore la cosa e così scrisse al figlio:
« Ducissa Mediolani etc.
Illustrissime fili noster suavissime.
Nuy non possemo fare che non habiamo in ricordo et che non pigliamo in protectione quilli qualli ne sono sempre stati fideli et servitori como sono gli homini del Monte de Brianza che sono venuti da Nuy e n'hanno sporta la supplicatione qui inclusa per la qualle ne supplicano quello che vederay. Tu te dey ricordare che dicti hornini como habiamo dicto ne sono servitori et fidelissirni schiavi, e per Nuy non hanno guardato ad mettere la roba, e la vita, e li folli quando è bisognato per mantenirne in stato, e se non fusseno stati loro male haveressemo facto li facti nostri, e forsi non saressemo ove che siamo, te li ricomandamo che avendo rispecto a li loro meriti Voglie essere contento de non darli impacio de quello tu gli richiede, et de farli observare li suy privilegii, sicomo adomandano, e quando pur per qualche rispecto non ti paressi de farlo in tuto, che però non saria che ben facto per le casone predicte, che almeno gli tracti in modo cognoscano siano racognosciuti de la fede e meriti suoy, e perché tu intendi questo procedere de nostro proprio core et mente, habiamo vogliuto sottoscrivere la lettera de nostra mano, che non è nostra usanza de fare.
Ex Mediolano die XXIIII oct. 1467.
La tua madre Bianchamaria de mane propria.
Galasius »
Galeazzo Maria fece il sordo e nessuna riconferma fu fatta.
Il vicariato del Monte di Brianza, il cui titolare veniva scelto a beneplacito del duca e durava in carica a tempo indeterminato, si concedeva come premio o ricompensa a quei familiari ducali che si distinguevano per fedeltà e zelo. I titolari demandavano, col consenso del duca, ad un giurista di loro scelta il disimpegno dell'ufficio. Vi era perciò annesso al vicariato«l'officium notarie Civilium Montis brianzie », che si concedeva pure coll'assenso del duca.
Soprusi verso gli amministrati non ne mancavano e di lamentele in proposito ce ne sono parecchie.
Un'altra fonte di guai per i brianzoli erano il commissario e gli officialì ducali dei porti di Olginate, Brivio e Paderno, la cui mansione principale era di impedire l'esportazione di grani nel Veneto. Questi officiali, con la pretesa di farsi pagare i salari, « commettevano grandi robarie et oltraggi ». I brianzoli ricorsero al duca osservando che non erano tenuti a pagamento alcuno, e che perciò volesse scrivere al vicario del Monte di Brianza di non dar corso alle pretese di detti officiali, « attesa la grande miseria et penuria nel paese ».
Si volle per di più imporre agli uomini del monte di Brianza un aumento sull'importo del sale. Nuovo ricorso al duca dei brianzoli, perché attesa la loro fedeltà, « et attenta etiam magna peste que viguit in istis temporibus retroactis in dicto Montisbriantie », si scriva al commissario e al vicario di aver riguardo dei loro privilegi. (248) Il duca non voleva sentire ragioni.
I brianzoli esasperati minacciarono di emigrare. Le cose si erano ridotte a tal punto che Ambrosino de Longagnana, con lettera del 4 febbraio 1476 datata dal castello di Porta Giovia, si credette in dovere di far intendere al duca la gravità della cosa. « Se la v. ex.tia non gli provede (scrive Ambrosino) sarà forza che la mitade de quello paexe fugia, et questo è per le extreme superghie spexe se gli dano, et se le dicte spexe che se li dano vegnessero in utile de la camera vostra non ne parlaria persona alcuna; ma gli è una frota de mangiatori che mangiariano questo mondo et l'altro, et el magiore de quisti mangiatori si è Fatio Galarano ». Prega pertanto il duca di voler riconoscere ai brianzoli i loro privilegi, ciò essendo di vantaggio alla stessa camera ducale, diversamente, « quando gli uomini se absentassero, si caverebbe molto poco ».
Il duca si decise finalmente a riconfermare i privilegi il 29 marzo 1476, (249) ma il 26 dicembre di quell'anno, mentre stava per entrare nella chiesa di S. Stefano in Milano cadeva pugnalato dai congiurati. Gli smoderati carichi di cui aggravava i suoi sudditi per l'ambizione di fare eccedenti spese, e di mantenersi una corte che superasse ogni altra, gli procurarono così triste fine.
La duchessa Bona di Savoia, assunta la reggenza in nome del piccolo duca Gian Galeazzo, riconfermò i privilegi all'Università briantina il 4 marzo 1478. (250)
Subentrato Lodovico il Moro nella reggenza del Ducato, i brianzoli si videro di nuovo angariati dal commissario Genesio Anguissola, nobile cavaliere piacentino. Il duca riconobbe i loro diritti e rese loro giustizia.
Morto Gian Galeazzo nel 1494, il Moro, divenuto duca anche di nome, si diede ad una politica avventurosa, la quale portò al travolgimento del Ducato. Su le nostre terre, con alterna vicenda, passarono dominatori i francesi, gli svizzeri e gli spagnuoli: Massimiliano e Francesco II Sforza non furono, si può dire, che l'ombra del loro potere, dominati dagli stranieri ai quali dovevano il trono.
I sudditi furono oppressi dagli alloggiamenti militari e da continue richieste di denaro. (251)
Per tutto questo calamitoso periodo non ho trovato alcuna esplicita riconferma ai brianzoli dei loro privilegi. Si ha tuttavia che nel 1509 l'Università briantina pagava ancora in base ai privilegi, e che le terre esenti di Vimercate e le squadre dei Mauri e di Nibionno erano convenzionate nella somma partitamente spettante alle pievi di Garlate, Oggiono, Missaglia, Brivio e Agliate (ultra Lambrum).
Nel 1514 dal duca Massimiliano Sforza sembra siasi pensato ad un nuovo estimo del Monte di Brianza seguendo la circoscrizione territoriale delle pievi. Le squadre dei Mauri e di Nibionno (della pieve d'Incino) reclamarono, in base ai privilegi, di esservi comprese.
Copia autentica dei suoi privilegi presentò l'Università briantina nel 1520 e nel 1525, presentazioni fatte allo scopo di andare esenti da nuove imposte e tasse.
Che poi i brianzoli ne andassero in realtà del tutto esenti, è lecito dubitare, dato il caos di quegli anni. Così, ad esempio, quando con proclama del 13 febbraio 1516 si impose dai francesi la contribuzione alle terre del Ducato di centomila ducati per pagare l'esercito, il Monte di Brianza vi concorse per lire 18.300; somma che fu divisa fra le pievi « ad domputum de libr. XX pro quolibet miliario libr. seu ad computum de libr. duabus pro centenario ». La pieve di Oggiono, estimata lire 175.040, fu tassata lire 3508; la pieve di Missaglia, estimata lire 265.180, fu tassata lire 5336; la pieve di Garlate estimata lire 175.390, tassata lire 3578; la pieve di Brivio estimata lire 210.150, tassata lire 4023; la pieve di Agliate (ultra Lambrum) estimata in lire 93 mila, tassata lire 1860.

*

Francesco II Sforza principe buono e saggio, il 7 febbraio 1523 ordinò che in modo più perfetto si rifacesse l'estimo del Monte di Brianza, fatto compilare dal nonno.
Gerolamo Brebbia, a ciò incaricato dal duca, udito il parere degli anziani delle pievi e delle squadre del Monte di Brianza, stabilì che il 14 marzo ciascun possessore di fondi, esente o meno, tanto secolare quanto ecclesiastico, dovesse notificare i suoi beni immobili indicandone in iscritto il preciso perticato e le qualità, cioè se terreni sassosi, colli, valli, se ronchi, vigne, campi, pascoli, prati, selve, brughiere, cascine, molini, diritti d'acqua, livelli od altro; e che un'eguale notifica dovesse pur farsi per i beni mobili quali le rendite derivanti da esercizi, commerci di mercanzie, ecc.; e con la numerazione delle bocche dai sette anni sino ad anni sessanta, acciò si potesse poi a tempo debito compilare un estimo più perfetto tanto per i carichi ordinari quanto per quelli straordinari.
Dal 13 di aprile sino alla fine del mese dovevano gli interessati presentare le loro notificazioni al cancelliere a ciò deputato, il quale doveva risiedere in Santa Maria Hoe.
Le ricerche fatte per rintracciare questo censo interessante mi rimasero senza risultato.
*
Con la morte di Francesco II Sforza senza eredi nel 1535, il ducato di Milano passò in pieno dominio della Spagna.
Successivamente l'imperatore Carlo V il 27 agosto 1541 vi emanò per la prima volta le Nuove Costituzioni.
L'Università del Monte di Brianza supplicò e ottenne dall'imperatore il 19 settembre la riconferma «de verbo ad verbum» dei suoi privilegi. (252)
Se non che, alcuni anni dopo, (1544) il Vicario del Monte di Brianza divenne il vicario regio di tutta la Martesana, con mero misto imperio, nel quale rimase assorbito quello del Monte di Brianza, pur continuando i brianzoli a godere le loro esenzioni. (253)
Ad ogni modo mi risulta che iusdicenti, col titolo di vicari del Monte di Brianza, continuarono a dirimere cause nel territorio briantino, e verosimilmente entro i limiti originari fissati da Francesco I Sforza e confermati da Carlo V.
Un Molgula, in qualità di vicario del Monte di Brianza lo troviamo in testa ai firmatari di una supplica dei signori del Monte di Brianza del 28 aprile 1579 datata da Milano, e diretta alla Sacra Congregazione Romana in favore dei monasteri di Lambrugo, Brugora, Bernaga e Cremella onde non fossero soppressi da S. Carlo.
Similmente il 27 luglio 1628 Alessandro Sirtori, vicario del Monte di Brianza, ad istanza del signor Benedetto Viganò procuratore del monastero di Bernaga, emanò sentenza in Barzanò, sua legale residenza, in una causa tra le monache e loro debitori per seme bachi dato e non pagato.
Dopo il Sirtori non ho trovato cenno d'altri Vicari briantini. Il Ruolo dei Regi Impiegati nello Stato di Milano circa l'anno 1650, fa parola del solo Commissario del Monte di Brianza.
Il seguente secolo XVIII doveva segnare il tramonto del dominio di Spagna. Vi subentrava quello austriaco. Ma se nella prima metà di quel secolo non molto si poté fare in meglio per il divampare delle guerre (dapprima per la successione di Spagna ed in seguito per la successione polacca, e per quella austriaca), nella seconda metà, ossia dalla pace di Aquisgrana (1748), si ebbe un periodo di lunga pace e di miglior benessere.
E' il periodo detto di Maria Teresa e di Giuseppe II.
Nonostante l'introduzione di nuove riforme statali accentratrici, si ha che Giuseppe II con dispaccio del 29 giugno 1784 si degnava di confermare ai brianzoli il privilegio dell'imbottato e dei dazi vecchi, rimasto assorbito nel dazio nuovo. (254)
In realtà le antiche esenzioni, ormai praticamente ridotte a ben poca cosa, erano divenute un intralcio al perfezionarsi dell'amministrazione statale. Sparirono completamente con la discesa in Italia dei rivoluzionari Francesi nel 1796, i quali instaurarono nuove forme di governo e di amministrazione e di circoscrizioni territoriali.
Del Monte di Brianza e dei suoi privilegi non rimase che il ricordo, lasciando via libera al formarsi confusamente di una nuova ed incerta Brianza (Brianza per modo di dire), la quale nulla aveva a che vedere col precedente Monte di Brianza.

*

Il lettore, a conclusione di questi appunti potrebbe domandare perché mai la moderna Brianza si è poi territorialmente tanto allargata.
Benché fin da secoli precedenti l'amena plaga collinare briantina non abbia mancato di suscitare le attrattive dei nobili e dei ricchi per un piacevole soggiorno di campagna, e tuttavia nel settecento, e più propriamente nella seconda metà, che la Brianza, non molto discosta da Milano, prese ad essere preferita come centro di villeggiatura.
Mentre da una parte, nel clima delle nuove riforme di Maria Teresa e più ancora di Giuseppe II, gli antichi privilegi, che nel passato avevano tenuto solidali i brianzoli nella difesa dei loro comuni interessi conservando perciò una certa qual circoscrizione stabile al territorio, venivano man mano scomparendo, dall'altra il sorgere di nuovi gusti e di nuove esigenze, sgorgate da un maggior benessere col rifiorire dell'economia lombarda, spingeva nobili e ricchi a procurarsi sontuose ville in luogo delle vecchie case da nobile.
E poiché possedere allora una villa nel Monte di Brianza era segno di distinzione, si prese a chiamare Brianza anche le amene località situate alla destra del Lambro dove venivano erette (Carate, Mariano, Inverigo, Alzate, Cantù, Pian d'Erba, ecc.).
E non soltanto i nobili e i ricchi, ma altresì anche nelle categorie sociali inferiori, quando dai milanesi si poteva avere una casetta od un poderetto o fare una scampagnata in quelle parti, si diceva possedere o andare in Brianza.
Né qui si è fermato il movimento di assestamento territoriale della nuova Brianza. Col passare degli anni, e specialmente dopo il 1796, venne sempre più allargando i suoi confini sotto la spinta dei paesi stessi circonvicini i quali ambivano di farvi parte.
A dilatare ed a rafforzare tale uso, mancando ogni freno, si prestarono anche gli scrittori della prima metà del secolo XIX, ed in particolar modo i due fratelli Cantù per dare maggior respiro ed interesse ai loro scritti di storia briantina.
Perciò oggi c'è chi, non allontanandosi troppo dall'antico Monte di Brianza, chiamerebbe Brianza il territorio incluso tra il Seveso e l'Adda al nord di Monza. escludendo la Vallassina, la quale infatti si resse con statuti propri.
Altri invece vi comprenderebbero la Vallassina e la zona a sud di Monza fino a Milano (tra il Seveso e l'Adda); territorio per la maggior parte costituito dal comprensorio del Lambro..
Per costoro, il Lambro non segnerebbe più, come nei passato, il confine occidentale della Brianza, ma il centro per il lungo quasi nume benefico.
In altre parole per costoro la Brianza non sarebbe altro che il territorio lambrano, facendone derivare altresì con poetica fantasia, l'etimo dal Lambro stesso: Lambro; Lambrianza; Brianza.
Questa nuova Brianza lambrana, messa in campo dai dirigenti del Sodalizio «Amici della Brianza », viene abilmente propagandata con scritti e carte geografiche. (255)
Altri ancora vorrebbero senz'altro Brianza tutto l'antico contado della Martesana, dall'Adda ai confini con quello del Seprio, e dalla Vallassina sino a Milano e con qualche aggiunta in più.
A sostegno del proprio modo di vedere, non avendo documenti sui quali appoggiarsi, ci si richiama non rare volte all'uso corrente. Senonché l'uso, per sé è vago ed incerto, e non rare volte erroneo. Talora poi si abusa con l'affibbiargli ciò che interessa fargli dire.
Queste differenti Brianze, uscite dal cervello di pensatori diversi, verrebbero a dar ragione a Cesare Cantù, il quale lasciò scritto che della Brianza non si conosce né l'origine, né il significato, né i limiti. (256) E tutto ciò perché non si tiene calcolo né degli antichi oscuri avvenimenti del colle di Brianza che lasciarono a quell'altura un alone di celebrità, né dei privilegi viscontei-sforzeschi senza dei quali questa zona sarebbe rimasta un territorio anonimo qualunque come tant'altri pur belli, oppure chiamato con altro nome.
Comunque sia, come già scrissi altrove, non è raro il caso di sentire tuttora distinguere sia a voce che in iscritto, con una certa quale aderenza storica, il Comasco, il Canturino, il Pian d'Erba, la Vallassina, il Lecchese, il Monzese, il Milanese, riservando il nome di Brianza a quella parte tra l'Adda e il Lambro a sud della Vallassina e al nord di Monza, che storicamente fu e dovrebbe essere la vera Brianza, ossia l'antica Università, o Provincia del Monte di Brianza come si scriveva talora nel secolo XVIII, zona fiscalmente privilegiata che faceva parte della Martesana superiore ed i cui abitanti vissero fra loro in stretta unione di interessi e di tradizioni.


DOCUMENTI

I.

ASM, Reg. Duc., N. 51, fol. 84-87 (257)

Franciscus Sfortia Vicecomes dux Mediolani etc., Papie Anglerieque ac Cremone dominus.

Cum alias spectabiles et egregii dominus Nicolaus de Arcimboldis, nunc consiliarius noster, et dominus Pacinus de Perusio ac Iacobinus de Bosis, commisarii et mandatarii nomine Ill.mi quondam et ex.mi domini domini ducis, soceri et patris nostri, et nunquam delende memorie, domini Filippi Marie ducis Mediolani etc., fecerint et constituerint infrascriptas plebes, communia, et homines et singulares personas pro bonis ut infra exemptos etc., videlicet totam plebem Galarate (sic),(258) totam plebem Ugloni, totam plebem Brippii cum Roncho, et totam plebem Massalie. Item squadram de Maueris cum Bosisio et Gambagnate Rupto, (259) et hoc pro bonis que tunc habebant in dictis plebibus, squadra ac locis et territoriis tantum. Item infrascriptos pro bonis que habebant in squadra de Nibiono plebis Incini tantum, videlicet in locis et territoriis post unumquemque eorum descriptis tantum, et pro bonis que tunc temporibus habebant tantum.s Ita tamen quod si aliqui ex eis laborarent aliqua bona aliena non exempta pro eis solvere tenerentur. Primo: heredes Guillielmini de Rippa de Galbiate in ioco de Petana; Augustinum de Rippa in loco de Calvenzana; Johannem de Isachis in suprascripto loco Calvenzane; heredes Maffini de Isachis pro bonis que habebant in locis Nibioni et Tabiaghi cum mollandino de La cirexa; Paulum de Rippa in Tabiagho et Nibiono; Petrum de Salla in loco Calvenzane et Rozano; heredes quondam Curtini de Geroxa in loco de Calvenzane; Grappellum et fratres de Curte in loco Calvenzane; heredes quondam Conti de Madio in locis de Petana et Rozano; Jacobinum de Isachis in locis Tabiaghi et Nibionni; dominum Johannem de La canalla pro bonis que habebat in Somarino; Johannem et Bosium ac fratres de Maueris pro bonis que habebant in loco Petane; Simoninum, Antonium et Andreinum fratres de Nava, et Bertinum eorum nepotem, in locis Nibioni et Mazulini; Antonium de Issachis in Berzescho; Girardum et fratres de Rigamonte in Sugarono; dominum Bendinum de La canalla in Mazolino; Girardum de La bonacina pro bonis que habebat in Somarino, Tirighori (260) et Masnagha; Papam de Amatis de Mozana pro mollandino de Lacrota; heredes quondam Testoni de Uglono pro bonis que habebat in Trigori. Item infrascriptos pro bonis que tunc habebant in plebe Aliate, videlicet in Locis et territoriis post unumquemque eorum descriptis et pro illis bonis que tunc habebant tantum hoc tamen intellecto quod si collerent vel ad fictum tenerent alia bona quam propria pro ipsis solvere tenerentur, hac exemptione non obstante, que tamen respectu propriorum firma remaneret, et etiam non obstante quodam decreto ducali in contrarium disponente; heredes quondam Antonii de Casate de Monte pro bonis que habebat in Monte, Valle, Vedugio et Besana; heredes quondam Cavalerii de Ferrariis de Monte, in Monte et in Valle; heredes Iacomoli de Maffiis de Monte, in Monte et Cassalia; heredes quondam Mafioli de Riboldis de Besana, in Besana, Cazano, Balgano et Ranate; heredes Gasparis Ayroldi de Besana in suprascriptis proxime locis; heredes Petri de Besana ut supra proxime; heredes Minolli de Riboldis de Besana ut supra proxime; Stefanolum de Giovenzana in Besana superiori et inferiori; heredes Petrazzolli de Labarreta in Besana superiori; Nigrum de Rendatoribus de Perego in Ranchate; Franciscum, Gasparrinum, et Johannem de Perego in Renate; Guilielmum et Johannem fratres de Rendatoribus de Perego pro bonis que habebant in Renate, Viganore et Casareto; Vaninum et Stefanum fratres de Perego filios quondam Lanoye pro bonis que habebant in suprascriptis locis Renate, Viganore et Casareto; Donatum de Perego filium quondam domini Guilielmi, et heredes quondam Gulielmoli, ac Rubeum de Perego filium quondam Compagnoli pro bonis que habebant in suprascriptis proxime locis; heredes domini Finoli de Rippa in Colzano; Bertinum de Nava in Monte; heredes quondam Gasparris de Rippa in Besana; Pedrazinum de Bartezagho pro bonis que habebat in Valle, Zuchorino prope Montem et Besanam. Item infrascriptos pro bonis que habebant in plebe Aliate ultra Lambrum prope Montem et Besanam. Primo: dominum Filippum de Andriotis de Rippa de Galbiate pro bonis que habebat in loco de Zergnieto; Gabrielem de Rippa de Galbiate pro bonis que habebat in Villaravario; heredes quondam Guilielmi dicti sighezie pro bonis que habebant in Tornagho; dominum Simonem, Johannem et Ambrosium fratres de Rendatoribus de Perego pro bonis que habebant in Viganore et Capriano; Antonium de Nava in Vedugio; Bernardum de Madio pro bonis que habebat in Ruzinigo. Item Antonium de Abdua et massarios suos pro bonis que habebat in loco de Bernate plebis Vicomercati tantum. Item infrascriptos pro bonis que habebant in plebe Vicomercati, videlicet: dominum Johannem de Molgula pro bonis que habebat in locis et territoriis de Bernadigio et Villanova; Bernardinum de Lavello filium quondam domini Zenardi in burgo et territorio Vicomercati; Filippum de Andriotis de Rippa de Galbiate pro bonis que habebat in Zergnio et Pegorino et eorum territoriis. Item infrascriptos in plebe Pontiroli, videlicet: dominum Vincentium de Cornu de Porchera pro bonis que habebat in locis et territoriis de Colnagho, Busnagho et Portu; heredes quondam domini Tadioli de Vicomercato, ac heredes quondam domini Bassiani de Vicomercato pro bonis que habebant in loco et territorio de Ronzello, et collentes et eos qui per tempora collerent et habitarent de eorum bonis ut supra. Que suprascripte plebes, communia et heredes' (sic) (261) ac singulares persone ut supra exempte preserventur et preservari debeant et manuteneri pro tempore curso a Calendis Ianuarii anni 1440 proxime preteriti citra, et etiam de cetero in perpetuum immunes, liberi et exempti, ac libera, immunia et exempta ab omnibus et singulis oneribus et decretis quibuscumque, taleis, mutuis, focis, imbotaturis quorumcumque fructuum, inventariis condiciis et subsidiis, guastatoribus custodiis, impositionibus, officialium salariis, furnimentis, stipendiariis, et graviminibus, et generaliter oneribus quibuscumque cuiuslibet generis et maneriei, et quocumque nomine contingat nuncupari, tam realibus quam personalibus atque mixtis, et tam ordinariis quam extraordinariis impositis seu quomodolibet per ducalem dominationem, vel officiales suos, vel per Commune Mediolani, vel agentes pro eo, ipsis exemptis sive alicui vel aliquibus eorum et tam in universo quam in singulari, et tam generaliter quam specialiter, excepto tamen onere salis pro tempore tunc futuro, et exceptis datiis ordinariis transitus seu transversi, et conductionibus merchantiarum et rerum ad civitatem Mediolani, et exactionibus extra territorium Mediolani, datiis mercantie et ferraritie Mediolani, panis, vini et carnium et doane, quibus subiacerent alii. Ita et taliter quod prelibatus quondam dominus nec eius Camera nec Commune Mediolani, nec officiales eorum, nec alicuius eorum, nec ali-qua alia persona pro eis vel eorum nomine non possent nec valerentquovismodo vel pretextu vel per modum alicuius, decreti, proclamationis, vel litterarum aut alicuius impositionis generalis vel spetialis quomodocumque quicumque petere, requirere, consequi nec habere a dictis exemptis nec ab aliquo nec aliquibus eorum in universo nec in singulari, nec super eorum, nec alicuius nec aliquorum eorum bonis ubicumque sitis ut supra. Et quod, occasione predictorum omnium, dicti exempti omnes simul et coniunctim, videlicet quilibet eorum pro rata sui extimi tenerentur et deberent solvere prelibato quondam domino seu eius thesaurario certam, et ibidem expressam, omni anno pecunie quantitatem. Jta etiam, et hoc declarato, quod prefatus quondam dominus dux, nec eius camera, nec agentes pro eo vel pro ea, nec Commune Mediolani aut agentes pro eo, nec officiales eorum, nec aliquis eorum, nec aliqua alia persona pro eis vel eorum nomine non possent nec valerent, nec eis aliqualiter liceret, nec lìcitum foret àliqua datia, nec aliqua onera realia, nec personalia, nec mixta, ordinaria nec extraordinaria, nec alicuius alterius maneriei quocumque nomine nuncupari contingeret, etiam si talia forent de quibus oporteret mentionem fieri spetialem vel individuo facere, excepta gabella salis et datiis ordinariis transitus, et ut supra, imponere et petere, requirere et exigere, nec habere, nec imponi, requiri, peti, nec exigi facere dictis exemptis nec alicui eorum in universo nec in singulari, nec in nec super eorum bonis, nec eorum massariis, fictabilibus, mezadris, aut factoribus vel collonis, vel super rebus vel fructibus eisdem per tempora pertinentibus, etiam si alias solvi vel exigi solita fuerint, nec solvere tenerentur nec cogi possent ad solutionem alicuius cambii thesaurarii exactorii caneparie suprascripte quantitatis pecunie solvende ut supra, nec etiam pro illis quantitatibus que secundum formam et tenorem instrumenti eiusmodi conventionis et contentorum in eo solvi debuissent ut supra, dummodo suis et contentis terminis satisfarent. Hoc etiam declarato quod omnia bona immobilia tam clericorum quam laycorum que participarent vel participare contingerent beneficio dicte exemptionis seu dictarum exemptionum, non tamen excedendo declarationem supra factam locorum et personarum, tenerentur ad solutionem dicte quantitatis pecunie in dicto instrumento specificate ad ratam pro rata. bonorum participantium ut supra, et quod si aliqui ex illis qui gaudere deberent dicta exemptione fuissent negligentes, infra decem dies post factum sibi preceptum per deputatos super receptione dicte pecunie, in solvendo eorum contingentem portionem in terminis ordinatis canepario qui fuisset deputatus, quod licere aliis in dicta Universitate exemptorum ab ipsis talibus exigere imbotaturas et quelibet alia onera prout facere potuisset camera ducalis, seu Commune Mediolani aut agentes pro eis, si nullam ipsi tales haberent exemptionem. Et hoc pro illo anno quo fuissent negligentes ut supra, etc., et prout constat publico instrumento rogato per Gabrielem de Micheriis notarium Mediolani anno 1440 die dominico, quinto mensis, seu anno, die et mense in eo contentis. - Nunc vero cum ipsis effectibus experti fuerimus integram erga nos et statum nostrum fidem et devotionem dilectissimorum nostrorum hominum Montis Brigantie et Marthesane superioris ac partium circumstantium, nec minus firmissimam, qua adversante olim nobis et sibi fortuna, constantiam et tollerantiam invictissimis animis usi continue fuerunt in sustinendis et reprimendis pro posse invasionibus hostium, supportandisque gravissimis iacturis quas cum ipsis hostibus tum quoque ab exercitu nostro passi diversimode fuere, multa nos invitarent ut ipsos homines liberalitate et gratia, et favoribus nostris presequamur. Primum quidem exempla Ill.rum quondam predecessorum nostrorum, qui cum homines suprascriptos exemptionibus et gratiis suis continue donaverint, nos ad eorum imitationem induxerunt, dehinc continuata semper eorumdem hominum erga prefatos dominos predecessores nostros affectio et promptitudo a qua numquam comperti sunt deviare; accedit etiam consideratio, situs partium ipsarum et denique hominum eorumdem in rebus bellicis probitas et laborum tollerantia qua plurimum comendantur. His autem et multis aliis rationibus non immerito moti, et considerantes ultra que supra memoravimus diversa et gravissima damna, pericula, incendia, captivatione et bonorum ac fructum spoliationes aliasque infinitas iacturas quibus in proximis bellorum strepitibus affecti sunt, decernimus cum eis ita agere quod intelligant benemerita sua apud nos cognita esse atque gratissima, et maiorem concessis per prefatum nunquam dellende memorie patrem et socerum nostrum honorandissimum, suosque predecessores mllustrissimos dominos Vicecomites liberalitatem et gratiam nostram impartiri atque concedere. Ex certa igitur scientia, motuque proprio et de nostre potestatis plenitudine etiam absolute, easdem plebes, communia et homines et singulares personas in dicta concessione de qua supra et superius expressos pro se et bonis ut supra expressis necnon infrascriptas personas de quibus infra et pro bonis infrascriptis, si et quatenus bona ipsa sint ultra Lambrum versus flumen Abdue, et ita et taliter quod pro bonis et personis infrascriptis immediate nobis non suppositis non teneamur ad aliquam remissionem infrascripte annualis pecunie quantitatis nobis ut infra solvende, si hac concessione exemptionis et infrascriptis per nos concessis, ipse infrascripte persone immediate nobis non supposite vel pro nobis immediate nobis non suppositis, ut supra, gaudere aliqualiter prohiberentur, que tamen persone pro nobis ipsis nobis immediate non suppositis, tantum in dicta annuali solutione non graventur. ita etiam et taliter quod si ex ipsis supra vel infra nominatis, tam in genere quam in specie, reperirentur esse aliqui a nobis vel a predecessoribus nostris in ducatu habentes immunitatem vel exemptionem, quod nihilominus ipsi tales teneantur pro eorum rata quantitatum nobis ut infra solvendarum, dicta tali exemptione vel immunitate non obstante, exceptis tamen Iohanne de Molgula, Antonio de Molgula et Johanne de Calcho, quibus exemptiones et immunitates per nos eis concessas servari volumus et intendimus ad nostrum beneplacitum; pariformiter etiam excepta villa de Imbersago quam ad nostrum beneplacitum exemptam et immunem preservari volumus et iubemus, volentes ac declarantes et mandantes quod de dicta summa nobis annuatim, ut infra, solvenda quolibet anno, defalcentur et detrahantur ille quantitates que eos de Molgula et de Calcho et villam de Imbersago digne tangere verisimiliter possent ex ipsa quantitate nobis ut premittitur exsolvenda, nec ceteri pro eis se gravari possint et querellari. Primo: heredes Gulielmini de Rippa de Galbiate pro bonis que habent in Mazolino; Gabrielem de Rippa pro bonis que habet in ipso loco Mazolini; Johannem de Lacanalle pro bonis que habet in Somarino; et Johannem et Bosium ac fratres de Maueris pro bonis que habent in Camasiascha et Breno; Antonium de Isachis pro bonis que habet in Camasiascha, que tenentur per Zanetum fornaxarium; Girardum et fratres de Rigamonte pro bonis que habent in Centemero; Bendium de La canalle pro bonis que habet in Camasiascha; Vaninum et Antonium fratres de Consono pro bonis que habent in Recouro; Donatum de Anono pro bonis que habet in Roxanexo; heredes Bendii de Lacanalle pro bonis que habent in Mazolino cum mollandino; Dominicum et Gasparem filios quondam Tognoli de Maueris pro bonis que habent in Centemero; Lafranchum de Bulziagho et Martinum de Cazanigha pro bonis que habent in Colzano; heredes Marcoli et Luchini de Riboldis de Besana pro bonis que habent in Valle., cum presbitero Mafeo pro bonis paternis; Stefanolum de Giovenzana pro bonis que habet in Besana, sive dominum presbiterum Antonium Lafranchum et Magistrum Raynaldum fratres de Abdua pro bonis per ipsos ut dicitur a dicto Stefanolo in ipso loco Besane emptis; heredes quondam Gulielmi dicti Brigheti de Seregnio pro bonis que habent in Bruschò et Colzano; heredes quondam Johannis dicti Tavernini pro mollandinis et aliis bonis que habent in Aliate; heredes quondam Martini de Lacassina pro bonis que habent in Villaravario; Simonem et fratres de Rendatoribus de Perego pro mollandino de Aliate, sive in territorio de Varano, sive in flumine Lambri; Antonium de Nava pro bonis que habet in Corazana; heredes quondam magistri Raynaldi de Ayroldis de Robiate pro bonis que habent in Cavanagho; Antonium et Dionisium eius nepotem de Ayroldis de Robiate pro bonìs que habent in loco de Bernadigio; Johannem de Vicomercato pro bonis que habet in burgo et territorio Vicomercati; Stefanum de Vicomercato filium quondam Marzoli pro bonis que habet in Gadi; (262) heredes quondam Rebuchi de Abdua, heredes quondam Gullielmi de Abdua, et heredes quondam Teoldini de Lavacarezia pro bonis que habent in Cornate; Gasparrinum de Brianzia conestabilem pro bonis que habet in Colnagho; heredes quondam Petroli de Lavacarezia pro bonis que habent in Cornate. Tenore presentium exemptos facimus et immunes ab omnibus et singulis oneribus de quibus supra necnon respectu dumtaxat dictarum plebium Galerate (sic), Ugloni, Brippii cum Roncho, et Massalie a datiis panis, vini et carnium, necnon pro suprascriptis singularibus personis que sunt plebis Aliate nostri ducatus Mediolani a dictis datiis panis, vini et carnium, cum et quando ceteri de ipsa plebe Aliate exemptionem a nobis obtinuerint pro ipsis datiis panis, vini et carnium. Insuper liberamus, quietamus et absolvimus dictas plebes, communia, et homines, ac singulares personas de quibus supra, ab omnibus et singulis debitis quavis causa et occasione hinc retro factis seu contractis per dictos Communia, et homines, et singulares personas, vel aliquos ex eis tam cum camera prelibati quondam Illustrissimi domini ducis domini Filippi Marie quam predecessorum suorum, quam etiam cum Communitate Mediolani, et etiam ab omnibus condemnationibus tam ad dictam cameram quam ad cameram dicte comunitatis seu Communis Mediolani hinc retro factis, ita ut omnino liberati sint et absoluti prorsus sine aliqua solutione pecunie vel rei et sine ulla mollestia et impensa, remotaque omnis exceptione et non obstantibus aliquibus in contrarium, exceptis debitis occasione salis pro quibus teneantur dicta Communia et homines vel aliqui ex eis, tamquam posterii seu gabellatores seu officiales sive tempore vite bonememorie prefati quondam domini ducis domini Filippi Marie, sive inde citra post eius mortem, et excepto iure et sine preiudicio cuiuslibet juris tertii, a quibus non intendimus quietare nec liberare.
Pro qua quidem immunitate et concessione et liberatione antedicta convenerunt nobiscuxn dicte plebes, communia et homines, seu pro eis agentes, dare et solvere nobis, seu camere nostre seu thesaurario nostro generali, florenos duos mille a solidis triginta duobus pro singulo floreno pro anno, silicet 1450 proxime preterito, et ab inde in antea omni anno in perpetuum florenos duos mille quatuorcentum ad dictum computum solvendos pro medietate videlicet in festo sancti Martini, et alia medietate in festo nativitatis domini nostri Jesu Xpi cuiuslibet anni sine alicuius cambii solutione, factis ipsis solutionibus in dictis terminis, omni exceptione remota, eamque concessionem immunitatis et exemptionis ea lege fecimus et facimus, ita tamen quod nobis liceat et licitum sit per magistros intratarum nostrarum ordinariarum seu per deputandos a nobis vel ab eis facere limitationem et limitationes quantitatum vini, bladorum et feni pro quibus serventur et servari debeant exemptiones respectu imbotaturarum suprascriptis domino Johanni de Molgula pro bonis que habet in locis et territoriis de Bernadigio, de Villanova plebis Vicomercati; Bernardo de Capitaneis de Lavello filio quondam domini Zenardi pro bonis que habet in burgo et territorio de Vicomercato; Filippo de Andriotis de Rippa de Galbiate pro bonis que habet in Zergnio et Pegorino et eorum territoriis; domino Vincentio de Cornu de Porchera sive heredibus suis pro bonis que habent in locis et territoriis de Colnago, Busnago et Portu plebis Pontiroli; heredibus quondam Tadioli de Vicomercato, ac heredibus quondam Bassanini de Vicomercato pro bonis que habent in Ronzello et territorio, necnon suprascriptis omnibus aliis singularibus personis superius expressis, que honeste et debite videbuntur ipsis magistris, aut per nos aut per eos deputandis, dictis tamen omnibus et singulis exemptionibus de quibus in presenti concessione, sive in spetie sive in genere fit mentio, per nos concessis, tam respectu aliorum bonorum quam etiam respectu aliorum onerum, firmis et in suo robore permansuris et sine eorum preiudicio. Intelligendo tamen quod prenominati solummodo exempti sint ut supra et ut supra in quattuor plebibus videlicet Galarate (sic), Ugloni, Massalie, et Brippii cum Roncho, ac pro bonis ultra Lambrum versus Abduam ut supra et ut supra pro personis superius expressis in plebibus Vicomercati, Pontirolli et Aliate, ac in squadris de Maueris et Nibiono, videlicet in locis superius nominatis, pro illis dumtaxat bonis que ibidem habent de presenti, non autem pro bonis que de cetero acquirent et acquirere possent, quas limitationes facere possint si et quando eisdem magistris aut deputandis ut supra videbitur et placuerit. Insuper, ad tollendas seu minuendas impensas et ad evitanda discrimina iterum concedimus dictis plebibus et locis exemptis ut supra, silicet plebi Galarate (sic), plebi Ugloni, plebi Brippii, et plebi Massalie cum Roncho, quod eorum expensis tamen tenere possint officialem unum qui iura ministret in civili in partibus Montisbriantie usque ad quantitatem duntaxat librarum viginti tertiolorum, et cum eo habeant iudiciale banchum in partibus illis tantum, quodque Capitaneus Martexane nec alius officialis intromittere se possit nec intromittat de dicto officiali tenendo nec de eius iurisdictione absque nostra spetiali delegatione vel commissione sub pena indignationis nostre. Mandantes regulatori et magistris intratarum nostrarum tam ordinariarum quam extraordinariarum, necnon potestatl nostro Mediolani, ac Vicario et duodecim provisionum Communis nostri Mediolani presentibus et futuris ceterisque officialibus et subditis quibuscumque nostris, ad quos spectat aut spectare possit quomodolibet in futurum, quatenus has nostras concessionis immunitatis, exemptionis et gratie iitteras observent et firmiter faciant ac inviolabiliter observari, contra eas non intentantes nec intentari aliqualiter facientes aut permittentes pro quanto gratiam nostram caripendunt. In quorum testimonium presentes fieri et registrari iussimus etc.
Datum Laude die XXII decembris 1451. Cichus. (263)


II

ASM, Esenzioni, p. a. cart. 261.

Franciscus Sfortia Vicecomes Dux Mediolani etc., Papie Anglerieque comes ac Cremone dominus.

Dignum et conveniens arbitramur ut quemadmodum dilecti nostri Communitas et homines Montisbriantie qui, ex habita nobiscum alias conventione solvere annuatim tenebantur camere nostre florenos duos mille quatuorcentum valoris ad computum soldorum triginta duorum imperialium pro floreno, contenti sunt et offerunt pro sua erga nos fide et devotione de cetero supplere usque ad summam florenorum quatuormille singulo anno prefate camere nostre solvendorum incipiendo in presenti anno 1460. Ita et nos concessas eis immunitates, exemptiones et gratias, de quibus in privilegio quod a nobis habent concesso sub die XXII mensis decembris 1451 proxime preteriti latior fit mentio in recognitionem huiusmodi eorum oblationis, confirmemus quo validiores et efficatiores reddantur. Attendentes itaque oblationem et promissionem huiusmodi quam, ut prefertur, fecerunt Communitas et homines ipsi de supplendo usque ad summam florenorum quatuor mille camere nostre singulo anno persolvendorum, et ut intelligant optimam erga se dispositionem nostram, harum serie, motu proprio, ex certa nostra scientia et de nostre potestatis plenitudine et absolute, premissum privilegium per nos, ut prefertur, eis sub die XXII mensis decembris anni 1451 proxime preteriti concessum, necnom immunitates, exemptiones, iurisdictiones, remissiones, gratias, concessiones et reliqua in eo contenta, que hic pro sufficienter expressis haberi volumus ad que nos referimus, non modo approbamus, ratificamus et confirmamus sed denuo concedimus et impartimur de verbo ad verbum prout iacent ad litteram et omni modo, jure, via et forma quibus melius et validius possumus, supplentes omni defectui tam juris quam facti et cuiuslibet alterius solemnitatis que in premissis omnibus pretenderetur servari et intervenire debuisse. Decernentes quod mediante solutione florenorum quatuor mille predictorum nostre camere facienda his modis et formis et in illis terminis in quibus solvi debebant dicti floreni duomille quatuorcentum prout in dicto privilegio fit mentio, debeant Communitas et homines ipsi, respectu plebium, squadrarum, locorum et singularium personarum in dicto privilegio nominatarum, immunes et exempti et liberi esse et preservari in omnibus et per omnia prout in ipso privilegio continetur, ad quod habeatur relatio, reservatis datiis ordinariis transitus seu transversus et conductionis mercantiarum et rerum ad civitatem Mediolani, et extractionis extra territorium Mediolani, datiis mercantie et ferraritie Mediolani, et aliis de quorum reservatione in dicto privilegio fit mentio excepto etiam onere salis cum hac declaratione quod respectu ipsius oneris salis gravari non possint nec debeant ad levandum et solvendum maiorem salis quantitatem quam fieri consueverat tempore Ill.mi numquam dellende memorie domini ducis Filippi Marie olim patris et soceri nostri honorandissimi, intelligendo quod respectu pretii ipsius salis tractentur et tractari debeant prout tractabantur alii de ducatu nostro Mediolani: cum hoc etiam quod eligere et constituere valeant Communitas et homines ipsi in unaquaque plebe unum vel duos posterios pro fienda distribuctione salis qui cautam reddant cameram nostram prout hinc retro fieri consueverit. Hoc etiam expresse declarato quod ad solutionem predictorum quatuormille fiorenorum teneantur contribuere illi omnes qui contribuebant solutioni suprascriptorum florenorum duorum mille quatuorcentum, et insuper, ut maiore etiam liberalitate, et beneficentia utamur, liberandos et absolvendos duximus et per presentes liberamus et absolvimus Communitatem et homines ipsos nostros ab omnibus et singulis mulctis et condemnationibus contra eos et quemlibet eorum hinc retro tam in genere quam in spetie, et tam in comuni quam in particulari, quovismodo et quavis occaxione vel causa factis, videlicet que nobis et camere nostre quovismodo spectant et pertinent. Decernentes et volentes quod condemnationes ipse ubicumque descripte reperiantur omnino cancellari et annullari debeant, quas et nos per presentes cancellamus et annullamus ita quod earum causa nullo unquam futuro tempore molestari valeant vel inquietari. Intendentes tamen quod dicti Communitas et homines nostri Montisbriantie utantur et uti debeant pensis et mensuris debitis et usitatis, quodque officialis nostri bulli exercere ibi possit et valeat officium suum prout exercet in cetero ducatu, qui tamen officialis nihil aliud ab eis petere aut consequi possit nisi pro condigna mercede bullandi et adiustandi pensas et mensuras. Asserto etiam credito heredum quondam domini Antonii de Buttigellis erga dictos Communitatem et homines in suo iure permanente. Mandantes regulatori et magistris intratarum nostrarum tam ordinariarum quam extraordinariarum, necnon potestati nostro Mediolani, ac Vicario et duodecim provisionum Communis Mediolani presentibus et futuris ceterisque officialibus et subditis quibuscumque nostris ad quos spectat et spectare possit quomodolibet in futurum quatenus has nostras concessionis, immunitatis, et exemptionis et gratie ac confirmationis et liberationis litteras observent, et firmiter faciant ac inviolabiliter observari contra eas non intentantes nec intentari aliqualiter facientes aut permittentes pro quanto nostram caripendunt gratiam. In quorum etc.
Mediolani die XV decembris 1460.

Thomas.
Antonius.
Bartholomeus.
Cristoforus.
Blasius. (264)


III.

ASM, Censo, p. a. cart. 1591.

Jhesus.

Illustrissima domina,

Per che la Vostra Excellentia intenda quello pagava el Monte de Brianza a la ducale camera al tempo de la felicissima et nunquam dellende memorie illustr.mi ducis Filippi Marie clarissimi genitoris dominationis vestre: primo habebat ipsa ducalis Camera ab universitate predicti Montisbrianzie conventione singulo anno fiorenos MCC qui faciunt libras MCCCCXX et hoc tempore pacis, et tempore guerre florenos Illm CC qui faciunt libras Vm CXX imperialium.
Item de datio minuti panis, vini, carnium habebat quando incantabatur in quatuor plebibus Garlate, Ugloni, Massalie et Brippii singulo anno libras mille imperialium, et hoc propter licentias que concedebantur prestinis dictarum plebium de somis mille sexcentum, que sepe numero licentie valebant incantatoribus libram 1 imperialium pro soma.
Item levabant dicti homines tunc temporis cum intertiato staria MMDCCCXX salis, quod sal, ad computum librarum IIII° pro stario, ascendebat ad summam librarum XIm CCLXXX imperialium.
Nunc autem etiam ducalis camera habet a dicta universitate pro conventione fiorenos IIm CCCC, qui faciunt libras IIIm DCCCXL imperialium.
Item levant nunc cum intertiato staria IIm DCCCXX salis, qui ad computum librarum IIII imperialium pro stario ascendit ad summam librarum XIm CCLXXX imperialium.
Item pro additione de solidis III pro singulo stario libras CCCCXXIII imperialium.
Item noverit dominatio prelibata, super descriptione nuperrime facta bucharum in Montebrianza, fecerunt dicti homines summarium inter se pro veritate asumendo numerum bucharum a septem annis supra, sicuti disponit statutum, et abitiendo famulos et petissequas, non remanent buche tot, pro quibus possit illis hominibus addi staria CCLX salis non abitiendo de dictis buchis infirmos, surdos, cechos, et miserabiles, qui nulla ratione deberent poni ad onus salis propter eorum inhabilitatem.
Sed in his omnibus considerandum est quod tempore felicis memorie prelibati ducis dicta patria Montisbrianzie opibus et populo exuberabat, et multa faciebat tempore illo lucra, que nunc penitus cessant, et non remansit ad presens medietas personarum que tunc erant. De facultatibus non quarta illis pars remansit bononum que tunc habebant, quoniam pluris erant pretii suppellectilia domus et mulierum ornamenta quam que ad presens habent. Et hec omnia propter pestem, guerram et sacomana, pro quibus remanserunt in personis rarissimi et in opibus pauperrimi.
Et ut in omnibus veram habeat informationem prelibata clementia vestra, habebat camera clarissimi genitoris vestri in totum a dicta universitate tempore pacis libras XIIIIm CC imperialium, et tempore guerre addebantur floreni IIm.
Nunc autem habet ducalis camera a dicta universitate in totum libras XVm DXLIII imperialium.
Et tunc etiam multi ex hominibus illis habebant a prelibato duce multa offitia et benefitia, ex quibus convalescere poterant et onera melius sustinere.
A tergo: « Supplicatio universitatis Montisbrianzie». (265)

IV.

ASM., Sezione Storica. Miscellanea.

Filipus Maria Anglus Dux Mediolani, Venone etc. Papie, Angienieque Comes. Certifficati Ill.m quondam dominum ducem Mediolani germanum nostrum semper colende memorie alias concessisse suas patentes litteras tenoris huiusmodi videlicet. Dux Mediolani etc. Sic exigente benefitio restitutionis in integrum comunium, hominum et personarum Montisbrianzie partium nostnarum Martesane superioris, certis bonis respectibus de voluntate, consensu et beneplacito mag.ci et preclari Fazini comitis Blandrate patris et gubernatoris nostri honorandi restitutorum ad gratiam nostram sub qua cadit refirmatio immunitatum et exemptionum alias sic eorum exigentibus meritis per colende memorie Illustrissimum et Excellentissimum dominum genitorem nostrum concessarum, intellecta perprius serie quarumdam litterarum immunitatis et exemptionis concessarum in pattenti forma nonnullis de Imbersago, de Robiate et de Vicomerchato partium predictarum continentie subsequentis videlicet: Nos dominus Mediolani etc. Comes Virtutum, imperialis vicarius generalis. Quia per egregium virum dominum Matheum de Mandello, dillectum consanguineum nostrum, nuperrime extitit promissum nostro nomine infrascriptis nobilibus, qui unanimiter sponte se nostro subiecerunt dominio, faciendi eis per nos confirmari litteras tenoris subsequentis: Nos Dominus Mediolani etc. imperialis vicarius generalis. Attendentes Raynaldum et Franciscum fratres de Imbersago filios quondam Iohannis, Belonum de Robiate filium quondam Petri, Iohannolum de Robiate filium quondam Lantelmi, Ambrosium de Robiate filium quondam Minoli, Iohanninum de Vicomerchato filium quondam Bozii, Petrum de Imbersago filium quondam Zanis, et Ambrosium de Robiate filium quondam Moreschi, cives nostros Mediolani in guerra comitis Sabaudie fuisse nostros fideles et obedientes et causa ipsius guerre fuisse per rebelles seu inimicos nostros multipliciter dampnificatos in eorum domibus, possessionibus et bonis mobilibus et immobilibus; volentes itaque sue fidelitatis merita aliqualiter recognoscere, ut ex susceptione huiusmodi gratie non solum ipsa fidelitate circha nos perseverent, verum etiam ad mayora pro confirmatione et augmentatione nostri status et honoris libentius animentur, harum tenore de nostre plenitudine potestatis eosdem Raynaldum et Franciscum fratres, Bellonum, Iohannolum et Ambrosium, Iohannem, Petrum et Ambrosium et cuiuslibet eorum massarium absolvimus et liberamus et absolutos et liberatos usque ad nostre beneplacitum voluntatis fore decernimus, ab omnibus et singulis taleis, conditiis, datiis, impositionibus et oneribus quibuscumque, tam realibus quam personalibus seu etiam mixtis, cuiuscumque manieriei sint vel existant, tam etiam impositis quam de cetero imponendis: nolentes ipsos eorumque massarios occaxione predictorum de cetero robari nec personaliter molestari deberi. Mandantes insuper quibuscumque potestatibus, capitaneis, rectoribus et officialibus ac exactoribus nostris tam presentibus quam futuris quatenus hanc nostram gratiam debeant firmius observare et contra eam nullatenus attemptare presumant. Datum Mediolani millesimo trecentesimo septuagesimo quarto, die primo mensis iulii, duodecima indictione. Et volentes quod quecumque per eundem dominum Matheum promissa ipsis nobillibus observentur, harum serie ex certa scientia et de nostre plenitudine potestatis litteras ipsas in omnibus et per omnia sicut iacent et in eis continetur approbamus, rattificamus, facimus et de novo confirmamus. Mandantes universis et singulis capitaneis, rectoribus, offitialibus et subditis nostris quibus spectat et spectare continget in futurum et presentes pervenerint quatenus has nostras litteras observent et fatiant inviolabiliter observari. Datum Mediolani millesimo trecenteximo octuagesimo quinto, die ultimo maii, octava indictione. Easdem immunitatis et exemptionis litteras prout iacent ex certa scientia et de nostre potestatis plenitudine ratificamus, approbamus, confirmamus et de novo concedimus, et si forte aliqui vel aliquis ex nominatis in prefactis immunitatis litteris post earum concessionem ab hoc seculo transmigrassent, edicimus, volumus, decernimus et mandamus in ipsarum beneficentiam latiorem, quod immunitas huiusmodi seu immunitatis littere suprascripte locum habeant et servent ipsorum defunctorum heredibus in dictis partibus habitantibus partis gibeline et successoribus prelatorum. Mandantes omnibus et singulis potestatibus, capitaneis, vicariis, iusdicentibus, exequutoribus, exactoribus, consulibus, comunibus, singularibus personis ac quibuscumque offitialibus subditisque presentibus et futuris civitatis ducatusque nostronum Mediolani quatenus has nostras litteras ad eandem sicut sonant inviolabiliter observent ac fatiant et demandent ab aliis inconcusse servari sub nostre indignationis penam. In quorum testimonium presentes fieri iussimus registrari, nostrique sigilli impressione muniri. Datum Mediolani die quarto augusti MCCCC undecimo, quarta indictione. Litteras easdem immunitatis et exemptionis predictarum sicut iacent ad litteram et omnia et singula in eis contenta tenore presentium, ex certa scientia et de nostre plenitudine potestatis rattificamus, approbamus, confirmamus et de novo concedimus. Mandantes omnibus et singulis offitialibus nostris presentibus et futuris, ceterisque ad quos spectat vel spectare possit quomodolibet in futurum quatenus huiusmodi nostri rattificationis, approbationis, confirmationis et nove concessionis litteras observent et fatiant effectualiter observari, et contra eas et contenta in eis quicquam non attentent, nec patiantur aliqualiten attentari sub pena indignationis nostre. In quorum testimonium presentes fieri iussimus et registrari nostrique sigilli munimine roborari. Datum Mediolani die secundo februarii millesimo quadringentesimo tertiodecimo, sexta indictione. Signatum Conradinus et sigillatum sigillo ducali in cena alba.
Registrata ad cameram offitii refferendarie Domini et comunis Mediolani in libro incantuum datiorum et delivrationum anni 1459 pro 1460 in fo. CCXXIJ.

Blancha Maria Vicecomes ducissa Mediolani Cremoneque domina, Galeaz Maria Sfortia Vicecomes dux Mediolani, Papie Anglenieque Comites ac Ianue domini. Plenam hahemus notitiam et cognitionem de confirmatione alias facta per Ill.mum et Ex.mum felicis memorie principem dominum Francischum Sfortiam Vicecomitem Mediolani ducem etc. communem dominum, consortem et patrem nostrum collendissimum exemptionis quam ab Ill.mis predecessorihus nostris se obtinuisse affirmabant comune et homines loci de Imbersago plebis Brippii Montis Brianzie ducatus nostri Mediolani, quorum nomina sunt hec: Iohannes Paulus filius quondam Tadoli, Luchinus filius quondam Francisci, Maffeus, Iacobus et Andreas fratres filii quondam Bertoloti, Linus Bernardus filius suprascripti Io. Pauli, Antonius filius quondam Dionixii, Dionisius filius quondam Gasparini, Antonius et Iohannes fratres filii quondam Deffendini, Bertolla filius quondam Marchi, Iohannes filius quondam Georgii, Vanotus filius quondam Ravaloni, Dominus presbiter Lanzalotus filius quondam domini presbiteri Bizoli, Vannolus et Pedrazolus fratres filii quondam Lantelmi, omnes de Ayroldis de Robiate dicti de Imbersago, Arighetus et Antonius fratres filii quondam Francisci, Maffinus, Cristoforus et fratres filii quondam Pauli, omnes de Capitaneis de Lavello, Ambrosius filius quondam Iohannini, Antonius filius quondam Alberti ambo de Michilonibus, Beltramus filius quondam Thoghini (sic), Deffendens filius quondam Bonazoli et Vanninus filius quondam Bertoloti de Stabello, et Antonius Pastranni de Bupello et preshiter Sancti Marcellini ab omnibus et singulis taleis, tassis, conditiis, datiis, impositionibus et oneribus quibuscumque tam realibus quam personalibus atque mistis pro se filiisque ipsorum, heredibus et successoribus ac descendentibus ac pro bonis mobilibus vel immobilibus que tunc habuissent vel habere potuissent in posterum in loco et territorio dicte terre Imbersaghi, prout litteris memorati Ill.mi domini consortis et patris nostri Mediolani datis die XI maii MCCCCL abunde constat signatis Iohannes. Nunc vero, requisiti parte memoratorum hominum ut dictas exemptionis litteras confirmare et approbare velimus, vollentes ipsis complacere sic eorum fide et devotione in nos et statum nostrum promerentibus, ac attento etiam quod easdem litteras deputatis per nos super re exemptionum opportune designaverunt et debitam texaurario nostro pecunie solutionem prestiterunt prefractas exemptionis litteras de verbo ad verbum prout jacent ad litteram si in preteritum observata fuerint ad quas relationem haberi volumus et ibi per suffitienter expressis, laudamus, approbamus et confirmamus in quantum expediat denuo concedimus. Mandantes regulatori et magistris intratarum nostrarum, capitaneo Martexane, ceterisque offitialibus et subditis nostris ut memoratas exemptionis litteras et hanc nostram confirmationem firmiter observent, fatianque inviolabiliter obsenvari. In quorum testimonium presentes fieri iussimus et registrari, nostrique sigilli impressione muniri. Date Mediolani die quinto martii MCCCCLX septimo, signate Iohannes et sigillate sigillo ducali in cera alba prout moris est. (266)


V.

Formentini, Il Ducato di Milano, p. 438 e sgg.
Pro reformatione aestimi Montis Briantiae

« Havendo il nostro Illustrissimo et Eccellentissimo Signore Francesco Sfoza 2° Duca de Milano, deliberato et concluso per comune bene se refaccia lo estimo del Monte Brianza, et per sue lettere patente date a dì 7 de febraro proximo passato, signate de manu propria de Soa Excellentia, ac etiam signati Bartholomeus Rozzonus habbia commisso al Magistro Monsignor Hieronimo da Brebbia refaza dicto extimo con quella celeritate sia possibile, et deliberando Soa Magnificentia farlo con quella manco spesa et disturbo sia possibile, ha voluto havere il iuditio et parere de tute le plebe et squadre, qual modo sia più facile, et manco dannoso ad refare dicto extimo, et sono tutti convenuti in una opinione, che cadune porti li suoi beni in scripto, et secondo la valuta di quelli a caduno si habbia ad mettere in extimo ut infra, o como si troverà sia il dovere.
Per tanto per parte del prefato Monsignor Hieronimo de Brebbia Ducale comisario et delegato ut supra: se fa publico bando et comandamento che caduno de qualunche grado, stato o conditione voglia se sia, tanto ecclesiastico quanto secolare, Capitolo, Collegio, et Univensitate, tanto exempto, como non, et tanto habitante nel monte de Brianza, come altrove, quale habbia beni immobili de qualuncha sorte, livelli directi, de acqua, lachi, ed altri tanto caseggiati quanto non, etiam monti saxosi, colli, valle, ronchi, vigne, campi, paschu1i, prati, silve, bruganie, case, cassine, molini, et caduna altri, di qualunche sorta, ne le plebe, squadre et territorii del monte Brianza così ultra como da zà del Lambro et altri lochi, che sono soliti ad contribuire in pagare lo censo, overo conventione, (267) che ciaschaduno anno se paga a la Ducale Camera, et a quelli hanno dato da quella debia, per tutto el mese de aprile proximo, poso però la octava de Pasqua, de la resurrectione proxima advenire, zoè comenzando el primo giorno doppo però la octava de dicta festa, che sarà a dì 13 de aprile proximo che vene, portare et havere portato in scripto distintamente dicti soi beni, et rasone, et ut supra, con le sue qualitate, et cognomi de loci et vero numero de pertiche, et se ne ha in diverse plebe et quadre portare cadauni beni ad una Plebe et squadre quali siano de dicto monte Brianza, et ut supra separatim in le mane del Cancelere qual sarà ad questo deputato per Sua Magnificentia, qual al dicto termine se trovarà nel loco de Sancta Maria da Ho, seu Hoe, et lì starà residente tutto dicto tempo, zoè da dì 13 di aprile sino al fine d'epso mese per torre et ricevere la comparizione et portatione in scripto de beni ut supra, et tenerà separatamente libri et filze de caduna plebe et squadra, ad ciò non si faza confuxione, et questo intervallo di tempo dal dì de la presente crida, insino al dicto di primo poxo la dicta octava de Pasqua proxima, se dà et concede, aziò che ciaschaduno possa interim le sue proprietate considerare, et etiam mensurarse se hixogno li parinà per poter portare in scripto integramente, chiaramente, et distinctamente ut supra, et tute le predicte cose sotto pena de la confiscatione de tali beni, quali non saranno portati in scripto in dicto termino, et in el modo et forma soprascripta in le mane del dicto Cancelere, da essere applicato alla Ducal Camera, et lo accusatore haverà il terzo et sarà tenuto segreto.
Anchora che a cadauno anziano, et consule in dicto termine da dicte dì 13 aprile sine per tuto epso mese habia portato in scripto in le mani de dicto Cancelere, et tutti queli hanno beni immobili in li loci et territorj de Monte Brianza, cioè caduno console et anziano de li beni del suo locho et terra et loro territorij, aziò se possa poi vedere, et comprehendere se alcuno haverà contrafacto, o non.
Item debia havere portato in scripto et ut supra in dicto termino li execitij, et mercantie de caduno habitante in le dicte sove terre et loci, et loro territorij, debite referendo con le bocche de anni sete in suxo insino ad anni 60, acciò che al debito tempo se possa far l'estimo al debito modo, tanto circa a li carichi ordinarij, quanto a li carichi extraordinarij, et tutte le predicte cose soto la pena de ducati cinquecento d'oro, per ciascheduno console et anziano contrafacienti, da essere applicati ut supra, et se alcuno console o anziano non poterà pagare la pena pecuniaria ut supra, incorrerà et se intenderà essere incorso in la pena da tracti quattro de corda in publico, et se per caso le squadre di Maveni et de Nibiono non si troveranno havere consoli, né anziani, che il Podestà, o vero li potestati di epse squadre, siano tenuti fare le predicte cose, loco de li consuli et anziani sotto le pene predicte.
Certificando a ciaschaduno che se farà diligente investigatione, et chi se trovarà contrafaciente, aut inobediente sarà punito irremisibilmente et non se guarderà, né si haverà nispecto ad alcuno, certificando ancora che dicti termini non serano aliquo modo suspexi, nè prorogati, nè se admetterà excusatione alcuna, ma se procederà irremisibilmente contra gli inobedienti a le pene predicte.
Data a Milano a dì 14 marzo 1523. Signatus: Hieronimus Brebbia ducalis commissarius; et in calce: Evangelista - et sigillata etc.
Cridata ad scalas Palatij Broleti Mediolani per Aluysium de Marliano praeconem comunis Mediolani, die Veneris 20 Martij 1523 sono tubarum praemisso.
(Die Iovis 19 mensis martij 1523)
Retulit Aluysius de Marliano ducalis tubicem, se die lunae proxime praeterita, una cum Evangelista de Sancto Vitali concellario magnifici Domini Hieronimi Brebbiae ducalis comissarij in executione comissionis sibi factae, ivisse od infrascripta loca, et sono tubae congregatis pluribus plebanis debite referendo presentibus audientibus et intelligentibus, proclamasse suprascriptam Cridam ad solitas plateas infrascriptorum locorum debite referendo, et singulas copias suprascriptarum cridarum, signatas manu propria praefati Domini Hieronimi et sigillatas suo sigillo solito, et subscriptas Evangelista dimisisse, seu apposuisse ad plateas ipsorum locorum, prout solitum est fieri, et deinde singulas copias dimisisse ad domum infrascriptorum anzianorum debite referendo, seu eis personaliter repertis dedisse - Et primo.
Ad locum de Aliate et copiam ibidem ad plateam dimisisse praesente consule dictae terrae.
Aliam copiam dedisse Domino Aluysio de Casate, qui agit pro anziano dictae plebis personaliter reperto in loco de Bexana.
Deinde ad loca de Tabiago et de Boxisio pro squadris de Maveris et de Nibiono, et ibi singulas copias dimisisse ad eorum Plateas, aliamque copiam dedisse Marco Antonio de Boxisio Consuli dicti loci de Boxisio praesenti, audienti et intelligenti.
Deinde ad locum de Uglono et ad plateam ipsius loci unam copiam dimisisse, et aliam dedisse Domino Ioanni de Ixaelijs (Isachiis?) anziano dictae plebis personaliter reperto in dicto loco.
Postea vero, die martis pnoxime praeterita ad loca de Galbiate et Garlate et de Olginate in locis consuetis eam publicasse et unam copiam dimisisse ad plateam dicti loci de Garlate praesente consule dictae ternae, et aliam copiam dimissise ad domum habitationis Domini Ioannis Antonij de Rippa Anziani dictae plebis de Garlate praesentibus de eius familia.
Deinde ad loca de Brippio et de Merate ipsam cridam proclamasse ad plateas publicas et solitas, et copiam dimisisse seu apposuisse ad plateam solitam loci de Brippio praesente consule dictae terrae, et aliam copiam dimisisse Io. Ambrosio dicto el fra de Confanoneriis anziano dictae plebis, personaliter reperto in loco de Merate.
Deinde ad locum de Massalia et ibi ad plateam puhlicam et solitam publicasse dictam Cridam, et unam copiam dimisisse ad ipsam plateam, et aliam dimisisse domo habitationis Io. Iacobi de Subaliis Anziani dictae plebis praesentibus de eius familia, et in omnibus et per omnia et de verbo ad verbum, pnout continetur in suprascripta crida, et prout hahebat in mandatis egisse et fecisse et terminum statuisse.
Et die hodie ipsam cridam proclamasse ad scalas Palatij Broleti comunis Mediolani sono tuhae praemisso more solito, et copiam ut supra dimisisse ad offitium Panigarolarum iuxta solitum ».


* * * * * *